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 2016  dicembre 09 Venerdì calendario

TUTTI GLI ITALIANI DEL PRESIDENTE


C’è chi, come Paolo Zampolli, pur vantando un’amicizia antica e intima con Donald Trump al quale quasi vent’anni fa presentò una giovane modella slovena, Melania, che ora sta per diventare la “first lady” degli Stati Uniti, ostenta aspettative modeste: «Mi piacerebbe volare qualche volta sull’Air Force One». E chi, come Rudy Giuliani, ha puntato i piedi chiedendo l’incarico di maggior prestigio, quello di Segretario di Stato, come premio per avergli offerto un sostegno incondizionato fin dalla prima ora, quando “The Donald” nel Partito repubblicano era considerato poco meno che un appestato.
Sono tanti gli italiani d’America assiepati sul carro del neopresidente degli Stati Uniti. Con una caratteristica curiosa: i fedelissimi della prima ora sono sicuramente nel cuore del “tycoon”, ma i personaggi destinati a contare di più nella sua amministrazione sono quasi sempre quelli che sono saliti a bordo solo di recente. Mike Pompeo, il deputato italoamericano del Kansas scelto da Trump come capo della Cia, i servizi federali di spionaggio, è un ultraconservatore dei Tea Party che all’inizio della campagna elettorale si era schierato con Marco Rubio: convertito solo quale mese fa al “trumpismo”. Lou Barletta, il deputato della Pennsylvania che Trump ha pensato di portare al governo come ministro del Lavoro è da sempre su posizioni anti-immigrati (da sindaco di Hazleton, una delle città americane più impoverite da una deindustrializzazione che ha alimentato il rancore sociale, aveva addirittura vietato di tradurre i documenti pubblici in lingue diverse dall’inglese), ma è passato con Trump solo a fine marzo quando il suo candidato alle primarie repubblicane, Rick Santorum, ha gettato la spugna. Anche tra i miliardari che appoggiano Trump c’è un po’ di tricolore: spicca Kenneth Langone, il fondatore di Home Depot che è stato a lungo una sorta di “king maker” tra gli amministratori dello Stock Exchange, la Borsa di Wall Street, ed è tuttora uno dei conservatori più influenti di New York. Oggi Ken è un fan convinto di Trump dopo essere stato un finaziatore della sua campagna, ma ancora pochi mesi fa era schierato con Chris Christie, del quale è un vecchio amico. Quando il governatore del New Jersey decise di rinunciare alla corsa alla Casa Bianca e di associarsi a Trump, Langone si infuriò: ci vollero settimane per fargli digerire il cambio di rotta. E, in fondo, anche la “connection” di Trump con Christie, ha un po’ di sapore italiano: il New Jersey è lo Stato nel quale Trump aveva accumulato più amici e soci italiani, soprattutto nell’era (ormai tramontata) degli investimenti nei casinò e negli alberghi di Atlantic City. E il governatore, il cui cognome riflette le origini scozzesi e tedesche del padre, ha una madre siciliana. Nella carriera professionale, poi, Christie, si è associato a un italoamericano, Bill Patucci, successivamente diventato il suo “fundraiser” quando è passato dalla professione legale alla politica.

