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 2016  novembre 26 Sabato calendario

2025 AL CENTRO DEL NUCLEARE BUONO


Camicia a quadri e jeans, in un angolo a smanettare sul computer: potrebbe essere un nerd o un hacker. Poi dal palco annunciano a gran voce: «E ora Mark Henderson, massimo esperto mondiale di fusione nucleare». Ed è lui ad alzarsi e guadagnare la scena.
Che Henderson sia americano lo capisci subito: non per l’accento, ma per quell’entusiasmo che fa pensare a uno Steve Jobs che lancia perle di saggezza mentre sta vendendo al pubblico il suo ultimo iPhone. Mark ha la stessa inossidabile certezza di farcela: potrebbe uscirsene con un «Yes, we can» alla Obama e la sala applaudirebbe. Ma cosa sta raccontando? Che vorrebbe essere come Neil Armstrong, l’astronauta che ha calpestato il suolo lunare nel 1969: fare insomma qualcosa di memorabile. E forse nel 2100 i libri di storia parleranno davvero di lui come dello scienziato, del fisico che sta puntando su una nuova rivoluzione: quella della fusione nucleare, il “nucleare buono” per intenderci, che potrebbe salvare il mondo dall’incubo della CO2 e del surriscaldamento.
Mark ha lasciato gli Stati Uniti per arrivare a Cadarache, un’ora di macchina da Aix-en-Provence in Francia del sud. Qui fervono i lavori per terminare Iter, l’international Thermonuclear Experimental Reactor, gigantesco reattore nucleare che già oggi impiega mille persone, fra operai, scienziati e ingegneri. E il responsabile scientifico di un progetto che nasce con l’obiettivo di riprodurre sulla Terra la fusione nucleare che alimenta il sole e le stelle, assicurando all’umanità l’energia di cui avrebbe bisogno. La luce e il calore delle stelle sono il risultato della fusione, infatti. È esattamente il processo che dovrà sviluppare Iter, sostituendo la naturale forza di gravità con fortissimi campi magnetici. Il progetto è nato nel 2006: capofila l’Europa, accanto a Cina, Corea del Sud, Giappone, India, Russia e Stati Uniti (nell’insieme: l’80% della ricchezza mondiale). Si tratta probabilmente dell’unico esempio di cooperazione positiva fra Usa e Russia, che al progetto tengono parecchio perché la storia di Iter comincia da molto lontano, da quel 1985 in cui Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov firmarono un accordo di collaborazione per sviluppare la fusione nucleare.
«A regime l’impianto darà lavoro a 4mila persone che realizzeranno un sogno», racconta Mark mentre attraversiamo l’enorme cantiere circolare, per ora tutto cunicoli e tunnel e lavori in corso. E nelle sue fondamenta una superstruttura antisismica, sperimentata dai giapponesi. «La sfida è complicata e costosa, ma deve essere vinta. Perché se Iter dovesse fallire, non sarà possibile produrre abbastanza energia per tutti senza rendere il mondo un luogo invivibile a causa delle alte temperature e dell’inquinamento», aggiunge, dimostrando con una serie di slide come già oggi l’uomo stia consumando e inquinando più di quanto il globo possa sostenere. «Nei prossimi 50 anni la richiesta di energia schizzerà alle stelle, parallelamente alla crescita della popolazione e all’industrializzazione dei paesi poveri».
A oggi l’Europa da sola consuma un quinto dell’energia prodotta nel mondo e ne importa la metà, di cui i tre quarti sono costituiti da petrolio, il resto da gas. Attualmente l’80% proviene da fonti fossili grandi responsabili di quell’effetto serra che sta provocando il riscaldamento globale. «Le fonti rinnovabili – sole, vento, geotermia e onde – non risolveranno il problema perché non riescono a produrre abbastanza energia, comportano un grande impatto ambientale (non possiamo ricoprire la Terra di celle fotovoltaiche o di pale eoliche) e richiedono un sistema di batterie e centrali di accumulazione che al momento non abbiamo». La fissione nucleare, quella con l’uranio ovvero “la cattiva”, è un’alternativa: ma genera scorie radioattive che si smaltiscono in migliaia di anni e non esclude catastrofi terribili come quella di Fukushima. «Mentre nei prossimi 30 anni la fusione dell’idrogeno potrebbe contribuire a generare il 20% del fabbisogno», afferma il fisico statunitense. Energia non solo abbondante, ma sicura e pulita. A differenza della fissione non lascia scarti, e se la centrale si inceppa il fluido di ioni si raffredda nel giro di qualche secondo.
