Regina Picozzi, Il Fatto Quotidiano 9/12/2016, 9 dicembre 2016
LA SUPERFUGA DEI BALLERINI
Fan di tutte le età impazzite, foto e selfie come a un concerto rock, dediche autografate sulla pelle: Roberto Bolle è per antonomasia, in questo periodo, la stella della danza in Italia. Colui che ha portato il pas de deux sulle tavole pop degli italiani è sicuramente un nostro fiore all’occhiello. Ma per uno che ce l’ha fatta, mille rimangono indietro. Non per carenze tecniche o artistiche, ma perché troppo spesso i sacrifici, lo studio ininterrotto e il poco tempo (quello fisiologico) per imporsi non arrivano all’attenzione del pubblico. Per sfruttare al massimo questo spazio vitale, i ballerini scelgono allora di volare oltre confine, dove chi ha talento può emergere con più rapidità e ottenere i giusti riconoscimenti economici.
Non a caso in un Paese come il nostro, caratterizzato da una dilagante “cultura” dei talent show televisivi, il teatro continua ad avere bassi budget e poche date in cartellone. Un sistema bloccato e tendente all’esterofilia. Cosa fanno, allora, i ballerini italiani?
Chi ci crede ancora sceglie di restare. Come Gaia Straccamore, danzatrice di straordinaria tecnica e grande eleganza, entrata nella scuola del Teatro dell’Opera di Roma a nove anni e divenuta étoile nel 2014. O Alessandra Amato, che lo scorso ottobre ha ricevuto la medesima nomina, a Roma. O ancora Claudio Coviello, che dal 2010 fa parte del corpo di ballo del Teatro Alla Scala di Milano e che lo stesso Bolle ha definito “una gemma pura da coltivare”. Esempi di chi non ha rinunciato al palco né al proprio Paese.
Poi ci sono loro. Quelli che se ne vanno. Quelli che partono come sconosciuti e tornano qui, in tournée, come stelle della danza, dopo esser stati accolti altrove con tutti gli onori e sempre altrove gratificati economicamente e professionalmente.
Petra Conti, diplomatasi all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, oggi è principal dancer del Boston Ballet, che è attualmente una tra le migliori realtà statunitensi. La torinese Silvia Azzoni dal 2001 è principal dancer nel Balletto di Amburgo e Vito Mazzeo, calabrese, formatosi al Teatro alla Scala, nel 2010 è entrato nel San Francisco Ballet come solista e dopo appena sei mesi è stato nominato principal dancer, per poi diventare primo ballerino del Dutch National Ballet, nel 2013. Solo alcuni nomi di chi se n’è andato, ovvero della nuova generazione di danzatori che si afferma all’estero, in cerca di luoghi meritocratici. “È giusto fare la gavetta, ma nelle compagnie italiane prima che ti affidino parti da protagonista passa troppo tempo”, sottolinea Federico Bonelli. Per lui, che proviene dal Teatro Nuovo di Torino, ci sono stati il Balletto di Zurigo, quello nazionale olandese e infine il Royal Ballet.
Mentre nel resto dell’Europa ed oltreoceano la danza si afferma come una delle arti nelle quali investire, in Italia si preferisce contenere i costi dei teatri eliminando i corpi di ballo: chiusure storiche sono state già quelle del Regio di Torino, della Fenice di Venezia, del Verdi di Trieste, del Comunale di Bologna, del Maggio Musicale di Firenze. Ancora in vita le compagnie del Teatro Alla Scala di Milano, dell’Opera di Roma, del San Carlo di Napoli e del Massimo di Palermo, che eroicamente resistono.
La ragione, solo apparentemente di natura economica, è in realtà da ricercarsi in una scelta politica, che si nutre di uno specifico substrato culturale: l’Italia è il Paese della lirica, tradizionalmente. Ovvia evidenza dietro cui si cela un atteggiamento di scarso interesse, la cui conseguenza più diretta è il diffondersi dell’errata concezione secondo cui la danza, l’unica danza, sia quella da guardare seduti di fronte alla tv: intrattenimento e non arte.
Ed è proprio nel mondo televisivo, purtroppo, che per gli stessi danzatori è possibile trovare spesso quei guadagni che all’interno di un teatro non arrivano mai: se in una compagnia teatrale si percepiscono circa 1.600 euro al mese a fine carriera (19.200 euro annui), per un programma in tv si può tranquillamente sfiorare la soglia dei 5mila. E a proposito di stipendi, solo il salario di partenza per un membro della compagnia del Royal Ballet di Londra è di circa 25 mila sterline annue, ovvero intorno ai 30 mila euro. Negli Stati Uniti, invece, in base alle ultime negoziazioni contrattuali tra le compagnie e la Agma (ovvero l’unione dei lavoratori americani del settore spettacolo) un membro del corpo di ballo del New York City Ballet o del San Francisco Ballet guadagna più o meno 1.500 dollari a settimana (circa 1.400 euro) per 38 settimane. Intorno ai 5.600 euro mensili, in somma.
Luciano Cannito, regista e coreografo, ha sottolineato come in Germania vi siano 60 corpi di ballo in perfetta salute economica accanto ad orchestre e cori. E, sempre in Germania, quando un ballerino smette di danzare la compagnia di cui fa parte si offre di sostenere le spese dei corsi per un nuovo impiego o continua a fornirgli uno stipendio per un periodo stabilito.
Così se nel nostro Paese i contratti da stabili si stipulano mediamente con ballerini di 35 anni, all’estero vengono fatti a professionisti molto più giovani, in alternativa a quelli per ruoli rinnovabili che si concludono ogni due o tre anni ma che, per merito, vengono sempre rinnovati. Con premesse come queste, sorprendersi della fuga dei nostri ballerini è quanto meno improbabile. Il ventunenne Jacopo Tissi, fisico e lineamenti di una bellezza statuaria, lo scorso settembre ha lasciato Milano ed è stato assunto a Mosca. È il primo ballerino italiano a cui ciò sia mai accaduto. Dopo una settimana di prova non ha più avuto dubbi: un altro mondo, un altro modo di lavorare. Risuonano le sue parole, prima della partenza: “Il Bolshoi è una leggenda, ma il mio cuore resta alla Scala”.
Regina Picozzi