Commendatore della Repubblica. Un altro miliardario che spalleggia Trump avendo una storia professionale in un certo senso simile è Peter Kalikow: ha cominciato costruendo palazzine popolari nel quartiere di Queens, lo stesso dal quale è partito “The Donald” e poi anche lui si è autocelebrato dedicandosi uno scintillante grattacielo a Manhattan, in Park Avenue. 73 anni, ebreo russo, Kalikow può essere considerato un italiano d’adozione: adora il nostro Paese, la nostra cultura (che sostiene con molte attività filantropiche) e anche le nostre auto: è considerato il più grande collezionista vivente di Ferrari degli Anni 50 e 60. Ne ha perfino una, battezzata Ferrari F 612 Kappa, che si è fatta costruire solo per sè, un esemplare unico, dalla Pininfarina.
Ospite fisso dei forum politici di Cernobbio e di molte altre manifestazioni nel nostro Paese, Kalikow, nominato qualche anno fa Commendatore della Repubblica Italiana, ha organizzato manifestazioni pro-Trump nel “Club 101”, il locale esclusivo in cima al suo grattacielo di Park Avenue South, rivendicando di essere amico da quaranta anni del “tycoon”. La verità è che i rapporti tra i due immobiliaristi miliardari erano certamente cordiali, ma questo non aveva impedito a Kalikow di fare una scelta politica diversa appoggiando, durante le primarie, un candidato più moderato e più integrato nell’”establishment” repubblicano: il goernatore dell’Ohio John Kasich. Il cambio di rotta è arrivato solo quando Kasich è uscito di scena.
Non può essere considerato un “trumpiano a trazione integrale” nemmeno l’italiano che avrà con ogni probabilità la maggiore influenza nelle scelte economiche e politiche di Trump, anche se non entrerà nel suo governo o non starà in prima fila: il finanziere Anthony Scaramucci. Personaggio brillante ed eclettico finanziere, imprenditore, autore di libri sul mondo degli affari, conduttore di una trasmissione televisiva su Wall Street trasmessa dalla rete Fox Business Scaramucci è sicuramente nel cuore di Trump che lo ha inserito nel suo “governo provvisorio”: Anthony è, infatti, uno dei 16 membri del comitato esecutivo del “transition team” che deve costruire l’amministrazione del nuovo presidente repubblicano.

Soldi e anima. Cinquantadue anni, classico “self made man” (il padre era un muratore), Scaramucci ha un passato in Goldman Sachs come il neoministro del Tesoro, Steve Mnuchin, ma poi ha creato il suo fondo, Sky Bridge Capital, che ha avuto grande successo. Col suo saggio Addio Gordon Gekko (il personaggio interpretato da Michael Douglas, l’incarnazione dell’avidità, che è il protagonista di Wall Street, celebre film di Oliver Stone) Scaramucci ha tentato di spiegare come, secondo lui, sia possibile fare tanti soldi senza vendere la propria anima.
Nel 2008 Anthony sostenne addirittura Obama, ma poi mollò il presidente democratico, accusandolo di perseguitare Wall Street. Quattro anni fa lo troviamo schierato a destra come copresidente della campagna elettorale di Mitt Romney, il candidato repubblicano, sconfitto da Obama, che quest’anno ha cercato invano di contrastare l’avanzata di Trump. A differenza di Romney, Scaramucci non ha aspettato l’esito del voto di novembre per allacciare rapporti con il “tycoon” che è riuscito ad arrivare alla Casa Bianca: lavora per lui già da più di sei mesi, ma gli archivi della Fox stanno lì a testimoniare che fino a non molto tempo fa Anthony parlava di Trump come di «uno del Queens che si è arricchito con soldi ereditati».
Tra gli italiani d’America più vicini a Trump, Zampolli è sicuramente uno di quelli che vantano i rapporti più antichi. Milanese, sbarcato negli Usa (a Miami) nel 1993, Paolo conosce Trump due anni dopo e nel ’97, imprenditore delle agenzie che gestiscono modelle, invita Melania, amica della fidanzata, al suo tavolo durante una cena con Donald. Scocca lì la scintilla. Zampolli farà poi affari nel settore immobiliare grazie a Trump e diventerà una sorta di coordinatore delle sue attività internazionali. Oggi, nella sua curiosa parabola, Zampolli è ambasciatore all’Onu di Dominica, piccola repubblica con problemi di approvvigionamento energetico e minacciata dagli effetti “global warming”: si occupa, quindi, soprattutto di ambiente ed energie rinnovabili. Temi non proprio “trumpiani”.

Ma, anche a distanza, la fedeltà, anzi la fede, in “The Donald” rimane totale: in una recente intervista
Zampolli ha sostenuto che Trump farà l’America “great again” per otto anni e poi aprirà la strada alla prima donna presidente: sua figlia Ivanka.

