Sara Faillaci, Vanity Fair 30/11/2016, 30 novembre 2016
GLI ARDONI AI RAGGI X– [Marco Taccani Gilardoni] «Ringrazio tutti “i miei ragazzi” ai quali ho insegnato con amore, e che mi hanno sostituito validamente procurandomi grandi soddisfazioni»
GLI ARDONI AI RAGGI X– [Marco Taccani Gilardoni] «Ringrazio tutti “i miei ragazzi” ai quali ho insegnato con amore, e che mi hanno sostituito validamente procurandomi grandi soddisfazioni». Chissà cosa penserebbe oggi Arturo Gilardoni, autore di questa frase affissa in molti reparti dell’azienda che ha fondato nel 1947. Si chiama Gilardoni Raggi X Spa, ha sede a Mandello del Lario, sul lago di Como (ramo di Lecco), e produce macchinari considerati tra i migliori al mondo. Un mese fa la sua primogenita, Cristina Gilardoni, classe 1933, presidente e a capo dell’azienda di famiglia dagli anni Sessanta, è stata sollevata dal suo ruolo e allontanata in seguito a una sentenza del Tribunale civile di Milano che ha accolto la richiesta del nipote Andrea Ascani Orsini (l’altro azionista, con il 45%). L’accusa per lei è distruzione di valore dell’impresa, ma dietro, come i media hanno abbondantemente raccontato, c’è prima di tutto una brutta storia di mobbing e maltrattamenti ai dipendenti, violenze psicologiche e fisiche che avrebbero portato a una fuga di lavoratori, scesi in due anni da 200 a 140 unità. Il giudice ha quindi messo l’azienda – che pur godeva di buona salute economica – in amministrazione controllata, affidando l’incarico di amministratore giudiziario al figlio della signora. Marco Taccani Gilardoni, 54 anni, per 35 (fino alle dimissioni, un anno fa) manager dell’azienda. Imprenditore lancia azienda di eccellenza internazionale, la porta al successo, ma poi fatica a mollare il controllo della sua creatura, tanto più ai figli: non è certo un fenomeno raro in Italia, vedi il recente clamoroso caso di Bernardo Caprotti con Esselunga. Cristina Gilardoni appartiene evidentemente alla categoria. Il padre, l’Ingegner Arturo, uno dei primi a scommettere sulle potenzialità dei raggi X applicati all’industria (prima quella medica, poi a tutto il settore sicurezza e controllo bagagli), era soprattutto uno scienziato e lei il braccio operativo. Sette anni fa è stata anche nominata Cavaliere del Lavoro. Possibile che una donna del genere improvvisamente impazzisca e si metta a picchiare i dipendenti? Siamo andati a Mandello per saperne di più. Il lancio della graffettatrice L’idea originaria era incontrare la signora Cristina per sentire la sua versione, ma dopo qualche difficoltà – la sua villa è accanto all’azienda, circondata dal lago e da un giardino sorvegliato da cani e custodi – sono riuscita a parlarle al citofono e ha escluso categoricamente la possibilità di rilasciare interviste. A quel punto ho pensato di provare con il figlio. In azienda non l’ho trovato: era all’estero per riallacciare rapporti commerciali da troppo tempo trascurati e che rischiavano di andare compromessi. I dipendenti presenti mi hanno però confermato che la signora, da sempre molto esigente con i lavoratori, negli ultimi due anni era molto peggiorata. E che, complice a loro dire un nuovo direttore del personale, Roberto Redaelli, aveva creato in azienda un clima di vero terrore. Nessuno ha voluto esporsi con il nome – il timore è che la signora dopo otto mesi di commissariamento possa tornare – ma molti hanno parlato: c’è chi sostiene di essersi visto cambiare le mansioni dall’oggi al domani, chi si è sentito negare il permesso per andare a donare il sangue, chi non ha fatto più ferie, chi assunto alle 8.10 si è dimesso alle 8.20 dello stesso giorno, chi è stato ricoperto di insulti, chi schiaffeggiato, chi – una