Gian Antonio Stella, Sette 9/12/2016, 9 dicembre 2016
SONO SUO AMICO DA 25 ANNI. E VI SPIEGO QUALI SONO LE REGOLE DEL GIOCO SECONDO TRUMP– [Flavio Briatore] «Scriva: sarà il più grande dei presidenti americani»
SONO SUO AMICO DA 25 ANNI. E VI SPIEGO QUALI SONO LE REGOLE DEL GIOCO SECONDO TRUMP– [Flavio Briatore] «Scriva: sarà il più grande dei presidenti americani». Bum! Seduto su un divano della sua villa a Montecarlo, maglietta nera e occhialetti azzurri («da vista o da sole? Da cazzeggio») Flavio Briatore, che già non ha fama di uomo dimesso e riservato, la butta lì con gagliarda sicurezza: il suo amico Donald Trump («lo vedo mercoledì, a New York, a colazione») «stupirà tutti. È davvero il più bravo. Difatti sta mettendo su un “dream team”. Una squadra da sogno». Oddio, dopo una campagna contro la grande finanza ha piazzato al Tesoro il banchiere Steven Mnuchin, ex Goldman Sachs e al commercio il miliardario Wilbur Ross, il «re della bancarotta» diventato immensamente ricco rilanciando imprese alla canna del gas rilevate a prezzi stracciati... «In campagna elettorale si sa, uno cerca d’accaparrarsi i voti di tutti. Poi deve governare, però. Cosa si aspetta la gente? Che l’economia sia rilanciata. Lui la rilancerà. Visto l’esordio? Appena eletto ho mandato un sms a un amico italiano importante: domani compra. E infatti le borse sono andate giù e son subito risalite. Così i prezzi degli immobili... C’è euforia. Molta euforia». Ha festeggiato? «Certo». Regalino per l’elezione? «Già fatto. La notte stessa gli ho fatto trovare a casa tre bottiglie di Amarone Aneri». Obama aveva avuto il prosecco... «Donald è, come dire, più “strutturato”». Come se la caverà, col conflitto di interessi? In America non può cavarsela dando le aziende alla figlia o al miglior amico come Berlusconi... «È vero. L’America è più dura. Si organizzerà: fare il presidente degli Stati Uniti è più importante che gestire le aziende. Lo sapeva che avrebbe dovuto smettere di far business. Ci sarà probabilmente un blind trust. Sono rigidi gli americani, in questo. Poi, certo, le attività di Ivanka, sue personali, sono un’altra faccenda». Da quanto tempo lo conosce? «Donald? Venticinque anni, credo. L’ho conosciuto a New York, dove vivevo e lavoravo per Benetton». Com’era? «Uguale ad oggi. Grande carisma, grande personalità. Forse un po’ meno popolare perché non aveva ancora iniziato a fare The Apprentice, il programma televisivo che lo ha fatto conoscere ovunque. Ma la Trump Tower era già tra i simboli di New York. E lui rappresentava l’american dream. Un bel ragazzo, un po’ playboy...» Tra lei e lui? «Credo che lo battessi io. Ai tempi». Adesso? «Non facciamo più gare. Siamo sposati... Abbiamo messo la testa a posto». Non ci ritroveremo nuove «Moniche» alla Casa Bianca? «Ma per carità. Ormai ha fatto la sua scelta di vita. Anch’io per trent’anni ho fatto il playboy, poi mi sono sposato, ho fatto un figlio ed è finita lì: non avete mai più visto una foto mia con altre donne sulle copertine. Fine. Finché dura un matrimonio rimani sposato. E Trump finché dura quello con Melania, penso per sempre, rimane sposato. Non è un vizioso. È uno normale. Come noi». A proposito di Melania... «È una persona molto normale, timida...» Oddio, timida: a vedere certe foto... «Ma era il suo lavoro! Mi è capitato di avere fidanzate che facevano le modelle... Qualche nudo... Insomma, era il suo lavoro. Fine. Andare a prendere vecchie foto non ha senso. Sarà la più bella first lady di tutti i tempi ma è molto perbene, molto normale. È una che impara bene i suoi compiti. Guardi da dove è partita e dove è arrivata: ha imparato bene a fare i compiti». Quindi secondo lei sarà una buona first lady. «Negli ultimi anni è cambiata molto anche nel vestire». Perché, una volta come vestiva? «Era più giovane. Come tutti quanti. Vede, le donne... Ci sono donne intelligenti che hanno un’evoluzione e migliorano. Le capre rimangono capre, ma se lei vede Melania oggi... Ha visto le sue apparizioni accanto al presidente? Perfetta. Ma tornando a una volta: certo, a Donald piacevano le ragazze. Non era un “womanizer”, un donnaiolo, però. Erano le donne che cercavano