Fabio Bozzato, IoDonna 10/12/2016, 10 dicembre 2016
DEL BAMBÙ D’ITALIA NON SI BUTTA NIENTE
Immaginate La foresta dei pugnali volanti. Fra una manciata d’anni potrebbe essere così. Centinaia di ettari ricoperti di bambù, almeno 20 metri sopra la testa, rigoglioso e dinoccolato. Finora non era che una pianta da decoro o cresceva spontanea a ciuffi lungo i fossati di tante campagne. È solo da un paio d’anni che uno dei simboli dell’Oriente estre
mo viene coltivato in modo sistematico da
Nord a Sud della penisola. Complice il perfet
to tepore mediterraneo: non c’è luogo migliore
in Europa. C’è anche l’urgenza di alternative
alle colture tradizionali. «Non volevo morire di mais»: Franco Zuttioni mostra il suo ettaro di bambuseto a Medea, ai piedi del Carso goriziano. Perché mais e soia e vigne e grano non rendono. Non solo per i prezzi ormai irrisori, pure i terreni non ne possono più. Un ettaro di bambù arriva a produrre ossigeno come un intero bosco. I suoi fitti e solidi rizomi sotterranei drenano la pioggia e compattano il terreno. Resiste agli incendi. E fra germogli, culmi e fogliame è tutto utilizzabile: dall’alimentare al tessile, dal design alle costruzioni. È così richiesto che i ricavi prospettati seducono qualunque agricoltore. Con un investimento di 15 mila euro per un ettaro, se ne possono ricavare 70 mila l’anno. È una pianta a suo modo diabolica: alcune tra le 1.400 tipologie di bambù possono resistere fino a 20 gradi sotto zero, l’ultima piantagione in Italia è inerpicata a San Candido (Bz), a quasi 1.200 metri di altitudine. È infestante: bisogna tracciare un solco perché le radici trovino il vuoto e si fermino. E ancora: il bambù assorbe e filtra i peggiori metalli pesanti, lo sa chi si occupa di disinquinare le tante aree industriali dismesse e avvelenate.
Benvenuti nel futuro dell’agricoltura. Sono soprattutto i più giovani quelli che ci stanno scommettendo, come Zuttioni. O professionisti che vogliono investire nella terra: «Dopo un viaggio in Thailandia, ne ho parlato con un po’ di amici imprenditori, ci siamo messi a cercare e abbiamo trovato un latifondo incolto da anni» racconta Fabio Balzotti, consulente aziendale di Taranto. Così da aprile le prime 30 mila piante ricoprono quasi 50 ettari tra Pulsano e Faggiano. L’ultimo bambuseto è stato appeno inaugurata in Calabria, dove persino la specie tropicale si sente di casa.
Torniamo a Nord. San Michele al Tagliamento, Veneto orientale: qui si estende la più grande piantagione di bambù in Europa. Anche in questo caso è una cordata di amici che ha rotto gli indugi. «Solo quattro di noi sono coltivatori» racconta Stefano Pesaresi. I loro 57 ettari si stanno infoltendo. Tre anni dopo la piantumazione, si raccolgono i germogli. Dal quinto il legno. Il vicino distretto del mobile qui troverà legname pregiato e malleabile, forte e flessibile, da far diventare
parquet e design di arredamento. «Ci piacerebbe far nascere reti di micro-imprese per
la trasformazione dei prodotti» dice Pesare
si. Nuove inaspettate filiere cominceranno a prendere forma ovunque.
«Il bambù non fiorisce» ripetono tutti. Una
pianta fa fiori una volta in un secolo. Spesso,
in certe condizioni e in molti angoli di Cina o Giappone, possono
passare più secoli delle dita di una mano. Fabrizio Pecci dirige il
Consorzio italiano bambù. È lui che ha avuto l’intuizione nel 2010
che qui la terra fosse perfetta per far emigrare la pianta dai mille
usi. Lui e il signor Tan, l’agronomo dell’Università di Kunming fra
i migliori esperti cinesi del settore. Hanno selezionato alcune va
rietà, a partire da quella gigante Moso. Un primo test nella propria
azienda agricola di Saludecio, nel riminese, e poi un pensiero in
grande. Così è nato il Consorzio Onlymoso, che fornisce le pian-
te certificate e stringe accordi per la raccolta di canne, germogli
e rizomi, assiste i coltivatori «e presto saremo pronti a piazzare i prodotti ai migliori buyers europei». Non contento, Pecci si è accorto che anche negli States non esiste niente di simile. E così ha appena aperto anche una filiale a Miami. Per capire cosa sia il Consorzio bisogna andare a Faenza. Serre lunghe e strette, 432 per la precisione su 10 ettari di terreno, sono lo scrigno delle piantagioni. Qui ogni singola pianta viene curata, pulita, monitorata da una trentina di lavoranti esperti. Sotto il film plastico cresce un mondo umido e vegetale che entra nelle narici e si appiccica alla pelle. Si cammina immersi tra un verde magnetico e il florido fogliame delle specie tropicali. «In questo Paese bisogna riforestare» non si stanca di ripetere Stefano Pesaresi. A oggi in tutta Italia si calcola ci siano 1.500 ettari a bambù. E le richieste sono continue. Non occorre avere grandi appezzamenti: «Ci chiama quasi sempre chi ha una piccola proprietà e vuole qualcosa di redditizio ed ecologico. In media sono lotti attorno ai due ettari» spiega Pecci. Intanto il mercato già scalpita. Secondo alcune ricerche, i potenziali consumatori solo nel settore food si aggirano sui sette milioni in Italia e 70 in Europa. Per soddisfare la richiesta si potrebbero mettere a bambù tra i 30 e i 50 mila ettari.
«Il mio sogno» dice Franco Zaniutto «è fare un vino di bambù». E da testardo friulano qual è, c’è da scommetterci che ci riuscirà.