Edoardo Vigna, Sette 9/12/2016, 9 dicembre 2016
OGGI SONO UNA POPSTAR MA FINO A TRE ANNI FA CONSEGNAVO DOLCI E LAVORAVO COME AUTISTA. E ANCORA MI FACCIO IL BUCATO DA SOLO
[Alvaro Soler]
«Avevo 14 anni: scoprii che a Tokyo, dove vivevo, c’era lo studio del disegnatore che aveva progettato la Mercedes Maybach per i ricchi giapponesi. Mi sono fatto tre chilometri a piedi per andare a incontrarlo. E lui mi ha mostrato tutto, raccontandomi come lavorava. Un sogno! Che però mi ha fatto anche capire che non ero così bravo a disegnare. E che potevo, e dovevo, migliorare». La passione per le auto – che l’ha portato peraltro a laurearsi in Design industriale – naturalmente è stata sostituita dalla musica. E altri cambiamenti, nella vita di questo bel giovanotto di Barcellona, sono subentrati, da allora: dalle città in cui ha vissuto ai lavori con cui si è guadagnato da vivere. Ma in quell’episodio, fra curiosità, ambizione e tanto perfezionismo, c’è già molto di Alvaro Soler (che durante questa intervista, non sarà contento finché non riuscirà a usare bene la parola “sicurezza” invece della spagnoleggiante “sicurità”). Anche chi non lo conosce, ha le orecchie piene delle sue canzoni, diventate il tormentone estivo per due anni consecutivi: El mismo sol (2015) e Sofia (2016). Una doppietta unica, impossibile – finora – almeno quanto vincere due Champions League di seguito (cosa, invece, mai successa). A confermare poi che a fine 2016 è Soler il “personaggio dell’anno” del mondo dello spettacolo, ci sono il nuovo singolo – Libre, in duetto con Emma Marrone – salito subito in cima alle classifiche, e la decima stagione di XFactor vissuta da super-giudice.
La finale del talent è in arrivo, dopo due mesi in cui Soler ha avuto modo di aggiungere l’italiano alle lingue che già parla: spagnolo (materna), tedesco (paterna), inglese e giapponese (nel Sol Levante ha vissuto anni): «In realtà, stavo per venire a Milano già all’epoca dell’università, per l’Erasmus», ricorda. «Poi però ho visto i prezzi... Molto più alti che a Barcellona: gli affitti, innanzitutto. E la benzina: in Spagna è 0,9 euro, qui 1,6. Ma la verità è che ho pensato che con l’Erasmus più che altro si passa il tempo alle feste, mentre io volevo studiare. Alla fine non sono partito e mi sono iscritto a un modulo extra sui “Materiali”, che mi interessava molto. Diciamo che l’ho fatto adesso...». E un po’ è vero: nell’appartamento (zona Porta Venezia) che condivide qui con il suo chitarrista e amico fraterno Xavi, cucina – «Un po’ di tutto, dalle fajitas agli spaghetti, ma mi piace improvvisare con quello che c’è nel frigo e modificare i sapori, per esempio aggiungendo al sugo un po’ di vino» – fa i turni di bucato. Proprio come con Kristina, l’amica d’infanzia (andavano a scuola insieme in Giappone) coinquilina della casa di Berlino in cui abita da un paio d’anni. Del resto, Alvaro Soler non avrà fatto l’Erasmus ma è abituato a vivere in giro per il mondo. Lui minimizza: «Sembra più di quello che è: fino ai 10 anni sono stato a Barcellona». Già, solo che quando era in quarta elementare, il papà dirigente d’azienda – «settore elettronico», precisa – si trasferisce con moglie e figli («Mio fratello Gregory di due anni meno di me e mia sorella Paula sette») a Tokyo. «Per me, dove sono i tuoi genitori, sei a casa. Poi, in effetti, in quegli anni siamo andati tanto in giro, da Hong Kong all’Australia: costava poco ed era relativamente vicino. Del Giappone mi piaceva il senso di “sicurità”: potevi lasciare in giro qualsiasi cosa, nessuno rubava niente. Io poi studiavo in una piccola scuola tedesca: 500 allievi, contro i 1.500 di quella in Spagna... Era una specie di bolla. Ma tanto rispetto per gli altri, però, s’è rivelato un boomerang. Tornare a Barcellona, sette anni dopo, fu una sberla: per sopravvivere, ho dovuto imparare a essere più paraculo, come tutti gli altri».
