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 2016  novembre 26 Sabato calendario

ELOGIO DELLA FOLLIA


[Alessandro Gassmann]

Caos calmo. Quello di Alessandro Gassmann ha trovato il suo ordine in un corpo all’altezza. Un metro e 94, ce n’è di spazio, lì dentro, per sistemare il parapiglia. E dalla combustione produrre movimenti di instancabile, meticolosa, chirurgica eleganza – in sneaker e in T-shirt con su scritto “Emergency”. Puntualissimo al nostro appuntamento sull’Appia – siamo a Roma ma al tempo stesso lontano anni luce da Roma – dopo averci stretto la mano come uno scolaretto educato, «Alessandro, piacere», l’attore, regista e “italiano più desiderato in Italia” da una quindicina di anni, si lancia con grandi falcate a misurare lo studio in lungo e in largo. Come dovesse girarci la scena del prossimo film. Al termine del sopralluogo torna a planare tra noi, sempre elegante e soddisfatto, ed esclama: «Una sigaretta, chi ha una sigaretta di quelle forti!», in modo più assertivo più che interrogativo. «Ho riabilitato le esortazioni da poco con Marco Giallini, sul set di Beata ignoranza», scherza accendendosi una Marbloro Medium (forse non abbastanza forte, ma se la fa bastare). «Ci divertiamo a farne delle gag: “E ora entrino i macchinisti!”, “Orsù, avanti con le telecamere!”... Quelli della troupe ci prendono per matti». Come non essere istrionici? A 51 anni, di cui 34 spesi sulle scene di ogni tipo – teatro, cinema, tv, spot, copertine, calendari – non dev’essere facile uscire dai propri personaggi per entrare nella parte di se stessi. Se poi è anche quella del “figlio di”, non c’è un attimo di tregua. Non che il vincitore di David di Donatello (nel 2008 con Caos calmo). Globi d’oro (ancora nel 2008 e nel 2013 con Razzabastarda) e Nastri d’argento (con I nostri ragazzi e Il nome del figlio, nel 2015) sia uno che la cerchi particolarmente. Oltre all’andirivieni di copioni, da qualche anno ha scoperto l’impegno: sia come Goodwill Ambassador di Unhcr, sia come influencer sui media. Social media: «In realtà uso solo Twitter», tiene a specificare sorseggiando il caffè, le mani grandi sul minuscolo bicchierino di carta. Ha 175mila follower ed è diventato un castigatore, oltre che un mattatore, su temi come corruzione, esclusione, razzismo e integrazione. È stato in Libano tra i rifugiati siriani per realizzare il documentario Torn e impugnato la ramazza per ripulire la strada di casa, dietro piazza Navona, lanciando la campagna #romasonoio («se i vicini mi hanno aiutato? Come no, mi indicavano: più a destra, a sinistra, guarda c’è anche quella cicca là»).
E poi ha litigato con Gasparri sulla Tav («bloccarlo su Twitter è stata una gioia»), attaccato l’esultanza di Salvini sulla Brexit («manco un cane»), mandato «quarantotto tweet alla Regione Abruzzo contro il progetto del traforo Toto. E, visto?, l’hanno fermato». Interventi poco edulcorati. «Spero sempre di fare incazzare molte persone», gongola senza scomporsi. Stamattina aveva postato un’immagine dei senzatetto accampati sul Lungotevere, con l’hashtag #underworld. «Io ci vado a correre a Ponte Milvio: da una parte vedo i turisti e i corridori della domenica, dall’altra punkabestia e disperati. Ma questo paese deve dare la possibilità di ripartire a chi ne ha voglia». Non è donchisciottismo dell’ultima ora: «Mi sono sempre schierato dalla parte dei più deboli, i perdenti. Mi fa sentire utile». Non giudica il suo nuovo sindaco Virginia Raggi («non l’ho votata ma è troppo presto per tirare le somme. Se la città è a pezzi, però, non è mica colpa sua») e, tra i perdenti, ci mette di sicuro i malati psichiatrici. Quelli che ha portato a teatro con la regia di Qualcuno volò sul nido del cuculo e La pazza della porta accanto, «due testi, quelli di Miloš Forman e Alda Merini, che raccontano aspetti differenti della follia. Che è semplicemente un modo diverso di guardare fuori da sé: più politico il primo, intimo il secondo». Il tema della diversità e dell’integrazione è al centro anche di Non c’è più religione, il film di Luca Miniero (dal 7 dicembre al cinema, con Claudio Bisio e Angela Finocchiaro) in cui il “casting” per il bambinello di un presepe vivente innesta un ulteriore motivo di scontro tra cristiani e musulmani. «È una commedia molto riuscita, che riflette le divisioni causate dall’ignoranza in cui è precipitata l’Italia». E che è «alle origini del crac, altro che problema di rifiuti e immondizia». Esempio. «Quest’estate io, mia moglie e mio figlio abbiamo fatto vacanze vecchia maniera, con l’ombrellone a 25 euro il giorno per due mesi, in Toscana. Be’, è stata la mia finestra sul mondo: fatto di