Il cuore del progetto è Tokamak (acronimo russo perché è stata l’ex Urss a realizzare i primi esperimenti), una “ciambella” tecnologica alta 30 metri e circondata da magneti, all’interno della quale scorrerà un “brodo” di deuterio e trizio, cioè gli ioni di idrogeno, che formano il plasma. Il composto liquido verrà riscaldato fino a 150 milioni di gradi centigradi, temperatura dieci volte superiore a quella del Sole. Investendo 50 megawatt per accendere la macchina, il reattore riuscirebbe a produrre 500 megawatt ogni sette minuti: abbastanza per soddisfare il fabbisogno energetico di 23 famiglie per un anno intero. Il problema è che non c’è niente di certo. Nel mondo ci sono sette piccoli reattori a fusione, e le dimensioni striminzite del sistema non gli permettono di creare energia, ma anzi di consumarla. Con Iter si sta cercando di dimostrare che una centrale a fusione è possibile, per produrre e vendere elettricità, ma la grandezza non basterà a far funzionare il congegno.
E qui ci spostiamo dal sito francese a un minuscolo centro di ricerca di Padova, il consorzio Rfx del Cnr (il Centro Nazionale Ricerche) che sta studiando un iniettore per aumentare ulteriormente la temperatura e la densità del plasma. Gli occhi sono puntati infatti sui 130 ricercatori italiani che ci stanno lavorando. Più in generale, l’Italia gioca un ruolo molto importante in questo campo, perché qui da noi si concentrano le tecnologie più avanzate nella produzione di componenti del reattore. Le nostre aziende si sono aggiudicate infatti commesse per 964 milioni di euro di appalti tecnologici, piazzandosi al secondo posto dopo la Francia. Quasi tutti i grandi magneti che permettono la creazione del plasma sono prodotti a La Spezia, nello stabilimento Asg della famiglia genovese Malacalza, che ha comprato una ex fabbrica di lavatrici della San Giorgio, formato il personale e convertito oggi l’impianto in un super gioiello tecnologico.
Tempo e soldi sono i nemici contro cui il direttore di Iter, il francese Bernard Bigot, lotta quotidianamente. Bigot è stato nominato nel 2015 per sedare una faida sul controllo politico fra le sette aree del mondo coinvolte, diatriba che ha drenato 4 miliardi di euro e sprecato oltre cinque anni di lavoro. «L’Europa si assume il 45% dei finanziamenti. Il conto globale è stimato tra i 18 e i 20 miliardi di euro per la costruzione, che terminerà entro il 2023. L’accensione avverrà invece a dicembre del 2025. Ma il futuro è ancora molto incerto: per esempio il Neutral beam heating System, il sistema per iniezione di particelle studiato a Padova, non è mai stato testato a potenze così elevate. Ma dobbiamo essere fiduciosi», dice Bigot, di fatto più preoccupato per i capricci della politica che per le incognite della scienza. Perché per ora gli Stati hanno finanziato metà del progetto ed entro il 2019 bisognerà convincerli a sganciare il resto. Nel frattempo sta stringendo accordi con altri paesi, come l’Australia e probabilmente perfino l’Iran: «Sarebbe complicato far “salire a bordo” nuovi Stati: dovrebbero pagare un “biglietto d’ingresso” di otto miliardi di euro. Però stringiamo accordi di collaborazione su progetti specifici. L’Iran per esempio è interessato perché la tecnologia al plasma nei prossimi dieci anni sarà fondamentale, e non vuole restare indietro». I frutti di Iter non si raccoglieranno prima del 2035, «quando avremo la capacità di immagazzinare l’energia prodotta dal reattore che, entro il 2055, potrà essere dirottata sulla rete elettrica». Un piano complicato, tanti anni a venire, tanti punti di domanda. Poi incrociamo di nuovo Mark Henderson, con la sua incrollabile fiducia nel futuro: «La fusione non è un’opzione. È l’unica soluzione».