Nessuna lezione di piano. Sette anni, a quell’età, non sono pochi. Per Alvaro Soler, poi, è lì che scatta la passione per la musica. «Al primo compleanno, i miei genitori mi hanno regalato una tastiera Casio. Ho cominciato a suonare nella mia stanza, ma senza studiare: avevo visto “soffrire” mio fratello con le lezioni di piano... Però, se mi metto in testa una cosa, la faccio finché non mi riesce perfettamente. Quando poi ho comprato il cavo per connettere la tastiera al computer, mi si è aperto un mondo che non aveva limiti». A Tokyo comincia anche a suonare con un gruppo: «Facevamo “cover”, tipo le canzoni della band rock Nickelback, che amo sempre. Me ne stavo al piano, in disparte, mentre mio fratello era il cantante della band ufficiale della scuola».
Generazione dinamica. Il rientro a Barcellona, però, alla fine del liceo, è decisamente “strong”. Il papà, infatti, si trova senza il vecchio lavoro e trovarne uno nuovo, con la spirale della crisi, è tutt’altro che facile. «Abbiamo imparato che non è sempre e solo il padre a dover portare a casa i soldi. Certo, per un uomo abituato a sentire questa responsabilità non è facile accettare il cambio di prospettiva. Ma lì abbiamo realizzato che una famiglia è un team: mia madre Letizia, che in Giappone faceva la mamma – un lavoro che comunque non va sottovalutato – ha avviato un corso di cucina giapponese in casa, poi ha fatto la chef, e ora gestisce l’import di prodotti giapponesi per un’azienda. Anche io e mio fratello abbiamo fatto un po’ di tutto...». Un cambio di passo non da poco. «Per fortuna in casa c’è sempre stata l’idea di dover faticare per ciò che desideri. E la situazione ci ha insegnato a reinventarci. Mi ha fatto capire che apparteniamo a una generazione dinamica, che sa di non poter vivere tutta la vita con un solo impiego, come era accaduto a mio nonno che ha sempre lavorato in una banca. È una cosa che mi piace di oggi: la capacità dei giovani di inventarsi nuovi lavori, di saper cambiare nonostante tutte le difficoltà».
Intanto, la passione per le macchine e per la musica andavano avanti in parallelo, l’università e una nuova band, gli Urban Lights, con Greg voce, l’amico Ramon chitarra e Alvaro sempre alle tastiere. «Nel frattempo guadagnavo facendo tanti lavori». Tipo il fattorino di dolci. «Per la verità, lì sono durato due giorni: guidavo il furgone ed ero preoccupatissimo che, dietro, i pasticcini si capovolgessero. Per una consegna in cima a una collina sotto la pioggia, mi sono trovato con le gomme che slittavano e la necessità di trovare un’altra strada su Google Maps. Insomma, sono arrivato tardissimo... Poi ho fatto lo chauffeur e il parcheggiatore nelle feste. Era divertente, mi capitava di guidare macchine pazzesche, l’avrei fatto anche senza essere pagato... Per un evento, ho avuto fra le mani una Aston Martin: prima di portarla dove dovevo, ho fatto un giro lungo fino a casa dei miei nonni: avevano appena visto in tv “007”, li ho lasciati senza parole. Ma sono stato anche alla reception di tantissimi congressi, parlavo diverse lingue. Una volta, all’Hospital de la Santa Creu i Sant Pau, un edificio modernista disegnato da apprendisti di Gaudí, portavo gli ospiti più anziani, come Carolina Herrera, a destinazione con un golf cart. Ho accompagnato anche Shakira, che era incinta».
