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 2016  dicembre 11 Domenica calendario

IL SOGNO IMPOSSIBILE DELL’IMMORTALITA’

Quanti vivono più di 115 anni? Nessuno. O meglio quasi nessuno. A dirla tutta c’è stata una donna in Francia, Jeanne Calment che è morta a 122 anni, era il 1997. Un record. E poi c’è Emma Morano, la sesta persona più longeva di tutti i tempi, fra quelle s’intende di cui si hanno prove certe. Emma, che vive a Pallanza, in Piemonte, ha 117 anni (è stata decana d’Italia e poi d’Europa) e dal maggio 2016 è considerata decana dell’umanità. Cose così però non si ripeteranno; gli scienziati hanno calcolato che ci vorrebbero 10 mila mondi come il nostro perché succeda di incontrare da qualche parte qualcuno che abbia 125 anni o di più. Vuol dire che siamo programmati a tempo, come una bomba a orologeria? E perché succede? È per via del Dna.

Col passare degli anni accumuliamo danni su danni proprio lì, qualcuno riusciamo a ripararlo a patto di non fumare e mangiare in un certo modo, ma poi quando è troppo è troppo, oltre un certo limite non si va, scrive Xiao Dong su «Nature» di questi giorni. E l’editoriale che accompagna quel lavoro fa un paragone molto convincente: un atleta formidabile può erodere qualche millisecondo al record dei 100 metri piani ma a correrli in cinque secondi non ci arriverà mai nessuno.

«Ma se ci continuano a dire che l’aspettativa di vita aumenta», penserete voi. Qui bisogna intendersi, aspettativa di vita è quanto ci si può attendere che ciascuno viva a partire dal momento della nascita o da qualunque altra età; questa è certamente aumentata negli ultimi secoli ma non perché c’è più gente che vive più a lungo o che batte record di longevità, ma perché le malattie infettive non uccidono più tanti bambini come succedeva una volta. Negli ultimi decenni siamo stati capaci di ridurre la povertà anche nei Paesi emergenti; che vuol dire acqua più pulita e poi che si mangia un po’ meglio e ci sono più servizi igienici, tutte cose che certamente allungano la vita ma non servono a creare più centenari.

E qui dobbiamo fare un passo indietro: se si prendono in esame i dati dei Paesi industrializzati come hanno fatto Jan Vijg e i suoi colleghi qualche anno fa, si vede che nel Novecento ci sono state davvero più persone straordinariamente longeve che nell’Ottocento e i dati più sicuri vengono dalla Svezia; là intorno alla metà dell’Ottocento i più longevi avevano 101 anni, ma nel 1960 si arrivava a 108 (mai successo prima) e in Inghilterra è successa più o meno la stessa cosa. Se però si considerano gli anni che vanno dalla metà del Novecento a oggi le cose cambiano e di molto: i picchi di longevità si hanno fra il 1968 e il 1980, lì però ci si ferma. E da allora a oggi non abbiamo più avuto super-centenari, gente insomma che quanto a longevità superasse quelli degli anni prima; se mai è vero il contrario, negli anni più recenti i super centenari tendono a diminuire e questo vale almeno per Francia, Inghilterra, Giappone e Stati Uniti, i Paesi cioè che dispongono dei dati più affidabili (anche se per le altre 41 nazioni prese in esame dai ricercatori di «Nature» le cose non cambiano per quanto le stime qui non siano poi così sicure).

Per arrivare a concludere che l’uomo non è fatto per vivere più di 110, al massimo 115 anni, gli scienziati sono ricorsi a modelli matematici sofisticatissimi e ad analisi statistiche che lasciano ben pochi dubbi. Chi critica il lavoro di «Nature» sostiene che i ricercatori di New York avrebbero fatto finta di non sapere che in Indonesia vive ancora Mbah Gotho che avrebbe 145 anni ma sull’autenticità del suo certificato di nascita ci sono moltissimi dubbi. E ancora che la tesi di Dong e dei suoi colleghi «non tiene conto dei progressi della medicina e delle tecnologie di un futuro che adesso non sapremmo nemmeno immaginare». E non basta, Richard Faragher, un gerontologo dell’Università di Brighton in Inghilterra, contesta le conclusioni di Dong con un ragionamento che suona più o meno così: «Nei moscerini e nei vermi i ricercatori hanno saputo estendere la durata della vita sopprimendo certi geni o limitando l’accesso al cibo (e succede perfino nei topi); se non fossi mo capaci di farlo nell’uomo, vorrebbe dire che noi (uomini) siamo diversi dagli altri animali».