donna – è stato bersaglio di una graffettatrice scagliatagli addosso dalla proprietaria. Da qui le denunce alla Procura di Lecco per maltrattamenti. «Al sindacato in questi due anni sono venuti tantissimi dipendenti e tutti lamentavano la stessa situazione», racconta Fabio Anghileri della Fiom Cgil di Lecco che, assieme al collega Emilio Castelli della Fim Cisl, si è occupato del caso. «Abbiamo chiesto ripetuti incontri con l’azienda, ma la signora non ci ha mai ricevuto. Purtroppo a Lecco c’è solo un magistrato del lavoro e non ha quasi mai accolto le istanze dei lavoratori. Chi aveva il coraggio di fare appello a Milano, però, vinceva sempre». Nessuno prima si era lamentato? «I precedenti direttori del personale, essendo presenze storiche dell’azienda, erano riusciti a smussare le spigolosità della signora, a fare un po’ da filtro. Invece Redaelli gettava benzina sul fuoco, e la situazione è degenerata». Non è strano che un Tribunale civile decida di intervenire? «Questa azienda è un’eccellenza italiana, che ha un’importanza strategica non solo sul territorio ma anche per il Paese, dal momento che fornisce la tecnologia per i sistemi di sicurezza delle infrastrutture, dai treni ad alta velocità agli aeroporti. Stava perdendo personale qualificato e investimenti. A un certo punto la signora è stata convocata in Prefettura, ma non si è presentata neanche lì. Qualcosa andava fatto per fermare questa deriva». L’azienda prima di tutto Marco Gilardoni, il figlio, invece è ben visto in azienda. Lo descrivono tutti come una brava persona e dicono che, da quando c’è lui, si è tornati a lavorare con il sorriso. Ne ho la conferma quando, rientrato a Mandello, accetta di essere intervistato, ma con una doverosa premessa: la sua posizione è delicata perché, oltre a essere il figlio della signora, in questo momento è anche un pubblico ufficiale in quanto amministratore giudiziario. Perché hanno nominato proprio lei? «Non me l’aspettavo. Sono andato via dall’azienda un anno fa, ma sono stato chiamato – per errore, perché non ero più neanche nel consiglio di amministrazione – come teste al processo. Al giudice ho precisato subito che non ero in possesso di azioni della società e che intendevo restarne il più possibile fuori. Mi sono limitato a dare la mia disponibilità per una consulenza, dal momento che è un’azienda che conosco molto bene avendoci lavorato per 35 anni». Quindi non è stato lei a volere sua madre fuori? «No. L’unico con il titolo per promuovere l’azione giudiziaria era mio cugino, l’ingegner Orsini, figlio della sorella di mia madre. Alla morte di mio nonno Arturo la proprietà passò alle sue due figlie. La maggioranza fu data a mia madre, immagino perché fin da giovanissima era entrata in prima linea in azienda, tanto che non aveva neppure completato il corso di laurea in Fisica. Mia zia invece, che vive in Canada dagli anni Ottanta, aveva ceduto le quote a suo figlio». Lei era al corrente dell’azione di suo cugino? «No, e ha colto tutti di sorpresa, perché anche lui ha lavorato in azienda per trent’anni come capo di ricerca, sviluppo e produzione, e prima non aveva mai criticato pubblicamente la gestione della mamma. Ho notato però che nelle sue motivazioni ci sono gli stessi argomenti alla base delle mie dimissioni. Peccato: se la famiglia si fosse mostrata più unita avremmo potuto evitare questa spiacevole situazione e pianificare una naturale transizione nella società». Perché si è dimesso? «Ritenevo non ci fossero più le condizioni per operare con una visione a lungo termine di crescita ed espansione. La mamma ha condotto bene l’azienda fino a pochi anni fa. È uno Scorpione e ha una carattere molto forte, anche perché gli ambienti