Viva la Pantera Rosa. Non poteva durare: «Avevo sempre i soldi giusti, anche per andare al cinema o prendere un treno. Le agenzie pagavano con due mesi in ritardo, ero sempre lì a fare i conti». Ciò che restava, lo metteva nella musica. «Dopo la laurea, i lavori da ingegnere erano tutti a tempo pieno, a 200-300 euro al mese massimo. “Ho 22 anni”, ho pensato, “e non finisce qui se non trovo lavoro adesso”. Volevo prima vedere se riuscivo a combinare qualcosa con la musica. Ne ho parlato anche a casa: mi sono dato due anni». Sono bastati. «Durante un camp in Austria, fra le Alpi, dove vai cinque giorni a scrivere canzoni dalle 9 a mezzanotte, creando ogni giorno con un nuovo team, mi hanno fatto un’offerta».
Ha cominciato a fare la spola tra Barcellona e i produttori di Berlino. «Allora dormivo in studio, su un letto Ikea. Ora abito nella zona di Neukölln, vicino Kreutzberg: era a ridosso del Muro, ma nel settore Ovest. Qui ogni sera puoi fare qualcosa. Barcellona non è così dinamica: devi pianificare un giorno prima in modo che tutti si preparino. A Berlino s’improvvisa, arriva sempre qualcuno che ti trascina a un party. Ma oggi, quando sono lì di solito mi rilasso: vedo Narcos su Netflix o per la ventesima volta il mio film preferito, La Pantera Rosa nella nuova versione con Steve Martin. Uno recente che mi è piaciuto è Mustang, la storia di 5 sorelle turche che lottano per essere libere (in corsa per la Francia agli Oscar 2016, ndr)».
Il resto della sua vita è una galoppata. Due anni fa Soler scrive El mismo sol, i produttori lo ascoltano e chiedono: perchè non lo canti tu? «“Ne devo parlare con la mia band”, ho risposto». Era un’opportunità che non capita spesso. «Tutti d’accordo: ci dovevo provare. Del resto sapevano già che scrivevo pezzi per altri e una cosa del genere poteva succedere in qualunque momento...». Il legame è rimasto intatto, e il disco è andato alla grande: pochi mesi dopo, una superstar come Jennifer Lopez ha invitato Alvaro a duettare con lei. Ancora qualche mese, ed esce Sofia: boom, di nuovo. «Il video l’abbiamo girato a Cuba, dove abbiamo preso una casa con AirBnB: la doccia era sempre gelata, meno male che fuori faceva caldo. Mi dà l’impressione di un’isola di “sopravvissuti”, dove hanno messo la gente a vedere che succede in una situazione difficile», spiega Soler. «Un dottore – che è in cima alla scala sociale – guadagna 35 euro al mese, mentre il wi-fi costa 2 euro all’ora. Così la gente deve fare anche baratti e lavoretti... Ora che è morto Castro? Io quasi pensavo che fosse già morto, e che il fratello Raul fingesse che fosse vivo... Cambierà tanto, soprattutto perché da aprile gli stranieri potranno comprare gli immobili. Sai quanti edifici straordinari verranno acquistati e trasformati in alberghi...».
Intanto, per lui c’è XFactor: «Sì, lo rifarei. Mi ha fatto capire come funziona il mondo televisivo, che non è il mio. Ho vissuto i momenti magici dei concorrenti. Come Eva, che mi fa venire la pelle d’oca, e Gaia. E lavorare coi Soul System è stato molto divertente. Con Manuel Agnelli conto di mantenere un legame». Sembrate agli antipodi. «Invece in tante cose siamo simili. Ha grande curiosità e nessun pregiudizio. Anche se prima di incontrarmi avrà pensato: ma chi è questo che ha fatto due tormentoni d’estate mentre io sono l’indie super-alternativo... Poi potrei duettare con Fedez. In fondo a Barcellona rappavo in inglese. Mi piacerebbe cantare anche con John Mayer e Tori Kelly, che ha una voce pazzesca. E con Shakira: così potrei raccontarle di quella volta che l’ho portata in golf cart...».
Edoardo Vigna