Enrica Brocardo, Vanity Fair 30/11/2016, 30 novembre 2016
STORIA DI UN AMORE– [Bruno Gigliotti] La casa di Bruno Gigliotti, in arte Orlando, è a due passi da rue d’Orchampt, nel quartiere Montmartre, a Parigi
STORIA DI UN AMORE– [Bruno Gigliotti] La casa di Bruno Gigliotti, in arte Orlando, è a due passi da rue d’Orchampt, nel quartiere Montmartre, a Parigi. Al numero 11 bis di quella strada ha vissuto, dal 1962 fino alla morte, sua sorella Iolanda, conosciuta in tutto il mondo come Dalida. In quella palazzina, la cantante si uccise il 3 maggio 1987, a 54 anni, vent’anni dopo il primo tentativo di suicidio. Calando il sipario su una carriera unica: 170 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, una lista infinita di premi e riconoscimenti tra cui due Oscar mondiali della canzone, nel 1963 e nel 1974. «Non ho più voluto entrarci», mi dice. «È stata venduta. Oggi dico: “Peccato, avremmo potuto farne un museo. Ma all’inizio c’è il dolore, mica pensi al futuro. E poi, come potevo sapere che la sua leggenda sarebbe cresciuta di anno in anno? Si parla più di lei che delle altre artiste ancora vive». Il 30 novembre. all’Olympia di Parigi, dove Dalida si esibì moltissime volte, è stata fissata la data per la première del film sulla sua vita, con un cast metà francese e metà italiano: a interpretare Dalida è Sveva Alviti, mentre Riccardo Scamarcio è il volto cinematografico di Orlando. Il film uscirà nelle sale francesi l’11 gennaio e, da noi, a febbraio. Bruno-Orlando è appena rientrato a casa. Volteggia dall’ufficio al piano terra ai grandi saloni dei due piani superiori. Candelabri alla Liberace giganteggiano su tavoli sterminati. Ovunque ci sono foto, ritratti, ricordi della sorella. Parla italiano con l’accento francese, si cruccia di non riuscire a trovare le parole giuste in una lingua, la nostra, che usa poco di frequente. È anche agitato perché poche ore prima ha assistito alla proiezione della versione definitiva del film. «L’avevo visto un mese fa, un prémontage. E dunque lo avevo visto come critico. Ma oggi è stato diverso. Je suis bouleversé, come dite? Sconvolto. Perché ho rivissuto tante cose, la mia famiglia, Dalida bambina, Il Cairo (I genitori, originari della Calabria, vivevano in Egitto, ndr)». Produttore discografico e manager della sorella fin dall’inizio. Orlando è «manageriale» anche con il fotografo (sistema i cuscini che, secondo lui, danno il tocco di colore giusto) e con me. «Ecco, sul film trova tutto scritto qui, se lo faccia tradurre, così evitiamo che mi chieda cose che ho già detto. È il pressbook, capito? Voilà. Registra? Sicura che funzioni? Uno, due, tre... Uno, due, tre. Andiamo». Qual è il primo ricordo di sua sorella? Lei ha tre anni di meno, giusto? «Oui. Anzi, quattro. Era una bambina un po’ triste. Aveva dovuto portare gli occhiali ed era molto complessata, si credeva brutta. Io e mio fratello (Orlando, nato nel 1930 e morto nel 1992. Bruno ha utilizzato il suo come nome d’arte, ndr) abbiamo avuto la stessa famiglia, la stessa educazione. Ebbene, noi ci ricordavamo un’infanzia spensierata. Lei, invece, ne parlava come di un periodo infelice». Una vena di tristezza che l’ha accompagnata per tutta la vita. «Oggi sono tutte star anche quelle che non sono. Ma io credo che per esserlo davvero, la vita della donna dev’essere all’altezza di quella dell’artista. Tutto in lei era grande: tristezze, trionfi, dolori. La sua vita ha avuto tante étape, fasi. È sempre stata curiosa e fin da bambina desiderava elevarsi. Diceva: “Vedrete, un giorno diventerò qualcuno”. Ha mantenuto la promessa. E poi, quando è diventata una bellissima ragazza, ha vinto titolo di Miss Egitto, per cui ha iniziato a lavorare nel cinema e quindi si è trasferita in Francia... Ho perso il filo». Diceva del desiderio di elevarsi. «Fino a che è arrivato il dramma della sua vita. A Sanremo, con il suicidio di Luigi Tenco (il 27 gennaio 1967. Partecipavano insieme con la canzone Ciao amore, ciao che fu eliminata. Poco ore dopo lui si sparò un colpo di pistola alla testa, ndr). È stato il grande amore della sua vita. Erano i Romeo e Giulietta del Ventesimo secolo. Si sono amati tantissimo, appassionatamente, ma per un breve periodo: sei mesi. Per quello era rimasta una storia speciale, perché il tempo non aveva avuto modo di segnarla con le prime rughe». Saprà certamente che sul suicidio di