Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 4/12/2016, 4 dicembre 2016
AI DAVID SI VOTANO GLI AMICI. CERTI GIURATI CHE CONOSCO NON VEDONO NEANCHE I FILM– [Alessandro Borghi] Fino a due anni fa le settimane di Alessandro Borghi avevano le ore contate: “Lavoravo come commesso in un negozio di abbigliamento, facevo il cameriere in una trattoria romana nei weekend e negli spazi liberi mi chiudevo nel gabbiotto con la divisa da sorvegliante
AI DAVID SI VOTANO GLI AMICI. CERTI GIURATI CHE CONOSCO NON VEDONO NEANCHE I FILM– [Alessandro Borghi] Fino a due anni fa le settimane di Alessandro Borghi avevano le ore contate: “Lavoravo come commesso in un negozio di abbigliamento, facevo il cameriere in una trattoria romana nei weekend e negli spazi liberi mi chiudevo nel gabbiotto con la divisa da sorvegliante. Con un occhio davo un’occhiata ai capannoni e con l’altro vedevo fino a quattro film per notte. In quelli americani, soprattutto in quelli americani, il guardiano solitario faceva sempre una brutta fine”. Erano tempi di palestre, guantoni e ruoli minori in cui il boxeur Borghi Alessandro da Viale Marconi, figlio di un archivista della Opel e di una cuoca, danzava intorno al sacco della vita con 3 o 4 mestieri, il sapore dell’incertezza e un diploma da perito aziendale nella tasca. Nessuna avvisaglia all’orizzonte del 2016 trionfale (doppia candidatura ai David di Donatello come miglior attore per Suburra di Stefano Sollima e Non essere cattivo di Claudio Caligari ) o dei progetti futuri (Fortunata di Sergio Castellitto, il ruolo di 8 nella trasposizione tv del romanzo di Bonini e De Cataldo, l’interpretazione di Tenco nel film francese su Dalida: “I liguri mi scrivono ‘Mi raccomando’, io gli rispondo: ‘Deluderò le vostre attese, non sarà mai come vi aspettate che sia’). Il Borghi di ieri non poteva immaginare che gli sarebbero arrivate proposte di ogni genere, ma sorrideva lo stesso: “Sono stato fortunato – ricorda – ieri e oggi. Ero felicissimo anche prima e anche se dirlo ora che è cambiato tutto sembra ipocrita, quella normalità un po’ la rimpiango. Quando dissi per la prima volta a mia madre quanto mi pagavano lei pensò a una truffa”. Quanto la pagavano? Seicento euro a posa. ‘Ti stanno fregando – disse – c’è qualcosa sotto’. Io verso le presunte occasioni ero più diffidente di lei. Tanto scettico che al primo provino non mi presentai neanche. Perché? Danilo Cesarano, che oggi è anche il mio agente, mi incontrò fuori dalla palestra: ‘Io avrei bisogno di un ragazzo che conosca le arti marziali e che abbia una faccia da figlio di puttana come la tua. Vorresti fare un provino?’. Ero rasato, con l’occhio nero, chissà cosa ci aveva visto. Che qualcuno mi pagasse per recitare però mi sembrava strano. I miei genitori, i soldi se li erano sudati veramente. Come poteva essere così comodo? Come poteva arrivare un lavoro tra l’accappatoio e le ciabatte? Infatti non mi presentai e quelli della produzione mi telefonarono a casa. ‘Ma che fai? Ti stiamo aspettando’. Cosa doveva recitare? Dovevo inscenare una vendetta dopo aver subito un pestaggio introducendomi di notte in una camerata con una pistola in pugno. Non avevo la minima idea di quello che stavo facendo. Uscii all’aperto e mi dissero che mi avevano preso. Pensai: ‘Ma è così semplice fare questo mestiere?’