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 2016  dicembre 03 Sabato calendario

LA NOTTE SENZA SCINTILLE TRA IL BOSS E IL DUCA

Correva l’anno 1974 quando Richard Nixon si dimise per lo scandalo del Watergate, Philippe Petit su una fune sospesa a 110 piani di altezza camminò fra le due Torri Gemelle e Muhammad Ali sfidò George Foreman nell’inferno di Kinshasa.
E proprio nel 1974 David Bowie e Bruce Springsteen avrebbero dovuto collaborare fianco a fianco. L’occasione propizia era il desiderio di realizzare una cover di It’s Hard to Be a Saint in the City che Bowie avrebbe voluto inserire nel suo album, Young Americans.
Ma non accadde. La storia dell’incontro di questi due giganti è raccontata in uno dei capitoli del libro Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop (pubblicato da Il Saggiatore, traduzione di Cristian Caira) ovvero una selezione delle interviste più significative rilasciate da David Bowie dal 1969 al 2003, affidandoci direttamente alle sue parole, per scrutare da vicino l’alieno caduto sulla Terra che nel corso degli anni è stato Ziggy Stardust, Aladdin Sane, Plastic Soul Man. O più semplicemente, il Duca Bianco.
Nel 1974 David Robert Jones – questo il suo vero nome – era già una celebrità. Già con il suo secondo album nel 1969, Bowie aveva stregato il mondo intero con lo straziante singolo Space Oddity (“è stato un colpo di fortuna – afferma – per alcuni anni sono stato l’equivalente maschile della bionda svampita, iniziavo a temere che la gente non si sarebbe mai accorta della mia musica”); ma più cresce la sua fama, più i suoi critici cercano significati occulti nei suoi testi (“invece non bisogna far altro che ascoltare le parole”) e raramente, a quel tempo si parlava di problemi di cuore (“le ragazze non me ne hanno mai dati, semplice”).
Era arduo prenderlo per un bravo ragazzo ma nel 1972 decise di mandare in cortocircuito il sistema. Aveva appena fatto di nuovo centro con l’album The Man who sold the World e con Hunky Dory quando dichiarò, “sono gay e lo sono sempre stato, anche quando ero David Jones”. Poco importa che l’intervistatore non lo prenda sul serio, perché lui tornò all’attacco: “Non sono provocatorio. Sono David Bowie”.
Quanto poteva essere distante questa icona che indossava tute aderenti, si truccava il viso con una saetta viola e aveva i capelli a spazzola arancioni da colui che sarebbe diventato l’icona della classe operaia americana con i jeans, la maglietta bianca e la barba ruvida di qualche giorno?
Quella mattina a Philadelphia, la macchina che va a prendere Bruce lo trova intento “a familiarizzare con i barboni della stazione”, stava forse raccogliendo le storie della strada per il suo Born to run che lo avrebbe consacrato l’anno dopo? Il giornalista Mike McGrath che li incontrò insieme, li descrisse così: “Bruce era un po’ a disagio, Bowie aveva l’aria di un marziano che cerca, senza riuscirci, di passare per uno di noi”.
A tu per tu David confessa candidamente che da due anni vorrebbe suonare una delle canzoni di Bruce. “E di nessun altro cantante americano”. E lui cosa fa? “È stanco ma attento, si lascia sfuggire un sorriso”. L’atmosfera si scioglie lentamente con gli aneddoti sui fans (“anche quando salgono sul palco, cosa possono fare?” glissa Bowie, salvo ricordare quella volta in cui “uno aveva un mattone in mano”). Ma non scatta la scintilla.
E adesso immaginateli insieme in quello studio di registrazione, l’uno di fronte all’altro, in piena notte. “Bowie è una specie di folletto alto e scheletrico… con un basco rosso e occhi intensi da falco” e alle tre del mattino “lo studio è come una tana calda e confortevole”.
Finché alle cinque, dopo una registrazione fallita (“è troppo presto, non sono ancora del tutto sveglio”, dice Bowie prima di addentare un sandwich con la carne), Bruce se ne va, “senza aver ascoltato la sua versione di Saint, con la promessa di rivederlo presto a New York”.
Ma non se ne fece nulla. Bowie rimase a parlare per ore “di complotti e dischi volanti russi” e la cosa finì lì. Eppure, recentemente il produttore musicale Tony Visconti ha dichiarato che in effetti Bruce ascoltò la cover di Saint ma “mise su una vera e propria poker face e dopo non disse nemmeno una parola a David”.
Insomma i due si annusarono ma forse era troppo presto perché Bowie lo omaggiasse? Quella cover sarebbe infine uscita con il cofanetto Sound+Vision, quindici anni più tardi.
Ma ciò che non accadde nel 1974 avvenne, in fondo, a parti rovesciate quando, dieci giorni dopo la sua scomparsa, Bruce lo omaggiò a Pittsburgh ricordando quel loro incontro e suonando Rebel rebel davanti al suo pubblico: “David era un amico che mi ha sempre sostenuto”. Sì, Bowie è sempre stato un passo avanti, uno di quelli capaci di dire apertamente frasi a bruciapelo. Un esempio? “Non so per quanto tempo i miei album si venderanno… E francamente non me ne frega proprio un cazzo”.
Chapeau, Duca Bianco.