lui». Per la sua bellezza, immagino... «Potere, soldi... Credo sia un’attrazione fatale per le donne...» . Zsa ZSa Gabor ci rideva su: “si può perdere la testa per un bel conto in banca”... «Sì, sì... Poi dipende anche da come uno si presenta... Lui era famoso. Magari non in Europa, allora. Ma a New York Donald era Donald. A Manhattan non aveva solo la Trump Tower. Ricordo un giorno con Luciano Benetton lì alla Trump Tower. Stavamo entrando nella Formula Uno, Bernie Ecclestone aveva il problema che negli Stati Uniti (dove la Benetton aveva sette o ottocento negozi) la Formula Uno non era presente e io e Luciano volevamo vedere se era possibile organizzare insieme un gran premio a New York. O almeno, visto che a Manhattan ci sarebbero stati problemi di traffico, nel New Jersey dove lui era fortissimo. Dall’ufficio, in alto, ci mostrò il Plaza di sotto: “non è ufficiale, ma l’altra settimana l’ho comprato”. Insomma, come imprenditore era già molto grosso». Ma cosa c’entrava lui con la F1: ama le macchine? «Ama gli eventi. Era un promotore incredibile, Donald. I grandi incontri di pugilato, come quelli di Las Vegas, li ha promossi lui. Anche Miss Mondo l’ha sempre fatta lui. È molto poliedrico. Passa da un settore all’altro sempre con impegno meticoloso. È uno che se fa un’operazione la studia mille volte. Ha un gruppo di persone molto veloci nel decidere. Ma vanno sempre a fondo sulle operazioni che gli propongono». Se è così come mai ha fatto sette bancarotte? «Il problema è stata Atlantic City. Hanno sottovalutato i costi e sopravvalutato il flusso di gente che doveva arrivare. Atlantic City non è Las Vegas, che fa più di quaranta milioni di visitatori per l’80% californiani. A Las Vegas è sempre caldo, ad Atlantic City d’inverno può fare un freddo cane. Non è confortevole, la città non esiste, la vita era solo negli alberghi e lui, Donald, si è fatto male. Un disastro. Ma si è leccato le ferite ed è ripartito. In Italia dopo una cosa così non sarebbe più riuscito a aprire neanche una pizzeria, in America no. E con l’aiuto delle banche che l’hanno supportato è ripartito». Una delle «regole» del programma The Apprentice che lei ha fatto nella scia di Trump diceva: non devi sottovalutarmi mai e soprattutto non devi sopravvalutarti mai. È stato quello l’errore di Hillary? «Altroché. Ricordo una sua intervista prima che Donald sfondasse, quando era solo uno dei tanti in lizza per i repubblicani: “my dream is Donald”. Il mio sogno è avere come avversario Trump. Così disse. In tutta sincerità: c’è stato un momento in cui anche noi, diciamo gli amici, pensavamo che Donald esagerasse. Il muro in Messico... E noi a consigliargli di stare più cauto. Invece aveva ragione lui perché per avere la nomination lui ha dovuto parlare alla pancia degli americani. Che non sono quelli che vivono a Boston, New York o Philadelphia». Insomma, Berlusconi ringrazia Dio di non aver ascoltato a suo tempo Confalonieri, e Trump ringrazia Dio di non aver ascoltato lei e altri. «Il punto è che nessuno dei suoi amici era convinto della campagna che faceva. Nessuno. Ricordo un viaggio in Kenya con Tom Barrack, uno dei suoi consiglieri più ascoltati. Eravamo un po’ preoccupati per la sua aggressività e invece questa aggressività alla fine ha pagato. Lui non ha né sopravvalutato né sottovalutato niente. Aveva ragione». Quando ha annusato, lei, che invece poteva vincere? «Quando Tom Barrack mi ha detto: “abbiamo mandato milioni di lettere, sai le lettere d’una volta... Non email: lettere, col bollo. Cosa pensi, cosa voti, cosa non voti... E la gente rispondeva con percentuali molto più alte di quanto pensassimo... Temevamo le buttassero nel cestino. Invece...” Finché Tom, un mese e mezzo prima del voto, mi disse: “i sondaggi non valgono niente... Noi parliamo alla pancia della gente”. E come mai, secondo lei, questa pancia dell’America non gli ha rinfacciato l’essere ricco o non aver detto quanto paga di tasse? «Sui redditi lui aveva risposto: “andate a vedere quelli delle mie società”. La ricchezza, poi, l’ha aiutato. In America, se ti vedono con una Ferrari, sognano: devo sgobbare di più per comprarla anch’io. In Italia ti tagliano