. Ed è stato facile? Per niente. Se non fosse arrivato Sollima, uno che fa ancora i casting, uno che incontra ancora gli attori, una botta di vita per l’intero sistema, forse farei ancora le comparsate. Stefano ha generato una rivoluzione. Ha dato a me e a tanti altri attori la chiave per entrare in mondi che altrimenti ci sarebbero stati preclusi e avrebbero visto a rotazione, scelte a tavolino, sempre le stesse facce. Ci ha dato una possibilità. C’era una barriera e il metodo Sollima ha contribuito ad abbatterla sotto tanti aspetti. Ci siamo resi conto che girare una serie secondo gli standard americani non era impossibile. Come è stato lavorare con lui? Mi ha distrutto. Mi ha devastato perché pretende che a quei livelli è una qualità essenziale. Sollima è uno che agli attori tira fuori tutto e non si ferma ai tre canonici ciak. Ci sono scene che abbiamo girato anche 20 volte perché lui sapeva che a un certo punto avrei abbassato le difese e gli avrei dato quello che cercava. Lei si innervosiva? Al limite mi perdevo senza sapere più se Sollima mi chiedeva di rifarla perché sbagliavo o perché credeva potessi farla ancora meglio. Noi attori davamo tutto alla causa perché Stefano ha questa abilità particolare: ti porta nel suo mondo. Dopo un’ora è il tuo migliore amico. Ti mette a tuo agio. Non ti giudica mai. Molti suoi colleghi non riescono a non farlo. E per un attore sentire il giudizio è condizionante. Sollima ti guida, ma sta sempre dalla tua parte. Ne ha trovati altri? Uno è stato Claudio Caligari perché aveva capito che i film, dopo che li hai mandati al cinema, sono fatti per parlare con le persone. Con Il più grande sogno, il film di Michele Vannucci, stiamo facendo esattamente questo. La storia surreale ambientata nel quartiere La Rustica, tra il Grande Raccordo Anulare e l’A24, ispirata alla vera storia dell’ex detenuto Mirko Frezza e presentata a Venezia tra gli applausi. Ha avuto un incasso formidabile per media copia nel primo weekend, ma il produttore Giovanni Pompili mi ha spiegato che le pressioni e i pacchetti delle altre distribuzioni vogliono cancellarlo: ‘Se non prendi questo, non ti do il film di Natale’. Cose così. Lo stiamo sostenendo contro tutti in una guerra che non ha senso, un po’ tragica e un po’ comica. Con loro che ci vogliono sbattere fuori e noi che cerchiamo di entrare. Molto caligariana come immagine. A La Rustica c’è una linea di confine. Cambia l’aria. Ci sono dinamiche che non hanno nulla a che fare con Roma e che a Caligari sarebbero piaciute. Le feste di quartiere de La Rustica, con il Tagadà, le giostre e i calcinculo al centro della piazza bloccata dalle transenne erano cose che, anche se non aveva visto, conosceva. Come le conoscevo io. Mio nonno aveva una casa tra Campo di Carne a Aprilia, nella Pontinia che guarda al litorale di Tor San Lorenzo. Sulla giostra a seggiolini passavamo i pomeriggi. Mio cugino, di calcinculo, era a star bassi campione regionale. Non essere cattivo arriva poco dopo Suburra . Cosa sapeva di Caligari? Poco. Per sostenere il provino mi chiamò Mastandrea. Sapevo che Caligari era un outsider tenuto a lungo lontano dal mondo del cinema e nelle tante sere passate nel gabbiotto, ovviamente avevo visto anche i suoi film. E cosa aveva scoperto? Che Caligari, il burbero Caligari di tanta mitologia scadente, era un uomo gentile e meraviglioso. Sapeva che gli rimaneva poco tempo e che stava realizzando la sua opera più bella. Quel set è stato molto speciale. Siamo stati trasportati in un’altra atmosfera. Uniti in una missione. Io e Luca Marinelli, per dire, non siamo amici. Ci sentiamo come fratelli. Vittorio, il Garrone di Non essere Cattivo, era diversissimo dal Franti dal lei interpretato in Suburra. Speravo non avessero nulla in comune pur essendo entrambi romani di Ostia. Erano due