Guido Rampoldi, Il Fatto Quotidiano 9/12/2016, 9 dicembre 2016
L’AMBIGUO OCCIDENTE TRA REGENI E AL-SISI
Nominandolo procuratore generale, il feldmaresciallo al-Sisi aveva affidato a Nabil Sadek il compito di avvalorare una finzione, simulare uno stato di diritto per conto di una dittatura violenta e corrotta. E Sadek si è applicato. Quest’anno, per dire, ha aperto un’inchiesta su una cospirazione ordita dai Fratelli musulmani per sabotare l’economia egiziana, complotto immaginario cui il regime cerca di attribuire le penurie alimentari che esso stesso ha provocato.
Sempre nel suo ruolo di simulatore, tre giorni fa Sadek è atterrato a Roma, dove ha incontrato i genitori di Giulio Regeni e consegnato ai magistrati italiani una montagna di carte inutili. Poi Sadek ha detto che Regeni era “un testimone di pace” e tanto è bastato perché nelle parole del Brighella egiziano Renzi ravvisasse “un passo importante”. Come a dire: vedete? Al-Sisi e i suoi non sono poi così cattivi.
Questa mediterranea commedia dell’arte va avanti ormai da undici mesi senza che le sue maschere abbiano prodotto altro che simulacri e imposture. Tanto varrebbe che il prossimo governo cercasse un modo più dignitoso per conciliare legittimi interessi nazionali e quanto l’Italia deve alla splendida famiglia di Giulio. Ma quel modo esiste? E può inventarlo una politica priva di visione, un parlamento incapace di leggere gli affari esteri se non attraverso la lente del tornaconto spiccio? Forse è proprio appellandosi al nostro tradizionale cinismo che troveremo una risposta. Ma prima occorre capire cosa sta accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo.
Nell’era nuova già cominciata le caste militari arabe hanno preso atto che il mondo unipolare è finito e si regolano di conseguenza. Al-Sisi, fino a ieri considerato un filo-occidentale non solo da Renzi, è sul mercato. D’improvviso ha mollato i suoi finanziatori sauditi e si è avvicinato all’asse Putin-Assad-Khamenei. Discute con i russi di una loro futura base sulla costa egiziana, di nucleare con i pachistani. E intanto si riarma: sommergibili tedeschi, elicotteri francesi, missilistica russa, caccia cinesi. Si dice che il governo isrealiano, per quanto suo amico, si sia innervosito: possibile che tutte queste armi servano soltanto contro i ribelli del Sinai?
L’idea di un Egitto militarista, imprevedibile e forse nuclearizzato a un passo dalle nostre sponde dovrebbe inquietare anche noi. Per nostra fortuna gli europei cercano di aiutare al-Sisi, cioè gli scavano la fossa. Purché impedisca l’emigrazione l’hanno aiutato a ottenere 12 miliardi dal Fondo monetario; ma le condizioni poste dal Fmi, come la svalutazione della moneta, hanno avvicinato i 25 milioni di egiziani poverissimi (reddito medio, 54 dollari al mese) all’alternativa tra esodo e rivoluzione.
Che ha a che fare Giulio Regeni con tutto questo? Proviamo a guardare il mondo con gli occhi della generazione che, rivoluzione o no, formerà la futura classe dirigente. Di uno di quei giovani, universitari o laureati, che grossomodo rappresentavano la metà dei dimostranti di piazza Thahir nei giorni della “primavera”. Costui avrebbe, ammettiamolo, parecchi motivi per detestarci. Nell’agosto del 2013 ha visto ammazzare al Cairo 1200 egiziani inermi e, un anno dopo l’Europa, destra e sinistra, abbracciare l’assassino, al-Sisi, per contendersi concessioni e commesse. Mentre i suoi compagni venivano sbranati nelle camere di tortura, non ha ascoltato dagli europei una sola protesta: l’unica richiesta che ponevano ad al-Sisi era fermare l’emigrazione. Si è sorpreso leggendo calorose professioni di stima per il feldmaresciallo (da Trump a Renzi). Ha appreso che una parte della stampa italiana lo considera portatore di una tara chiamata islam, che Trump lo voleva schedare, che Valls lo ritiene infido. Quel giovane, quella generazione, stanno crescendo nell’idea che l’Occidente sia soprattutto una disprezzabile mediocrità.
Eppure c’è anche un altro Occidente, e Giulio Regeni ne è un simbolo forte. Siti egiziani e siti arabi legati ai diritti umani riferiscono la sua storia. È l’italiano morto come tanti suoi coetanei nordafricani o mediorientali, l’europeo che curiosità e passione civile avevano condotto allo stesso lato della storia dove oggi si rischia e si soffre ma domani forse si vincerà. E allora, non sarebbe saggio, astuto, previdente, sfruttare questa sua popolarità? Coltivare la sua memoria con fondazioni e convegni? Farne l’oggetto di una specie di culto civile, mediterraneo? E non sarebbe tutto questo un buon investimento proprio per quel mondo che considera gli ideali di giustizia e libertà un trastullo per anime belle?
Guido Rampoldi