Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 11/12/2016, 11 dicembre 2016
STAVO DENTRO LA CAPOCCIA DI FELLINI. POI GLI DISSI NO PER ANDARE A HOLLYWOOD – [Dante Ferretti] Le bugie a fin di bene: “Papà mi chiedeva dove andassi e io gli rispondevo sempre ‘a studiare con gli amici’
STAVO DENTRO LA CAPOCCIA DI FELLINI. POI GLI DISSI NO PER ANDARE A HOLLYWOOD – [Dante Ferretti] Le bugie a fin di bene: “Papà mi chiedeva dove andassi e io gli rispondevo sempre ‘a studiare con gli amici’. Invece gli fregavo i soldi dalla tasca molto presto di mattina e poi me li spendevo nei cinema di Macerata. Negli Anni 50 in città c’erano l’Italia, il Corso, il Cairoli, lo Sferisterio e un quinto che adesso non mi ricordo”. Le luci di Piazza di Spagna proiettano già nel Natale e il nome del tè scelto da Dante Ferretti – Arrivederci Roma – a una realtà di ritorni e partenze continue. Sono passati molti anni da quando uno dei più grandi scenografi del mondo lasciò le Marche per sbarcare a Cinecittà e altre stagioni ancora si sono susseguite da quando il ragazzino del ‘43 allargò i propri confini e dai film di Bellocchio, Comencini, Fellini, Ferreri, Pasolini e Scola: “Ci ho fatto un solo titolo, avemmo anche una discussione, forse Ettore aveva nostalgia del suo fedelissimo”, e passò a disegnare quelli di Annaud, Branagh, Burton, De Palma, Gilliam e Scorsese. Accumulati a decine David, Nastri e Bafta, conquistati tre Oscar nell’ultimo decennio (gli altri tre li ha vinti sua moglie Francesco Lo Schiavo: “La donna più importante della mia vita”) Ferretti martedì farà spazio “sulle mensole Ikea” anche a una laurea ad honorem in Architettura che l’Università La Sapienza gli conferirà a Valle Giulia: “Architetti ci chiamavano, a noi scenografi, già moltissimi anni fa”. Oggi la chiamano maestro. Non vorrei perdere l’onore. Martedì ringrazierò gli accademici per la laurea e poi li avvertirò: ‘Non è che ora tornate a darmi dell’architetto?’. Suo padre era un mobiliere. A parte le menzogne che gli raccontavo per correre incontro ai film, avevamo un buon rapporto. Quando gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare il cinema e frequentare l’Accademia di Belle Arti però fu irremovibile: ‘Vuoi andare a Roma? E qui a Macerata chi ci rimane?’, ‘Ci rimane mia sorella, ci rimane’, ‘Se non studi ci rimani pure tu. Ogni anno sei regolarmente rimandato in tre materie, se per una volta riesci a farti promuovere giuro che ti ci mando’. E ci riuscì? Studiai come un pazzo per l’esame di maturità e lo superai da migliore della scuola, con 96/100. Il voto tondo mi sfuggì per il professore di ginnastica. Era piccolo come Brunetta e mi odiava. Non è un gigante neanche lei. Infatti nel salto con l’asta non ero un granché e l’esercizio in modo corretto non riuscivo a farlo mai. Ma non credo si trattasse di quello. Suo padre mantenne la promessa? Era un uomo di parola. Mi diede un po’ di soldi da aggiungere a quelli della borsa di studio del Pio sodalizio dei Piceni e alle 100 lire a bocca che mi passava la Incom. A bocca? Nel pomeriggio, dopo l’Accademia, lavoravo alla produzione dei cartoni animati. Facevo le scomposizioni, le bocche dei personaggi che parlavano. Alla fine della settimana, di sole bocche, guadagnavo 12 o 13 mila lire. Come e quando decise di diventare scenografo? A 13 anni, quando ancora non sapevo cosa fosse la scenografia e frequentavo l’istituto d’arte. Parlai con Umberto Peschi, uno scultore futurista. ‘Umberto, vorrei tanto fare il cinema ma non so da dove iniziare’, ‘Devi fare lo scenografo’, ‘E chi è lo scenografo?’, ‘Come chi è? È chi costruisce le scene’. Io adoravo i Peplum, i film che raccontavano le gesta di Maciste ed Ercole, quando pensavo al mio mestiere immaginavo orizzonti del genere. Almeno all’inizio, a qualcosa di simile partecipò. Ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare a 17 anni. Nelle ore libere dall’Accademia andavo a disegnare da un amico di mio padre, Aldo Tomassini Barbarossa. Era stato scenografo per René Clair e per Blasetti, ma stava lasciando il cinema per dedicarsi completamente alla professione di architetto. Gli offrirono contemporaneamente due film di Domenico Paolella e lui fu generoso: ‘Se vuoi li accetto così inizi a lavorare, ma poi sul set vai tu’. E lei si ritrovò sul set di Paolella? Ad Ancona, a due passi da casa. Ero perplesso: ‘Dopo aver fatto tanto per lasciare Macerata – mi dicevo – proprio nelle Marche mi tocca ritornare?’. In realtà fu un’esperienza importantissima. I film di Paolella erano – come da cognome – di serie P, ma imparai tanto perché c’è stato un tempo in cui il cinema in Italia, anche il cinema minore, si faceva davvero. Tomassini comunque non mi abbandonò. Stava realizzando la costruzione di una banca a Macerata e faceva la spola da Roma venendomi a trovare un paio di volte alla settimana. Vedeva come mi muovevo e mi lasciava enorme autonomia. Quanta autonomia? Capo costruttore e arredatore mi davano una mano, ma io disegnavo i bozzetti definitivi davanti a tutti e portavo avanti il lavoro praticamente da solo. Le prigioniere dell’isola del diavolo mi servì per fare esperienza. Era un film di pirati. Noleggiavamo le navi a motore a Viareggio e poi le modificavamo in corsa trasformandole in imbarcazioni a vela. Le vele avrebbero dovuto girare in un certo modo e invece andavano sempre controvento costringendoci a più di qualche acrobazia. Ci siamo divertiti. Dai film di Paolella, con un primo grande salto, passò a La parmigiana di Antonio Pietrangeli. Il lavoro con Paolella mi valse l’apprezzamento dell’organizzatore generale: ‘Anvedi ‘sto regazzino ’, diceva. Mi presentò Luigi Scaccianoce, un grande scenografo dell’epoca. Gli feci da assistente con Pietrangeli e gli rimasi accanto per tanti anni come assistente a partire da Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Cosa significava assistente? Portare avanti il lavoro quando lo scenografo si assentava. E si assentava spesso perché, come le ho detto, non era così strano fare due film contemporaneamente. Scaccianoce non faceva eccezione. Veniva e andava, andava e veniva. Pasolini si era ormai abituato ad avere quello che voleva anche con me e così quando ci fu il passaggio di consegne attenuò il cruccio. Accadde a Ouarzazate, in Marocco, alla vigilia delle riprese di Edipo Re. Avevamo viaggiato per ore ed eravamo arrivati nella polvere in quello che a tutti gli effetti sembrava un villaggio western. Scaccianoce si guardò in giro, mangiò una scodella di riso bianco con noi, lasciò che Pier Paolo e gli altri andassero a dormire e poi mi prese da parte: ‘Caro Ferretti, io ho 54 anni e queste avventure non le posso più fare, non dormo neanche qui, guido fino a Marrakech e domani al massimo arrivo a Roma. Rimani tu e occupati di tutto quel che c’è da fare, io vado a fare qualche interno alla De Laurentiis’. Lei che reazione ebbe? Aspettai Pasolini, che non tardò a manifestarsi: ‘Ma Scaccianoce dov’è?’, ‘È andato a Roma perché dice che ha tante cose da fare per il film’. Pier Paolo si incazzò, ma gli durò un secondo. Scaccianoce – che era bravissimo – non gli era troppo simpatico. Aveva un carattere un po’ particolare. Era un veneziano con l’inclinazione ad assumere pose da professore. Non faceva impazzire Pasolini che non lo amava e per