dove operiamo sono maschili e per dominarli servono gli attributi. Negli anni Novanta l’azienda toccò l’apice, avevamo 400 dipendenti, abbiamo fatto forniture anche al Dipartimento di Stato americano. Poi, con Tangentopoli, iniziò la crisi del settore. La Gilardoni ne uscì pulita perché la mamma aveva sempre imposto una forte etica e il divieto di scendere a compromessi. Seppe anche fare un passo indietro quando fu necessario procedere a una ristrutturazione che affidò a un manager americano, salvo riprendersi i pieni poteri qualche tempo dopo. Negli ultimi due anni, però, si era messa sulla difensiva, imponendo alla Gilardoni il limite di una persona di 83 anni. Non si fidava più di nessuno, era convinta di essere l’unica a poter dare continuità». Sua madre non ha fatto nulla per farla desistere dalle dimissioni? «Purtroppo no. Anzi, ha reagito diventando ancora più presente in azienda. Io ritengo invece che dopo i 65 anni anche i migliori dovrebbero ritirarsi e lasciare spazio a persone al passo con i tempi». L’ha mai vista maltrattare i dipendenti? «Mio nonno ci ha lasciato un insegnamento ben diverso. E comunque si parla di un periodo in cui io ero già fuori». Che tipo di madre è stata? «Più capo azienda che mamma, nei miei ricordi. Ha sposato mio padre, un fisico, durante l’università. Erano due caratteri forti e incompatibili, poco affettuosi con me e mia sorella perché dedicati completamente al lavoro. Divorziarono il giorno dopo l’entrata in vigore della legge, noi eravamo ancora bambini. Mia sorella a 18 anni andò negli Stati Uniti e non è più tornata, io feci gli studi in un collegio svizzero. L’amore, l’affetto, li ho scoperti solo quando ho incontrato mia moglie. Lei mi ha sposato per quello che ero e mi ha dato due figli meravigliosi che oggi hanno 15 e 17 anni e che, se lo vorranno, mi piacerebbe rappresentassero la quarta generazione in azienda». Perché aveva deciso di lavorare nell’azienda di famiglia? «Il nonno mi disse che di ingegneri bravi ne avrebbe sempre trovati e mi consigliò di studiare Scienze politiche per imparare a gestire, in azienda, relazioni umane, problemi e conflitti. La sua oggi sembra quasi una profezia». Sua madre era d’accordo? «Credo fosse contenta di avere a fianco il figlio e anche il nipote, ma il suo amore per la Gilardoni era tale da anteporlo anche a quello per me». L’azienda un giorno sarà sua. «Sarà che sono cresciuto con una mentalità anglosassone, ma ragiono come un manager, non come proprietario: le cose te le devi guadagnare. Quindi o la mamma mi sceglierà come erede oppure non mi interessano le quote di legittima, una cosa che esiste solo in Italia». Oggi però c’è lei alla guida. «Il mio incarico dura solo otto mesi e con una missione precisa: riportare la Gilardoni ai fasti di un tempo. I nostri collaboratori, ricercatori e prodotti sono tra i migliori al mondo ed è assurdo, per esempio, che in anni come questi, dominati dal terrorismo e dalle esigenze di sicurezza, il nostro fatturato non sia cresciuto». A giugno dovrà presentare un nuovo consiglio di amministrazione. Inserirà sua madre? «I soci hanno il diritto di essere presenti, di persona o con consiglieri di loro scelta, ma io guardo ai giovani: mi piacerebbe ci fosse un’istituzione, magari un’università, in rappresentanza del nostro coinvolgimento nella ricerca e nello sviluppo». Tra voi vi parlate? «Non dell’azienda. La vedo nel fine settimana, con i miei figli. Non è la classica nonna, ma con loro è molto generosa». Pensa che questo epilogo amaro l’abbia fatta riflettere, magari pentire? «Non credo proprio. Lei è convinta di avere sempre operato al meglio per la società. E vive questo provvedimento come un’ingiustizia».