analfabeti, ignoranti, che dicono di non leggere Pasolini perché “pedofilo”, che si fanno portare lo champagne in spiaggia e se lo tracannano in piedi per farsi vedere meglio... Gente che, ai tempi di mio padre, sarebbe stata presa a calci in culo. Ah, quanto mi manca quella generazione». Già, il padre. A cuì dedicò il libro Sbagliando l’ordine delle cose (Mondadori, 2012) dopo il – bellissimo – documentario del 2010 con la regia di Giancarlo Scarchilli, Vittorio racconta Gassmann, per far pace con un’eredità trabordante. Gli brucia negli stessi occhi, nerissimi. «Era un genitore severo, ho preso da lui. Se oggi mio figlio Leo a 17 anni non può andare da solo a Ibiza con i suoi amici lo deve a suo nonno». “Spegni la luce”, furono le ultime parole che sentì da Vittorio prima che morisse, il 29 giugno del 2000. Ma oltre a quella raccomandazione da parsimonioso d’altri tempi, «mi disse anche: tu sei bravo. Ma lo sarai di più quando imparerai ad avere il coraggio di non volere a tutti i costi diventare qualcun altro», ricorda. «Allora ero ancora molto lontano dall’avere stima di me, ma ora so che mio padre aveva ragione». Ce n’è voluto per scoprirlo e trovarsi, placando l’ossessione bulimica per l’arte (un tema che mise in scena nella sua prima pièce da regista, La forza dell’abitudine, di Bernhard) e la ricerca del plauso di un pubblico, solo suo. «Ho tanti difetti. Sono un nevrotico iperattivo, volubile, lunatico e aggressivo. Soffrivo di attacchi di panico che ho curato con la terapia transazionale, ma più che con la psicanalisi ho superato l’aggressività mettendola nei miei personaggi, da Riccardo III a Roman (il protagonista del suo primo film da regista, Razzabastarda, ndr)». In tutto questo caos iperattivo e irruente, Sabrina Knaflitz, l’attrice di origini austriache che ha sposato nel 1998, avrà avuto il suo daffare. «Come facciamo a stare insieme da 22 anni? Che ne so, non ho mai provato a essere sposato per meno!», è una battuta, ma la ricetta è semplice: «Ci amiamo e senza di lei sarei un coglione. Siamo molto diversi, ci scontriamo sempre sulle stesse cose... Ma se ci guardiamo indietro vediamo che siamo riusciti ad arricchirci dalle nostre rinunce». Si fatica a credere che Gassman, con quel temperamento, ne abbia fatte: «E invece un figlio ti cambia tutto, ogni scelta, decisione. Per uno che fa l’attore avere qualcuno che sposta l’attenzione al di fuori di te è fondamentale». Anche se in passato qualche resistenza a trasferirla l’ha opposta: nel 1999 era vestito solo del baby Leonardo sulla copertina di Specchio, due anni dopo era nudo per i 12 mesi del calendario Max: «Più che altro ero scandalosamente unto. E lì con me sul set c’erano mia moglie e mio figlio», una bella scenetta familiare. Perché farlo? «Mi diedero un sacco di soldi». Oggi, passati i 50, il «periodo è magico. Mi sento più libero, seleziono meglio i miei lavori, mi prendo del tempo, ho anche venduto la macchina, io che ero patito di Mercedes, e da due mesi giro solo in Vespa». Un nuovo lavoro a teatro nell’autunno del 2017, poi a maggio comincerà le riprese del suo secondo film come regista, «tra la dramedy e il road-movie, con al centro una famiglia che dall’Italia arriva nel nord Europa». L’esperienza di una famiglia tradizionale, se l’è fatta da sé: suo padre ebbe quattro figli da quattro donne diverse e sua madre, l’attrice francese Juliette Mayniel, «da anni vive in Messico, a 1.500 metri d’altitudine, e non ci pensa proprio a spostarsi da lì, dalle sue partite a bridge, dal teatro con le amiche». Non le serba rancore. «Tutt’altro, la scelta di vivere altrove è un pensiero. Stiamo già muovendo qualche passettino». Nel frattempo, da fare qui in Italia, ne ha. «Per presentarmi al referendum, mi sono letto tutta la Costituzione e l’ho capita. Ho letto il testo della riforma e non l’ho capito». E poi «quando sono stato mesi a Napoli per girare I Bastardi di Pizzofalcone, ho anche compreso che quella città è il simbolo della rinascita: mi ha ridato speranza e la voglia di impegnarmi in piccole costanti battaglie, da combattere in modo martellante e inesorabile». La prossima quale sarà? «Magari proprio quella per i senzatetto del Lungotevere». Altri propositi? «Vorrei diventare più sociale, nella vita vera intendo. Stare più tempo con i miei amici». Una volta c’era Gianmarco Tognazzi. Oggi «ci sono Giancarlo, che fa lo sceneggiatore, Nicola, un medico ortopedico, Ilaria e Guido, che sono due artisti giramondo... Sono tutti tendenzialmente più grandi. Forse perché sono senile di mio». Gli scappa un sorriso, si trattiene, poi scoppia a ridere: «A pensarci bene, sono un senile radical chic».