ragioni simili non poteva piacere neanche a Fellini. Dal set di Edipo Re comunque, Pasolini mi mandò via due settimane prima del previsto. Era insoddisfatto? Tutt’altro. ‘Vai a Roma a vedere quello che ha fatto Scaccianoce con gli interni – mi disse – e correggi, mi raccomando, perché altrimenti sembrerà sicuramente un set cinematografico’. Io andai a Roma e cambiai tutto. Scaccianoce non se la prese, ma non avendo fatto praticamente niente, era scettico sul valore del film. Un disfattismo che non cessò neanche quando venne nominato ai Nastri d’Argento: ‘Tanto non vinco perché il film non lo merita’. ‘Mi scusi – gli dissi un po’ scherzando e un po’ no – ma il film non merita perché non l’ha fatto lei?’. Poi il premio glielo diedero comunque e dubbi e critiche non glieli sentii pronunciare più. Lavorare con Pasolini richiedeva un’appartenenza anche ideologica? Non parlavamo mai di politica, solo di cinema. Anche se, pur essendo stato sempre di sinistra, comunista mi ero sentito solo all’epoca di Berlinguer e di Pasolini. Perché? Perché mi conveniva. (Ride). Comunista era Elio Petri. Con lui fece La classe operaia va in paradiso e Todo Modo. Comunistissimo. A Pier Paolo costruivo case bizzarre. Ne feci una nel Viterbese, con il tetto in erba e il resto dell’abitazione in vetro sul rudere di una torre, ma nel rapporto pur rispettoso e creativo, non siamo mai giunti a darci del tu. Con Elio, un regista da Oscar che chissà perché si sono dimenticati tutti, invece eravamo davvero amici. Ci vedevamo in vacanza, a pranzo o a cena, proprio come accadeva con Ferreri, uno che sapeva mandare a fare in culo chiunque, ma con il quale mi trovavo benissimo. Ha lavorato con molti caratteri difficili. Come resisteva? Li studiavo, li capivo, li analizzavo. Cercavo di ragionare sui caratteri mesi prima di trovarmi in corsa con un regista. Lei era grande amico di Fellini. Andavamo a Fregene. La domenica tavolo fisso a ‘La Conchiglia’. Su certe cose Federico era abitudinario. Ma partiamo da un assunto: io avevo la macchina e Federico no. Quindi? Facevo da autista. In quelle occasioni e in tutte le innumerevoli volte in cui abitando in via del Babuino lo caricavo da Canova per andare a Cinecittà. Saliva e faceva sempre la stessa domanda: ‘Dantino, che hai sognato stanotte?’. Io evadevo tra un ‘niente’ e un ‘non mi ricordo’, ma Federico non mollava la preda. Insisteva. Allora, alla terza volta che me lo chiedeva, come in un gioco tra noi, cedevo. E iniziavo a inventarmi sogni. E che sogni erano? A Federico piacevano quelli a sfondo erotico. La commessa della macelleria che appoggiava le tette sul bancone o le mutande delle sarte che vedevo abbassandomi quando mia madre andava a portare i vestiti da misurare. Le alternavo alle scene di vita vissuta che avevo visto ai tempi vitelloneschi e creavo l’alchimia perfetta per Federico un genio per cui la Gradisca, in fondo, era ovunque. Gli piacevano le sue storie? Rideva e mi diceva: ‘Sei proprio il più bugiardo del mondo’. C’erano poche cose che preferisse alla bugia: un modo di riscrivere la realtà e renderla più allegra. Federico sognava sempre: che si trovasse sul set, in macchina o a passeggiare di notte per Roma. Quante camminate abbiamo fatto: ‘Ciao Dantino, ci vediamo domani e mi raccomando, sogna’. ‘Guarda, non perdiamo tempo, se vuoi il sogno te lo racconto subito’. Prova d’orchestra, La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred,La voce della Luna. Insieme avete fatto cinque film. Avrebbero potuto essere di più. Dopo Satyricon, a cui avevo collaborato come assistente con l’atroce sorpresa di non essere citato nei titoli di testa, Fellini