ruoli antitetici e ho avuto la fortuna di affrontare il secondo ascoltando Caligari. Non riesco a restituire con le parole quello che mi ha insegnato. Dopo Amore Tossico gli avevano chiesto di fare qualunque cosa. “Non ho niente da dire” rispondeva. Perché per Claudio i soldi, le copie o l’esito di un film contavano relativamente, per non dire proprio niente. Valerio Mastandrea, la persona che più di chiunque altro ha permesso a Caligari di realizzare il suo ultimo film, ha una teoria interessante al riguardo. Qual è? Che tutto ciò che noi pensavamo potesse disturbare Caligari – dall’ostracismo ventennale alla durezza della malattia persino – disturbava soprattutto noi. Era un problema nostro la cattiva coscienza o nel migliore dei casi il dispiacere per vedere inattivo un talento del genere e ancora un problema nostro il senso di colpa di alcuni e il rancore mediocre di altri nel vedere che comunque, scrivendo per sé milioni di film mai iniziati, invece di morire, Claudio viveva del suo mestiere senza farlo. Il danno è soprattutto nostro. Lui in qualche modo si è salvato. Noi siamo stati così stronzi da far sì che lasciasse così poco. L’ostracismo è stato oggettivo. Non c’è dubbio. Ed è stato vergognoso. Avrebbe potuto girare 10 film e ne ha fatti 3. Prima di iniziare prese me e Marinelli da parte e ci disse: ‘Farete Non essere cattivo, guardatevi Mean Streets’. L’ultimo giorno, a fine lavorazione, non voleva smettere di filmare. C’era Maurizio Calvesi, il direttore della fotografia, che continuava a seguirlo e Claudio che aveva finito le inquadrature, ma sembrava avesse paura di dire basta. Eravamo in questo cimitero, nella parte riservata ai bambini, un luogo di per sé già carico di un dolore insopportabile e si respirava un clima triste, più commosso del normale. Al rompete le righe, Caligari si chiuse nel camper. Ci restò un quarto d’ora con la troupe sull’uscio in questa giornata di febbraio sospesa, né troppo calda né troppo fredda. Uscì imperturbabile, apparentemente tranquillo. Forse – o almeno così mi è sempre piaciuto immaginare – dopo essersi sfogato, svuotato e guardato allo specchio per non farci intuire la sua commozione. Avevo deciso che non gliel’avrei lasciata passare e lo abbracciai: ‘È stato veramente magico’. ‘Anche per me’, rispose. Purtroppo è stata l’ultima volta che l’ho visto. Caligari morì il 26 maggio 2015. Stava ultimando il montaggio di Non essere cattivo. Quel giorno sarei dovuto andare a casa sua. Ci eravamo scritti spesso. Certi sms li ho conservati. ‘Vittorio – mi scriveva – stiamo lavorando alacremente’. Alacremente. E chi se lo dimentica più il maestro? Lo chiamava maestro? Veramente no. Lo chiamavo Claudio. Ma io non faccio testo, i parenti siciliani della mia fidanzata erano sconvolti. A suo padre mi sono presentato con un ‘Ciao Peppe’. Colpa o merito di un altro padre, il mio, che mi spronava ad abbattere i formalismi: ‘Non servono a niente – diceva – non siamo più nell’800’. Nei mesi della rincorsa all’Oscar, Caligari è stato ripetutamente omaggiato. I David di Donatello però l’hanno ignorato. Sedici candidature e un solo premio al sonoro di Angelo Bonanni. E meno male che Angelo è salito sul palco e lo ha ringraziato perché altrimenti il nome di Caligari quella sera non sarebbe mai stato pronunciato. Allora ho capito. Ho capito che per 4 mesi avevano parlato di Caligari soltanto in funzione del possibile Oscar e ora, senza il lieto fine, gli stavano riproponendo lo stesso trattamento che gli avevano riservato per i vent’anni precedenti. Usandolo e dimenticandoselo