Edoardo Segantini, La Lettura 11/12/2016, 11 dicembre 2016
«I ROBOT? ROBIN HOOD ALLA ROVESCIA» – Le persone non servono . Il titolo è crudo. E il contenuto è avvincente
«I ROBOT? ROBIN HOOD ALLA ROVESCIA» – Le persone non servono . Il titolo è crudo. E il contenuto è avvincente. Arriva in Italia, edito dalla Luiss, l’ultimo libro dell’americano Jerry Kaplan sulla nuova rivoluzione delle macchine e i suoi effetti sull’occupazione. Dove si racconta di come i recenti progressi nella robotica, nelle «macchine che imparano» e nella loro capacità percettiva, stiano attivando una nuova stirpe di sistemi capaci di rivaleggiare con la mente umana, se non di superarla. L’autore ha la visione futuribile dell’uomo di laboratorio e il realismo del creatore d’imprese. L’intelligenza artificiale, che Kaplan considera l’equivalente incruento del progetto Manhattan (che creò la bomba atomica), sta avanzando su due fronti: sistemi che apprendono dall’esperienza come le persone; dispositivi che nascono dal matrimonio tra i sensori e i robot, cioè macchine che vedono, ascoltano e interagiscono con l’ambiente circostante. Kaplan ne parla in un’intervista a «la Lettura». Gli effetti del progresso tecnologico dividono gli esperti, tra ottimisti, pessimisti e catastrofisti. Leggendo il suo libro, si direbbe che lei non appartenga ad alcuna di queste categorie. È un’impressione corretta? «Sì. Il dibattito sulla “disoccupazione tecnologica” è troppo semplificato. La realtà è enormemente più complessa. L’automazione ha sempre investito i mercati del lavoro, che però sono molto flessibili e capaci di adattarsi. I costi dell’ high tech tendono a concentrarsi, i benefici a diffondersi. E il peso maggiore ricade sui lavoratori, che vengono rimpiazzati dalle macchine. Mentre i vantaggi, in termini di prezzi inferiori, migliori prodotti e crescita del benessere, si dispiegano più lentamente, ma si estendono a una parte molto più ampia della società». Ma volendo a tutti i costi una sintesi? «Si può dire che la tecnologia cancella posti di lavoro a breve, ma nel lungo periodo crea benefici per tutti, inclusi gli stessi lavoratori». Gli economisti parlano di «distruzione creatrice». Preoccupa molto però la transizione da oggi, tempo della «distruzione», a domani, quando la disoccupazione si spera sia compensata dall’avanzare di tecnologie capaci di creare nuovo lavoro. Ma quanto durerà questa transizione? «L’urgenza dei problemi dipende principalmente dalla velocità dei processi. In passato abbiamo sostituito quasi tutti i lavoratori agricoli con le macchine (ed erano la maggioranza della popolazione attiva), ma abbiamo impiegato alcuni secoli: perciò gli effetti sono risultati diluiti. Ma se, nel giro di dieci anni, sostituiamo i camionisti con camion che si guidano da soli, sarà invece chiarissimo a tutti quello che accade. E ai lavoratori non piacerà». Quindi? «Penso che siamo alla vigilia di una nuova, poderosa ondata di automazione, che probabilmente avrà un ritmo simile alla rivoluzione informatica degli ultimi vent’anni. Ciò detto, si può fare molto per aiutare le persone che saranno sostituite o che svolgono lavori superati». Nel mondo la disuguaglianza sta già aumentando drammaticamente. In che misura ne ha colpa la tecnologia? «Come spiegava Marx, l’automazione sostituisce lavoro umano con capitale: quando l’automazione aumenta, è il detentore del capitale che ci guadagna di più. Il robot rende il ricco ancora più ricco a spese del più povero, principalmente i lavoratori. È difficile dire quanto, ma certamente l’automazione, con o senza intelligenza artificiale, approfondisce il divario sociale. A un certo punto, credo, la società dovrà decidere quanta disuguaglianza è davvero “troppa”. Si tratta di una scelta di politica economica, che dipende solo da noi». Lei descrive un mondo