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 2016  novembre 26 Sabato calendario

MI SI È ROTTO L’ALGORITMO E NON SO COSA VOTARE

Mi si è rotta la filter bubble. Qualcosa si è inceppato nell’algoritmo, quello che dovrebbe filtrare i contenuti a me visibili sui principali social network facendo sì che io mai veda cosa succede nelle bolle lontane dalla mia. Quello che mi ha fatto cadere dalle nuvole quando il Regno Unito ha votato la Brexit, e poi di nuovo, all’alba dell’elezione di Donald Trump. Io ci contavo sulla mia filter bubble, amo l’illusione di capire il contemporaneo, vivere in armoniosa contiguità con il mio prossimo condividendone prospettive e valori, soprattutto: amo vivere in una cassa di risonanza digitale che mi proponga solo quello che piace a me, visto che una torre d’avorio non me la posso permettere nemmeno in affitto, e comunque l’avorio è un materiale da costruzione davvero poco etico.
La mia filter bubble deve per forza essersi rotta, perché una volta fattami un’idea di come avrei votato al referendum del 4 dicembre, l’algoritmo si sarebbe dovuto adeguare, togliendo gradatamente il volume a tutti quelli che nel frattempo hanno abbracciato l’opposta persuasione. E invece no, la mia timeline è un’inestinguibile cagnara. Ogni minuto, assisto impotente allo spettacolo atroce in cui un mio contatto, manifestate o reiterate le proprie intenzioni di voto, in pochi secondi viene fatto a pezzi, sbranato sotto i miei occhi e non, si badi, da una pattuglia di troll, ma dagli altri, gli altri suoi e miei contatti, alcuni conosciuti e molti no, ma che comunque negli anni mi erano sempre sembrate persone misurate.
Se l’algoritmo facesse il suo dovere, il mio feed dovrebbe somigliarmi, e quindi escludere non solo chi pare determinato a votare diversamente da me, ma proprio chi è determinato a prescindere. E invece non è escluso nessuno, persino l’astensione mi pare più vocifera e rabbiosa del solito, e dire che non c’è nemmeno il quorum. Se l’astensione non è tattica, che senso ha manifestarla? Rivendicarla? Il problema forse, è che un algoritmo non può nulla se viene meno il filtro davvero dirimente, quello dell’identità. Non c’è nulla da scremare perché davvero, una volta tanto, i sostenitori del Sì e quelli del No sono lo stesso tipo di persone. Non è una separazione identitaria, ideologica, e nemmeno vagamente antropologica, quella che ci divide. Questo è il referendum dell’idiosincrasia e del temperamento, del riflesso condizionato e del tic nervoso. E forse non poteva andare che così.
Il 4 Dicembre andremo a votare un quesito referendario che è in sostanza quarantasette quesiti comodamente arrotolati in un’unica, poco agile, formula – ed è chiaro che anche il più estremista di noi non può accoglierli, o detestarli, tutti, non importa quante ore si siano spese nell’esaltante cimento di comparare il testo vigente e quello modificato della costituzione. E allora come regolarsi? L’unico criterio unificante è quello dell’insofferenza. Votiamo guidati dal fastidio. Non è il naso turato di craxiana memoria e non è la pancia del paese quella che vediamo esprimersi in questi giorni – sarebbe troppo facile, è il suo riflesso cutaneo esasperato, è una neuropatia collettiva.
C’è chi vota no per rimarcare il suo essere più a sinistra di Renzi, e chi vota sì perché mai e poi mai può immaginarsi di votare come Salvini. Data la composizione eterogenea di entrambi gli schieramenti, nessuno di noi può dirsi certo di non votare come qualcuno che gli fa schifo. E per superare il disagio ci risolviamo di identificare quel particolare qualcuno che, in un dato momento, ci fa più schifo di tutti. A volte è un avversario politico storico, a volte è l’amministratore di condominio, a volte è uno intravisto per cinque minuti a Zelig – ma, in fondo, che differenza fa? Questo spiega anche il carattere particolarmente umorale che ha preso un’altra prassi sempre più comune del dibattito politico alla vigilia delle consultazioni importanti: l’endorsement delle celebrità.
L’intenzione di voto dei famosi somiglia sempre di più alle iperboli assurde a cui ci abbandoniamo in fila alla posta o nel traffico, prendono la via poco adulta della farneticazione, del fioretto scaramantico, dell’io me ne vado all’estero e mi porto via pure il pallone, dello gnè gnè gnè. La cosa buffa è che, per quanto si sia rimproverato a Matteo Renzi di personalizzare l’esito del voto trasformandolo in una ratifica del consenso al suo operato, stiamo tutti personalizzando il nostro voto. Forse perché la materia su cui siamo chiamati a esprimerci è al tempo stesso troppo arcana per essere davvero e proficuamente dibattuta (che belle serate, quelle passate a rabberciare un punto di vista convincentemente informato sulla soppressione del Cnel) e troppo importante perché il nostro disinteresse non ci appaia colpevole (la costituzione, ben scandita: la cos-ti-tu-zio-ne!).
Per cui personalizziamo, reagiamo piccatissimi quando quelli che pensavamo essere spiriti affini, a sorpresa, si rivelano diversi. Da sempre, quello che odiamo ci accomuna molto di più di quello che amiamo, è il cemento delle nostre più salde alleanze e la base di non pochi riusciti matrimoni. Che facciamo adesso? I nostri cari ci deludono senza rimedio, abbiamo scoperto che il fronte dell’odio non è comune, è anch’esso fragilissimo, frastagliato, e in un tentativo estremo di riguadagnare qualcuno alla nostra (personalissima) causa ci giochiamo l’ultima carta: l’agitazione dello spauracchio.
Profetiamo scenari post-apocalittici in caso di vittoria del nemico. È anche questo un esercizio meravigliosamente bipartisan che contempla di tutto, il ritiro di tutti gli investimenti esteri, l’uscita dall’euro, la disintegrazione dell’Europa, ma anche la scomparsa del Pd e l’instaurarsi di varie dittature totalitarie, talora guidate da replicanti grillini, talora da serial killer. È molto bello, a pensarci bene. Non so come andrà questo referendum, ma io lo ricorderò sempre come quello in cui escono vittoriosi il sentimento e il presentimento, l’estro, la creatività.