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 2016  dicembre 10 Sabato calendario

DOPING. I BUONI I FURBI E I CATTIVI


Senza trucco e senza inganno? Sembra quasi impossibile. Lo sport mondiale si lecca le ferite: vittorie, medaglie e record drogati; un elenco di atleti che passano dall’altare alla polvere (il marciatore italiano Alex Schwazer e la tennista russa Maria Sharapova, per citare i due casi più recenti): campioni privati dei titoli appena scesi dal podio (75 olimpionici “pescati” dopo Pechino 2008 e Londra 2012, l’intera squadra russa di atletica esclusa alla vigilia di Rio 2016); una caduta d’immagine per intere discipline (ciclismo, sollevamento pesi, nuoto, atletica...), con 550 casi svelati quest’anno dal dossier McLaren, inchiesta globale condotta su sport e sostanze vietate. Così non è più un tabù pronunciare la più infamante delle parole: doping.
Attenti al miglior imbroglione. Ma in questa caccia alle streghe condotta dall’Ama – l’Agenzia mondiale antidoping, creata nel 1998 dopo l’ennesimo scandalo scoppiato durante un Tour de France – per la prima volta (ed è la vera novità) si registrano voci fuori dal coro. Sono quelle di un gruppo di eretici: ex-sportivi, tecnici federali, medici e accademici che lanciano una provocazione: e se invece di vietarlo, ricorrendo a un proibizionismo senza se e senza ma, provassimo a regolamentare un “aiuto” sotto controllo medico? E se invece di setacciare sangue e urine in cerca di pozioni magiche (che tra l’altro si rinnovano ogni giorno, eludendo i controlli e favorendo i furbi), consentissimo lo sviluppo di prodotti migliorativi per tutti?
L’obiettivo è di smascherare il meilleur tricheur, come lo definisce con un paradosso Jean-Noël Missa, membro dell’Accademia Reale del Belgio, professore di filosofia delle scienze biomediche all’Università Libera di Bruxelles e uno dei più grandi esperti mondiali di doping. «È l’“imbroglione migliore”, quello che riesce a sfruttare il doping clandestino, a stare sempre qualche millesimo sotto i valori vietati, per furbizia o fortuna». Portando a un paradosso, che è anche una constatazione della realtà: il migliore dei campioni a volte non è quello che non si dopa, ma quello che sa farlo meglio degli altri. «E questo, dal punto di vista dell’equità sportiva, è un disastro. La politica dell’Ama – permettere agli atleti di concorrere su basi egualitarie, tutelandone la salute e sradicando il doping – si sta rivelando fallimentare, penalizzando i più puliti rispetto a quelli che si “aiutano” clandestinamente sfuggendo alle maglie dei controlli. Per questo sarebbe meglio discutere senza tabù e senza pre-giudizi». La storia dello sport, aggiunge Missa, ha molto da insegnarci. «Chi potrà mai, senza il contributo della medicina e della tecnologia, battere il 10’49 di Florence Griffith Joyner sui 100 metri? Chi potrà fare un crono migliore dei 36 minuti e 45 secondi con cui Marco Pantani scalò l’Alpe-d’Huez?» I tanti titoli ritirati la dicono lunga, poi, su come sono andate le cose negli ultimi anni. Parlando ad Oprah Winfrey, in una seguitissima intervista tivù, il ciclista Lance Armstrong confessò: «Per vincere il Tour era indispensabile doparsi». E a lui verranno annullati ben sette titoli. Poi Missa ci chiede: «Chi ha vinto la finale dei 100 metri donne a Sydney 2000? L’americana Marion Jones tagliò il traguardo per prima, ma venne poi squalificata. Quindi l’oro andò alla greca Ekaterini Thanou, arrivata seconda? No, anche lei sarà implicata in un affare di sostanze proibite. Risultato: non ha vinto nessuno». E questo cosa insegna? «Che sempre più atleti accettano di correre dei rischi pur di migliorare le prestazioni, diventando “soggetti di sperimentazione”. Ma in questa lotta tra Bene e Male non possiamo solo allungare la lista dei divieti (anfetamine, barbiturici, anabolizzanti, steroidi, ormoni, il famigerato Epo e perfino i recenti tecnofarmaci) e pensare che bastino poi i controlli stile polizia». Il tennista Rafa Nadal si è lamentato infatti di dover dare la sua posizione per un’ora al giorno, 7 giorni su 7 («Ho l’impressione di essere trattato come un criminale»); la sciatrice Lindsey Vonn è stata prelevata, sotto i flash dei fotografi, da un red carpet a New York per un test sulle urine; lo sprinter Phil DeRosier è stato sospeso per 6 mesi per un integratore alimentare che non figurava nella lista nera («Ma era simile», si giustificò l’Ama, «Ero la “quota” di quelli da punire», ribattè DeRosier). «Vogliamo continuare così, in modo casuale», conclude Missa, «o discutere seriamente di certe forme di bio-miglioramento sotto controllo medico?».
Una questione di business. John Hoberman è professore all’Università del Texas, autore di Testosterone Dreams ed è conosciuto come il più autorevole storico del doping in America. «Le attuali misure per combattere gli illeciti sono una charade, una farsa», dice. È un Davide contro Golia. «Come chiamereste un organismo come l’Ama, con budget da 30 milioni di dollari tipo il reddito annuo di una star del baseball, in lotta contro un business da 400 miliardi come lo sport-entertainment?». L’obiettivo della crociata antidoping, secondo Hoberman, e quindi «di beccare un po’ di mele marce, ma non troppe». I numeri dicono che dei 300mila test fatti dall’Ama in un anno, solo l’l% rivela sostanze vietate. «Una farsa, appunto, per chi conosce la realtà dello sport». E negli States, Hoberman non è da solo in questa battaglia. Con lui ci sono: Doug Logan, per anni commissario della Major League Soccer; Don Catlin, il doping detective incaricato di monitorare i Giochi di Atlanta 1996 e di Salt Lake 2002; Charles Yesalis, professore emerito della Penn State University. Per tutti il sistema va ripensato: «Stiamo sprecando risorse economiche e umane», sostengono. Andy Miah, professore di bioetica a Manchester, alza l’asticella della provocazione e propone addirittura un’agenzia mondiale Pro-Doping. Rispondendo a Vice Sports, per un’inchiesta intitolata “Le droghe hanno vinto”, ha detto: «Ci sono molti problemi associati all’uso delle sostanze proibite, che non vanno incoraggiate. Ma per farlo sarebbe meglio cercare alternative che non facciano male alla salute degli atleti, piuttosto che continuare a inseguire fantasmi».