popolato da «intelletti sintetici» e «lavoratori artificiali». Parole dal suono sinistro. «Sono termini descrittivi utili per aiutare il pubblico a capire dove stiamo andando. Non intendo spaventare nessuno, come non sono spaventato io, che in prospettiva sono anzi ottimista. Bisogna però essere consapevoli degli effetti collaterali di ciò che stiamo creando e dei problemi che ne derivano. Prima li affrontiamo, meglio è». In passato ci siamo riusciti? «Tutto sommato sì. Quando le automobili cominciarono a circolare a New York, da un lato ridussero problemi molto seri come lo sterco di cavallo sulle strade, che era un rischio per la salute, puzzava e insudiciava la città, ma dall’altro, con l’aumentare del traffico motorizzato, inquinarono l’aria. Alla fine, siamo stati capaci di adottare misure anti-inquinanti senza per questo rinunciare ai benefici di un mezzo di trasporto comodo e veloce». Venendo alle terapie a sostegno dell’occupazione, lei non considera efficace né il laissez-faire liberista, cioè la convinzione che il mercato sappia trovare da solo le soluzioni migliori, né i grandi programmi basati sulla spesa pubblica. Qual è l’approccio giusto? «Il laissez-faire non aiuterà certo i lavoratori sostituiti dalle macchine: non l’ha mai fatto. La spesa pubblica e le politiche per l’occupazione possono assistere i lavoratori, ma sovente ritardano il progresso, perché il governo viene messo nella condizione di decidere chi saranno i vincenti e i perdenti. L’approccio migliore è creare strumenti e incentivi per riqualificare i lavoratori e reinserirli nelle aziende in crescita: non per salvare i posti di lavoro decotti. Nella riqualificazione delle persone, in particolare, la Germania fa un ottimo lavoro, l’America no». Lei propone un ridisegno radicale del rapporto formazione-lavoro. Secondo quale criterio? «Negli Stati Uniti il governo offre prestiti agli studenti senza controllarne l’utilizzo. Così ci siamo ritrovati sulle spalle il peso del debito che gli studenti non riescono a ripagare. Se invece gli investitori privati fossero incoraggiati a scommettere sulla riqualificazione delle persone, finanzierebbero solo programmi in cui i lavoratori siano in grado di restituire il denaro avuto in prestito. Ciò spingerebbe la scuola a concentrarsi sui contenuti formativi che hanno valore per chi dà lavoro. Privatizzando la formazione, in sostanza, la società otterrebbe i maggiori benefici». Un’altra sua proposta è il Public Benefit Index (Pbi), un indice di proprietà collettiva per favorire le società ad azionariato diffuso. La spiega? «È semplice. Più ampiamente distribuiremo la proprietà delle aziende, più persone trarranno beneficio dai profitti. L’idea del Pbi è quella di dare forti incentivi fiscali alle imprese che allargano la propria base azionaria». In quali aree del mondo è più avvertito il problema dell’impatto della tecnologia sull’occupazione? «In Europa, dove si tende a tutelare i lavoratori, anche se questo, come ho detto, rallenta il progresso tecnologico. Gli Stati Uniti sono molto meno protettivi, in virtù di una cultura antica e radicata secondo cui ogni persona è la prima responsabile del proprio destino, e dunque, se vuole andare avanti, deve lavorare sodo e in modo intelligente. La Cina infine è il posto in cui il governo ha un controllo quasi totale sull’economia e sugli individui». I più preoccupati siamo noi europei. «Direi di sì. Meno allarmati sono gli americani. Meno ancora i cinesi, i cui leader decidono quando, dove e quanta nuova tecnologia debba essere introdotta. Probabilmente, dunque, è la Cina che si trova nella posizione migliore per trarre vantaggio dalla rivoluzione digitale, anche se il suo sistema scientifico non è quello che meglio riesce a realizzarla. Ma questo è solo uno dei paradossi del mondo in cui viviamo».