le gomme... L’abbraccio mortale a Hillary, comunque, l’ha dato Obama». Ne è convinto? «Sì. È stato quello che le ha fatto perdere le elezioni. Bastava girare un po’ l’America e capivi che la gente non ne poteva più dei Clinton, dei Bush, degli Obama, delle famiglie di potere. Capivi che non era più il momento di questi passaggi tra una famiglia e l’altra. Capivi che Obama e tutta quella filiera era finita...». Il suo spot diceva: «a essere spietati non siamo secondi a nessuno». Solo un gioco? «Io credo che uno degli atout che ha avuto sia stata proprio quella trasmissione. La nostra, a pagamento su Sky, è andata bene. Ma la sua, durata 13 anni su un canale di punta, ebbe un successo enorme. Audience pazzesche. Quando si è candidato tutti gli americani lo conoscevano. Tutti. L’avevano visto per anni nelle loro case. Anche nelle periferie più profonde. E apprezzavano la sua schiettezza». Era anche molta scena... «You’re fired!» Sei licenziato! «Non creda. Era quasi tutto vero. I concorrenti più bravi, in gara per avere un contratto a sei cifre, li abbiamo assunti davvero. Io nelle mie aziende, lui nelle sue. Ho ancora giovani che lavorano per me che sono stati presi così. Le assicuro che se per contratto devi assumere uno per un anno a certe cifre ci stai attento». Pensa che qualche concorrente di The Apprentice possa finire nello staff della Casa Bianca? «Può scommetterci. Ce ne sarà sicuramente qualcuno». Ma se lo vede nello studio ovale, il suo amico Donald, a urlare a un collaboratore «You’re fired!»? «Sicuro. Anche se era uno show quella trasmissione era molto seria. Dovevamo assumere “il migliore”. In tutti i sensi. Infatti qualcuno veniva messo fuori per ragioni etiche». Cosa intende, per etica? «Parlo di etica sul lavoro. Magari si era accordato con un altro per escludere un avversario... insisto: non era un reality, chi vinceva veniva assunto davvero. Era una cosa seria. Da prendere sul serio». Show a parte: cos’è l’etica, per Trump? «Ripeto: tenga da parte questa intervista e vedrà che avevo ragione: ce lo ricorderemo come un grande». Insisto: ce l’ha, uno spessore etico? «Assolutamente. È legato alla moglie, ai figli, al lavoro...». Alle regole? «Sicuro». C’è chi dirà: certo che parlare di etica con Briatore... «Guardi che io ho avuto un solo contenzioso. Per la barca. E vedremo come va a finire. Le tasse io le ho sempre pagate. All’estero, certo. Ma è all’estero che vivo da decenni. Solo la barca...». Beh... Le bische... «Ma ero un ragazzo, dai! Se uno sbaglia e si ravvede... Ho sempre ammesso d’aver sbagliato. Quarant’anni fa! Poi, invece di fare il delinquente, ho scelto di lavorare. E ho lavorato duro. Sono più etico di tutti. Lo chieda a chi lavora con me: il primo ad arrivare in ufficio, l’ultimo ad andar via». Senta, in campagna elettorale Trump ha mostrato di avere spesso scatti di collera: ma può permetterseli, un presidente? «Capita a tutti. Anch’io, se mi incazzo mi incazzo. Due minuti. Poi passa. Ma stia tranquillo: ha i nervi saldi. Saldissimi». Curiosità: ma lo conosce, il mondo? In politica estera... «Sì, forse su quello è un po’ più debole. Ma anch’io non sapevo niente di Formula 1. Poi ho vinto i mondiali. Lui è uno che impara in fretta. E poi, scusi, mi pare che negli ultimi anni gli Stati Uniti le abbiano sbagliate tutte, o no? Che senso c’era a far la guerra a Putin? L’embargo con la Russia! E noi cretini, in Europa, che siamo andati dietro, con la Merkel. Puoi girarla come vuoi, ma io mi fido più di un imprenditore che negozi con Putin che di un politico professionista». Lei sosteneva che per affermarsi nella vita occorre «mangiare filo spinato»: quando mai l’ha mangiato, il suo amico Donald, se il papà gli diede un «aiutino» iniziale di un milione di dollari? «Non è questione di soldi, tanti o pochi non importa. Se hai un milione e scommetti su un progetto da dieci milioni è come aver mille euro e puntare a diecimila. È lì che vedi il coraggio. Ma non ci dormi, di notte». E lei quando dorme, se oltretutto passa le notti al Billionaire? «Non creda: tolte le serate di lavoro dove ho un locale, come a Dubai o in Sardegna, vado a letto alle dieci». Gian Antonio Stella