un’altra volta. Una cosa che a pensarci mi viene la pelle d’oca. Cosa ha pensato lì in platea? Vorrei essere chiarissimo. Avevo avuto due candidature e di vincere non mi importava niente. C’erano i miei genitori seduti dieci file dietro, pensavo solo alla loro felicità e consideravo già un successo enorme e un sogno essere lì. Vedere ignorato Non essere cattivo però mi ha profondamente amareggiato. Ai David hanno trionfato Perfetti sconosciuti e il Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. E sono contentissimo per Mainetti perché il suo film è davvero grande, ma sono sicuro che se invece di vincere 8 David ne avesse conquistati 5, Gabriele sarebbe stato ugualmente felicissimo. Quella sera ero nervoso. Per accettare quella cosa c’è voluto tempo. E l’ha accettata? Non fino in fondo. La faccia di Valerio quando viene decretato l’ultimo premio non me la scorderò mai. Eravamo increduli. Si è detto un po’ pelosamente: “Caligari dei premi se ne fregava”. Forse sì o forse no. E comunque sono sicuro che se gli avessero dato un David non lo avrebbe disprezzato. Non l’ha avuto. È la prima volta che ne parlo, ma mi trovo veramente in difficoltà. Quest’anno dovrei essere giurato, ma non so se voterò. Dopo l’anno scorso ho una sorta di sfiducia. È come se avvertissi che il voto che esprimi poi non conti nulla. Che c’è un meccanismo sbagliato, che si votano gli amici per sentito dire e che centinaia di votanti al David, del cinema non hanno mai sentito l’odore. Quindi? Quindi sarebbe bello che chi è chiamato a votare vedesse almeno i film. In molti non lo fanno. Lo sanno tutti e non lo dice nessuno. Dovrebbe essere obbligatorio, sempre che tu voglia votare ovviamente. Lei cosa farà? Ci sto ancora pensando. Probabilmente vedrò tutti i film e poi non voterò. Con i capelli ossigenati di biondo e senza barba lei è irriconoscibile. La vedremo così da Numero 8 nel Suburra televisivo di Placido, Molaioli e Capotondi? Partiremo da ieri e dalle ragioni di una scelta perché chi ha scritto la serie non crede nei cattivi a senso unico e pensa che anche nei peggiori esista un lato umano. Numero 8 non è un androide. Ha una famiglia, delle radici. E il suo ruolo in Fortunata di Sergio Castellitto? Sono Chicano, un ragazzo bipolare in una periferia onirica che Sergio e Margaret Mazzantini hanno ambientato senza definirne i confini a Torpignattara. Jasmine Trinca, Fortunata, sogna di aprire una negozio da parrucchiera. Io sopravvivo ai dolori di mia madre e di mestiere faccio il miglior amico della protagonista. Di Sergio e Margaret mi fido al cento per cento. Lavorare con loro è stato un privilegio. Ancora una volta in periferia. Dove viveva. E dove vive. Alla Garbatella. Nella casa che fu di mio nonno e poi di mio padre. In una scena poi tagliata di Non essere Cattivo, Vittorio porta le figurine al figlio della sua compagna per concludere l’album: “Le cose che si iniziano si devono finire”. Mio padre le portava anche a me ed era un grande evento. Le figurine costavano un sacco di soldi, compravi 40 pacchetti e la metà erano doppioni. Proprio l’altro giorno leggevo su un giornale una ricerca secondo cui i bambini più intelligenti non sarebbero quelli che navigano, ma quelli che giocano sugli alberi. E lei è d’accordo? Io vedo solo amici che fanno figli come se non ci fosse un domani e poi li mettono davanti al computer o alla tv. Non so se siano più o meno felici di quanto fossimo noi con le nostre figurine e le nostre corse fino al tramonto, però so che ho nostalgia di rivedere i ragazzini giocare a pallone nel cortile.