Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 14/12/2016, 14 dicembre 2016
MEDIASET, C’È LA SCALATA STRANIERA E LA POLITICA STAVOLTA È IMPOTENTE
Difficile che sia solo una coincidenza. E se lo fosse avrebbe comunque un forte valore simbolico. Lunedì sera, negli stessi minuti in cui il nuovo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni giurava al Quirinale, la Vivendi ufficializzava la scalata a Mediaset. Il gruppo francese controlla Telecom Italia con il 24 per cento delle azioni ed è il secondo azionista di Mediobanca. Il capo di Vivendi, il finanziere bretone Vincent Bolloré, è da anni protagonista in Italia ma negli ultimi tempi aveva rapporti pessimi con Matteo Renzi. La mossa di lunedì sera è stata un segnale per i mercati finanziari: l’Italia è ormai un paese aperto a ogni tipo di scorribanda straniera. Infatti Gentiloni, nel discorso sulla fiducia ieri mattina alla Camera, gli ha risposto, indirettamente, a tono: “L’Italia è una economia forte, non è aperta a scorribande”. Excusatio non petita.
Avvertenza. L’Italia non ha ancora deciso se l’italianità delle sue imprese chiave vada difesa a ogni costo o se l’idea sia solo un residuo di sciovinismo spesso interessato. La politica di ogni colore evita di esprimersi sul tema, predilige teorie à la carte formulate di volta in volta a seconda dell’azienda o degli amici interessati. Silvio Berlusconi ha difeso – a caro prezzo per i contribuenti – l’italianità di Alitalia ma ha favorito la cessione ai tedeschi delle Acciaierie di Terni. Gli ultimi governi di centro-sinistra (Prodi, Letta, Renzi) non hanno ostacolato il controllo straniero di Telecom Italia, ma la Cassa Depositi e Prestiti targata Pd ha investito ingenti capitali per salvare l’italianità di aziende di cui sono noti soprattutto i proprietari.
Quali che siano le preferenze teoriche, contano i fatti. Con la stagione renziana il sistema politico e istituzionale ha definitivamente abbassato le difese. Lo statista di Rignano ha più che altro abbaiato, senza mai mordere. La cronache registrano un suo rabbioso sms a Bolloré per aver nominato Flavio Cattaneo al vertice di Telecom senza chiedergli il permesso. Gentiloni è persona educata, e adesso non si sentirà più neppure abbaiare.
Anche il dramma di casa Berlusconi si può leggere così. Il 25 luglio scorso Bolloré ha stracciato il contratto con cui si era impegnato a rilevare Mediaset Premium, la piattaforma pay che tante delusioni ha dato al Biscione. Subito la holding berlusconiana Fininvest accusò il bretone di scalata ostile. Adesso scopriamo che in questi mesi Bolloré ha fatto rastrellare a mani amiche le azioni Mediaset. Dopo aver detto lunedì sera di essere salito al 3 per cento, ieri, appena chiusa una giornata di follia borsistica che ha visto il titolo Mediaset crescere del 32 per cento, ha comunicato di essere già al 12,3 per cento. Probabile che nelle prossime ore salirà al 20 per cento, piazzandosi come socio scomodo della Fininvest, che controlla le sue tv con il 34 per cento.
B. ha sfogato la sua ira costringendo l’avvocato deputato Niccolò Ghedini a disertare il voto di fiducia a Gentiloni per andare alla Procura di Milano a depositare una denuncia a Bolloré per manipolazione del mercato. Ma la vera rabbia degli uomini del Biscione è per essere stati lasciati soli dall’amico Renzi. In questi sei mesi, lamentano gli uomini di B., non si è levata una sola voce politica, né in pubblico né in privato, contro l’attacco straniero all’azienda “patrimonio del Paese” (Massimo D’Alema dixit). E la strana pantomima referendaria, con B. schieratissimo (politicamente) per il No, e il presidente Mediaset Fedele Confalonieri schieratissimo (aziendalmente) per il Sì, va letta con il senno di poi come l’ultimo disperato grido di dolore rivolto all’uomo forte che sembrava destinato a consolidare il suo potere vincendo il referendum.
Il problema adesso si scarica sulla scrivania di Gentiloni. Perse l’elettronica e la chimica per consunzione, l’auto per emigrazione e una serie di “corazzate tascabili” conquistate da capitali stranieri (dalla siderurgia al tessile, per tacere delle squadre di calcio), restano italiane banche e assicurazioni.
Pochi giorni fa il fondatore di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli ha consegnato al Corriere della Sera la sua testimonianza toccante. Le accuse di ostacolo alla vigilanza e illecita influenza sull’assemblea Ubi per le quali sta per essere rinviato a giudizio, dice, lo lasciano “incredulo”. Qui il punto non è una vicenda giudiziaria assai complessa, sui cui si esprimeranno i giudici. Ciò che colpisce è che Bazoli rivendica di aver favorito la nascita di Ubi Banca, attraverso la fusione di Bpu e Blp, per sottrarle alla minaccia di scalata straniera.
Il cattivo era il capo dello spagnolo Banco Santander, Emilio Botin. Nello stesso anno, il 2007, Botin aveva cercato di prendersi il San Paolo di Torino, e un’altra volta Bazoli lo aveva stoppato fondendo con la banca torinese la sua Intesa. (Poi il “sistema” risarcì il banchiere spagnolo girandosi dall’altra parte mentre vendeva l’Antonveneta a Mps per il triplo del suo valore, ma questo ovviamente non lo dice Bazoli). “Sempre in accordo con le massime istituzioni del Paese”, chiosa Bazoli. Nel 2007 a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, alla Banca d’Italia Mario Draghi. Adesso Unicredit ha bisogno di 13 miliardi e per questo diventerà forse francese (se Société Générale romperà gli indugi). Dentro Unicredit c’è il controllo di Mediobanca, dentro Mediobanca c’è il controllo di Generali. Tutte queste partite si svolgono nel silenzio della politica, che ha ben altre cose a cui pensare: per esempio una legge elettorale per fermare l’onda populista.