Un vicino di casa. Un altro italiano di spicco del “Trump team” è Guido George Lombardi, arrivato negli Usa nel 1981. Lombardi, che vive nella Trump Tower qualche piano sotto la “penthouse” di Donald e Melania, ha creato il sito “Citizens for Trump” e, durante la campagna elettorale, ha coordinato le associazioni che hanno sostenuto in rete la candidatura del “tycoon”. Lombardi, che mantiene anche solidi rapporti con l’talia (amico da trent’anni di Berlusconi e Bossi) è anche una sorta di ambasciatore del neopresidente nel nostro Paese: a giugno è stato invitato a parlare a Roma a un seminario organizzato dalla Camera dei Deputati per approfondire il tema delle elezioni americane. Di lontane origini italiane è anche Dan Scavino, responsabile per i rapporti di Trump coi “social media” (sostanzialmente la gestione dei suoi micidiali “tweet”), ora addetto alla comunicazione del “transition team”. Donald lo conobbe quasi 30 anni fa su un campo da golf della contea di Westchester. Dan, allora sedicenne, faceva lavoretti nel circolo nelle ore libere dallo studio: Trump se lo prese come assistente, “caddie”, durante le partite. Qualche anno dopo il miliardario si comprò tutto il “country club” e Scavino ne divenne il direttore. Poi passò nel settore della comunicazione. Ormai quarantenne, Scavino è stato richiamato l’anno scorso da Trump per la campagna elettorale.
Un altro personaggio con un ruolo poco visibile ma, secondo molti, rilevante, è James Carafano, storico ed esperto di affari internazionali della “Heritage Foundation”, un centro studi conservatore, che, nell’ambito del “transition team”, sta aiutando Trump a selezionare i personaggi che dovranno affiancare il Segretario di Stato nel Dipartimento responsabile della politica estera Usa. Tanti nomi italiani nel mondo di Trump non devono sorprendere, visto che una parte consistente della popolazione americana discende da immigrati dal nostro Paese. In qualche caso si tratta di personaggi che che non parlano nemmeno la nostra lingua: di italiano hanno solo il cognome e qualche foto ingiallita dei nonni. Ma molti altri sono veri italiani o restano legati all’Italia, un Paese che a Trump sicuramente piace.
C’è, poi, un dato politico: benché divisa, come tutta l’America, tra demoratici e repubblicani, la comunità italoamericana è in maggioranza conservatrice. Lo si vede ad esempio a New York, città progressista per antonomasia e con un sindaco democratico italoamericano, Bill deBlasio, dove l’unico quartiere a votare repubblicano è Staten Island, una roccaforte italiana. Per decenni gli italiani hanno alimentato i movimenti operai, hanno guidato i sindacati. Man mano che si sono integrati nella società americana, però, molti di loro si sono sentiti parte più dell’America bianca tendenzialmente conservatrice che di quella multietnica di ispanici, neri e asiatici alla quale ha fatto appello Hillary Clinton. E se la Columbus Foundation mantiene una linea filodemocratica per l’influenza del governatore dello Stato Andrew Cuomo un rapporto che rispecchia soprattutto l’antico e stretto legame dell’organizzazione con suo padre, Mario Cuomo, scomparso due anni fa nella Niaf, la maggiore associazione degli italiani d’America, prevalgono le simpatie per il Partito repubblicano. La fondazione non si è mai schierata ufficialmente ed è rimasta equidistante anche nell’assemblea annuale svoltasi pochi giorni prima del voto.
Ma nella NIAF sono diffuse le simpatie per Trump che negli anni scorsi ha anche ospitato una delle sue “convention” in quella Mar-a-Lago, in Florida, che è insieme “resort” e residenza estiva del miliardario ora costretto a vivere alla Casa Bianca: stanze anguste e niente viste panoramiche.
Massimo Gaggi