mi aveva proposto di lavorare più stabilmente con lui. Mi schermii: ‘Lei mi vuole affossare maestro, rivediamoci tra 10 anni’. Stavo partendo con Pasolini per Medea e con Federico, prima di incontrarci nuovamente, passò effettivamente un decennio. Qual è stato il segreto del vostro incontro? Stavo nella sua capoccia, nella sua testa. Realizzavo le sue visioni, mi mettevo sulla sua stessa lunghezza d’onda e aggiungevo qualcosa di mio. Federico cambiava spesso idea. ‘In questa stanza – mi diceva – servono solo tre pareti’. Poi si metteva davanti alla macchina da presa impallando il povero Peppino Rotunno che guardava in camera senza riuscire a mettere la luce e intanto prendeva tempo. A cosa gli serviva? A capire cosa dovesse fare. All’inizio mi sorprendeva: ‘Dantino, rivoluzione, ho bisogno della quarta parete e di una porta’. Poi, capita l’antifona, anticipavo le sue mosse. E quando iniziava con la storia della parete e della porta, ero già un passo avanti: ‘Federico, eccole’. ‘Come eccole?’, ‘Le avevo già preparate’, ‘Dantino, sei proprio un gran figlio di una mignotta’. Il Fellini sul set? Federico piaceva alle donne. Ci sapeva fare. Lo vedevi da come lo osservavano. Nella vita era molto simpatico, ma sul set urlava spesso ed era anche capace di trasformarsi e incazzarsi. Anche con lei? Una sola volta, sul set di Ginger e Fred. C’erano molte comparse. Lui era nervoso e si alterò: ‘Te l’avevo detto che non voglio questa situazione e tu me l’hai imposta di forza, perché?’. Fu l’unica volta che mi trattò bruscamente davanti agli altri, ma ci rimasi molto male. Facemmo pace, ma per qualche tempo i rapporti si raffreddarono. Lui stava montando con Ruggero Mastroianni in uno studio nello stesso palazzo in cui lavoravo e preparava il nuovo film. Ci salutavamo, ma non mi diceva mai una parola di più. Un giorno, settimane dopo, mi avvicinò il produttore esecutivo: ‘Federico ti vorrebbe parlare del film’. ‘Gli devi dire che purtroppo non posso farlo perché ne ho accettato un altro’. ‘Dici no a Federico?’. ‘Ci siamo incontrati spesso e non mi ha mai detto nulla, mi sono ritenuto libero’. Il giorno prima un mio amico mi aveva fatto leggere su Variety un’intervista in cui Terry Gilliam annunciava il desiderio di portare al cinema Il Barone di Münchhausen. Un produttore con cui avevo lavorato ne Il nome della rosa fece il mio nome a Gilliam e in pochi giorni il film che avevo inventato di aver accettato con l’emissario di Fellini si materializzò. Ho sempre pensato a un segno del destino. Con Gilliam arrivò la prima di 10 nomination all’Oscar. Ora l’aspetta il probabile trionfo del Silence di Scorsese. Ho viaggiato per mesi tra Macao, l’America e l’Italia. È una storia che racconta il martirio dei missionari gesuiti nel Giappone buddhista del 1600 e che Martin prepara da nove anni. Scorsese me lo presentò proprio Fellini sul set de La città delle donne. Lui era con Isabella Rossellini e giravamo in un bordello. Federico chiosò: ‘Non è il posto migliore per una luna di miele’. Con Scorsese è idillio da anni. Mi chiamò una prima volta e dovetti dire di no, accadde una seconda e rinunciai per un impegno precedente. Alla terza ho mollato tutto e mi sono precipitato a New York per L’età dell’innocenza. ‘Altrimenti – mi sono detto – non mi chiama mai più’. Ne è valsa la pena. L’Italia l’ha lasciata andare. Non avete perso niente. Qui ci sono molti bravi professionisti. E di fronte a certe chiamate io non potevo rispondere no. È andata così, senza tanti discorsi. Un rimpianto ce l’ha? Mi piacerebbe avere 30 anni di meno, ma forse anche 40. Su questioni così fondamentali è triste essere ipocriti.