Carlo Di Foggia, il Fatto Quotidiano 14/12/2016, 14 dicembre 2016
UNICREDIT, MUSTIER RIVELA UN BUCO DA 20 MILIARDI: IL SETTORE BANCARIO TREMA
Grande è la confusione sotto il cielo di Unicredit. Ieri a Londra l’ad della seconda banca italiana Jean Pierre Mustier ha presentato il nuovo piano industriale al 2019 confermando che chiederà al mercato 13 miliardi di capitali freschi. Quando a ottobre lo scrisse il Fatto partirono subito gli strali dei tifosi interessati. Tutto confermato, invece, così come il buco patrimoniale che è in realtà di 20 miliardi, in parte colmato con le cessioni dei gioielli di casa (la banca polacca Pekao, il gestore del risparmio Pioneer e il 30% della Fineco) che valgono 6 miliardi e rotti.
“Misure necessarie per gestire i problemi ereditati dal passato”, ha spiegato Mustier. E qui nasce l’equivoco. Fatta eccezione per la nuova purga sui dipendenti, il piano è sostanzialmente identico a quello – tutto basato sulla redditività interna – presentato un anno fa dal suo predecessore Federico Ghizzoni, l’uomo voluto dallo stesso consiglio di amministrazione evidentemente corresponsabile di quell’eredità, seduto senza saperlo (o poterlo dire) su un buco da 20 miliardi. A maggio scorso è stato cacciato per aver infilato la banca nel disastro della Popolare di Vicenza: si è dovuto inventare il fondo Atlante per evitare che l’aumento di capitale da 1,5 miliardi tirasse a fondo Unicredit. Ghizzoni, che ha ereditato la pesante campagna acquisti in Europa di Alessandro Profumo, ha passato gli ultimi anni a smentire la necessità di un nuovo aumento di capitale, dopo i 3 fatti dal 2008 al 2012 per quasi 15 miliardi. Il cda lo spalleggiava.
Quando a fine 2010 prese il posto di Profumo, Unicredit valeva 70 miliardi di euro, oggi poco più di 16. Poco sopra la cifra che Mustier si appresta a chiedere al mercato. Che la banca avesse bisogno di capitale era nei numeri, eppure con 13 miliardi freschi Unicredit promette di arrivare nel 2019 a un patrimonio Cet1 (che misura la solidità della banca) al 12,5%, considerato il minimo effettivo dalla vigilanza bancaria Ue.
Vediamo i numeri. Il nuovo piano punta a chiudere i rischi sui crediti deteriorati. L’“eredità del passato” sono i 51,3 miliardi di sofferenze, i prestiti non più esigibili, quasi raddoppiate negli ultimi 7 anni. Farci i conti porterà a 12,2 miliardi di perdite straordinarie sul bilancio 2016, di cui 8 di rettifiche su crediti. Premessa: le banche mettono a bilancio il valore atteso di recupero sulle sofferenze, in media al 40% (su 100 euro prestati puntano a recuperarne 40) coprendo le perdite sul restante. Unicredit porterà la copertura sulle sue sofferenze al 74,5%, un valore più alto di quello impostato da Mps per la cartolarizzazione con Atlante, finora il più alto del settore. In pratica l’unica banca italiana “sistemica” mette nero su bianco che le sue sofferenze valgono il 26%, il valore verso cui spinge la vigilanza europea ma che ora rischia di diventare quello di riferimento del mercato italiano. A novembre 2015, la svalutazione al 17,6% delle sofferenze di Etruria & C. operata dalla Banca d’Italia ha terremotato il settore, aprendo buchi virtuali nei bilanci.
Dopo le super rettifiche, Unicredit cederà 17,7 miliardi di sofferenze a Pimco e Fortress in un veicolo di cui avrà una quota di minoranza e potrà quindi beneficiare delle sicure plusvalenze. Nel 2019 la copertura scenderà al 63%, valore comunque molto alto. Il mercato non sembra sospettare che questa pulizia draconiana nasconda altre sofferenze non dichiarate e ieri ha premiato il titolo (+16%).
Per il resto il piano è fortemente basato su un taglio dei costi (-1,7 miliardi) grazie a ulteriori 6.400 esuberi al 2019, 3.900 dei quali in Italia (900 le filiali chiuse). Con quelli avviati da Ghizzoni si arriva a 14.400 unità, con i sindacati già in allarme. Poche le ambizioni: Mustier promette di arrivare in un triennio a generare 4,7 miliardi di utili (Ghizzoni ne annunciò 5,3) con una redditività in crescita del 9% (contro l’11 del predecessore) quindi inferiore al costo del capitale, segnale di un mercato, quello bancario, in grande difficoltà schiacciato dai tassi a zero. E infatti i ricavi cresceranno di un misero 0,6% medio, il margine d’interesse rimarrà fermo ma saliranno del 2% annuo le commissioni.
Le cessioni della gioielleria – che finora ha dato generosi utili – disegnano così un futuro da banca “semplice” (“Mustier dixit) interamente commerciale. Di Unicredit resterà un grosso “scheletro sano” – confida un banchiere di lungo corso – facilmente contendibile. Un gruppo italo-tedesco che in futuro potrà essere usato per il “funding” (cioè la raccolta di depositi) da qualche big straniero, sul modello di quanto fa oggi la francese Bnp Paribas con Bnl. Gli storici azionisti, le fondazioni (Crt e Cariverona) non hanno la forza per mantenere la loro quota (l’8%): sono in attesa di vedere quanto l’aumento – che sarà votato all’assemblea del 12 gennaio – sarà a sconto. Se non ne vale la pena, scenderanno al 4% senza rimpianti, e la storica partita di potere sui destini di piazza Gae Aulenti – da cui escono malandate – finirà, a partire dalla vecchia guardia capitanata dal vicepresidente Fabrizio Palenzona.
Chi metterà i soldi? Mustier ha ceduto i gioielli per alzare il rendimento sulle azioni e abbassare l’entità dell’aumento evitando sconti eccessivi. I soci arabi di Aabar tentennao. Alla porta c’è la francese Société Générale, che Mustier lasciò nel 2009 dopo una condanna per insider trading. L’ad conta anche sul fondo amico Capital Research, che è appena entrato con il 6,75%. “Non servono soldi pubblici”, assicura Mustier, che si taglia la parte fissa dello stipendio a 1,2 milioni l’anno e rinuncerà alla buonuscita. La seconda banca italiana sta per perdere la sua “italianità”, bene o male che sia, nel silenzio inerme del governo.