Questo argomento a me pare un po’ debole, anche perché un bellissimo commento al lavoro degli scienziati di «Nature» scritto da Jay Olshansky, professore di Public Health a Chicago, fa notare che ciascuna specie animale ha un limite di durata della vita e questo rafforza ancora di più l’idea che non ci sarà progresso che tenga, il limite è quello lì, e nessuna specie arriverà mai a oltrepassarlo. La controprova è che se ci si mette nelle condizioni ideali — assenza di predatori, accesso adeguato al cibo e all’acqua, condizioni ambientali ideali — i topi vivono mille giorni, i cani cinquemila, gli uomini ventinovemila.

Il limite, in termini di durata della vita, difficile da oltrepassare, è scritto nei geni ma dipende anche da quello che è successo in utero e poi nei primi periodi della nostra vita oltre che naturalmente dall’ambiente. Tutto questo fa pensare che ci siano ragioni biologiche a supporto delle conclusioni dei ricercatori di «Nature» che non conosciamo ancora fino in fondo ma che derivano da quasi quattro miliardi di anni di evoluzione delle specie fatti di biochimica e metabolismo, genetica e biologia cellulare, riproduzione e sviluppo. Fra l’altro, se volessimo davvero tendere all’immortalità il primo esercizio mentale da fare sarebbe quello di provare a pensare seriamente alle conseguenze che questo potrebbe avere. La prima, la più banale, è che la natura stessa di un certo animale o dell’uomo, se preferite, finirebbe per essere stravolta; riflettiamo un attimo, che aspetto potrebbe avere un topo di 20 anni o un cane di 50?

C’è una novella di Aldous Huxley del 1939, si chiama After Many a Summer («Dopo molte estati»), si parla dell’ossessione per la giovinezza di Jo Stoyte, un miliardario di Hollywood che vorrebbe vivere per sempre. Jo viene a sapere che un nobile inglese ha scoperto il modo per prolungare la vita, e di molto; così decide di partire per l’Inghilterra dove lo incontra davvero quel nobile, ormai vecchissimo, tanto da aver assunto un aspetto fisico mostruoso. Ma possiamo stare tranquilli, a noi non succederà mai anche perché quanto vivremo e quando moriremo non dipende da un gene solo (che gli scienziati potrebbero anche modificare così da farci vivere se non quanto il nobile inglese comunque più a lungo di oggi) ma da una moltitudine di geni e dai loro complicatissimi sistemi di regolazione. Quei geni però non sono lì per farci vivere a lungo, sono altre le ragioni che hanno determinato per ciascuno di noi un certo assetto genetico. E qui torna utile l’esempio dell’atleta, non c’è un gene solo che determina quanto veloce puoi correre: il limite è la struttura biomeccanica del nostro corpo che è evoluto in quel modo lì non per renderci capaci di correre il più veloce possibile ma per tutt’altri scopi. E quel limite è invalicabile? No, l’atleta con l’esercizio può migliorare le sue prestazioni e anche di molto, c’è questo fra l’altro alla base delle competizioni sportive in tutti i settori.

Allo stesso modo ciascuno di noi può migliorare la qualità della sua vita così da godere degli ultimi anni senza troppi acciacchi e quando va bene senza ammalarsi di cancro, Parkinson o Alzheimer. Ma non possiamo pretendere che esercizio fisico, dieta o medicine facciano quello che non si potrà mai fare: consentirci di stare al mondo più di quanto siamo programmati a vivere. Anche perché non siamo fatti per invecchiare ma per vivere abbastanza da poterci riprodurre e assicurare la sopravvivenza della specie. Fatto questo, la natura tende a non curarsi più di noi, non c’è nessuna attenzione a riparare i danni e le cellule che portano informazioni pericolose girano e si moltiplicano senza che nessuno le possa fermare. Insomma, i nostri geni dopo una certa età non si curano di noi, a loro interessa passare ai nostri figli e basta.

In una parola, la natura in questo proprio non ci aiuta; la scienza forse sì a patto che ci concentriamo più su quello che serve per rallentare l’invecchiamento che sulla cura delle malattie, tutto il contrario di quello che si fa oggi con la tecnologia più spinta. Vorremmo curare tutti sempre e comunque indipendentemente dall’età anche quando il buon senso suggerirebbe di fermarsi, è un’ingenuità ed è profondamente sbagliato. È a un uomo (o a una donna ) di 110 anni che però ne dimostri 90 e stia ancora abbastanza bene che dobbiamo tendere e chissà che un giorno non ci arriveremo davvero. Anche se, come ha scritto qualche tempo fa Jarle Breivik che è professore all’Università di Oslo, «quello che importa davvero non è il nostro corpo ma i nostri pensieri e la nostra coscienza, è questo forse che molti di noi vorrebbero poter tramandare».