Tenco e sulla sua relazione con Dalida negli anni sono state date molte versioni diverse. «È una vergogna sentire tutti questi “rumori”. Che poi rimangono». Fu Dalida a trovarlo morto? «Ma certo! Per vent’anni, fino a che lei è stata in vita, nessuno ha osato dire che non si era suicidato. Solo dopo hanno inventato un sacco di storie. Pure questa Valeria, che non è mai esistita». Quella che sarebbe stata la sua fidanzata di allora. «Ma che? (Si agita) Intanto, quei sei mesi Luigi e Dalida li hanno trascorsi o qui, a Parigi, o a Roma. Secondo: se fosse esistita veramente una fidanzata, possibile che per vent’anni non si sia fatta viva? La mattina stessa, prima dell’esibizione al festival. Mario Simone della casa discografica Rca e il produttore Paolo Dossena entrarono nella camera di Dalida e li trovarono insieme. C’era una bottiglia di champagne. “Ad aprile ci sposiamo”. Fino ad allora non avevano voluto che si sapesse, temevano si dicesse che era andata a Sanremo non perché amava la canzone ma lui». Secondo lei il matrimonio avrebbe funzionato? «Mia sorella quando amava, amava veramente. Ma nessuno può dire se sarebbero stati felici. Però non sopporto che qualcuno avanzi dubbi per sporcare la loro storia. Ma quella Valeria, figuriamoci... Certe cose non le ammetto, bon». Anni dopo disse che non avreste dovuto portarla immediatamente via da Sanremo. Che sarebbe stato meglio darle il tempo di fare i conti con quello che era successo. «Dalida aveva perso la ragione. Voleva assolutamente che il festival si fermasse. Erano gli organizzatori a insistere perché la allontanassimo, continuava a chiamarli “assassini”. Il giorno dopo, quando vide che Sanremo continuava, le venne un’altra crisi: “Se fossi rimasta, forse lo avrebbero interrotto”. Non era vero ma, poverina, lei lo pensava. In seguito, disse: “Non ho potuto piangerlo come la sua donna, ma come una collega”. Le impedirono persino di andare al funerale per paura dello scandalo. È stato frustrant. Un mese dopo tentò di uccidersi. Rimase cinque giorni in coma. Non è mai più tornata la stessa. Ma basta parlare di Tenco». Infatti vorrei cambiare argomento. A un certo punto Dalida smise di esibirsi in Italia. Perché? «Perché non sopportava i pettegolezzi sui giornali italiani. E poi, sa che cosa? Appena uno moriva, la gente subito a dire che era colpa di mia sorella». Dicevano che portava sfortuna. «Superstizioni cretine. Come per la povera Mia Martini. Ma basta parlare di dolori. Ci sono state anche grandi gioie. Come dico sempre, la sua vita è stata come un’opera lirica. Ero un suo ammiratore anche quando non era niente: quella voce unica, la sua eleganza. È stata la prima interprete femminile a vincere un disco d’oro, la prima cantante donna ad avere un fan club. Anche se, alla fine, diceva che Dalida aveva rubato la vita a Iolanda». Lo diceva proprio in questi termini? «Sì. Nell’ultimo anno era triste, non aveva più l’entusiasmo di prima. Lei, che aveva sempre lasciato gli uomini, si ritrovò a vivere quest’ultima relazione che non era un grande amore (con il medico François Naudy, di 7 anni più giovane, ndr). Perché avrebbe voluto riuscire anche nella sua vita di donna e, invece, per la prima volta si era ritrovata a non essere la padrona della situazione». Il momento, invece, in cui la ricorda più felice? «Penso a quando divenne una bellissima ragazza, a quando gettò gli occhiali e, finalmente, cominciò a sentirsi sicura di sé. La vittoria a Miss Egitto e poi i primi successi a Parigi. Noi eravamo contenti quando era innamorata, le si illuminava il viso. Ma quando stava con qualcuno voleva salvarlo, renderlo migliore. A volte ci riusciva, a volte no. Metteva il suo uomo sopra un piedistallo. E più alto era, da più in alto cadeva, voilà. Cercava in tutti suo padre. Quando lui fu internato (dagli inglesi durante la Seconda guerra mondiale, ndr) ne soffrì molto. Da allora aveva paura di essere abbandonata, consciamente o no. E quando Tenco si uccise sentì di essere stata lasciata sola un’altra volta. Lo disse anche lo psicologo. Un destino tragico il suo: tre uomini della sua vita si sono uccisi. Anche se gli altri due non stavano più con lei (Lucien Morisse che sposò nel 1961 e dal quale si separò poco dopo, si suicidò nel 1970. Richard Chanfray, con il quale ebbe una relazione dal 1972 al 1981, si uccise 2 anni dopo, ndr)». Rimpiangeva anche di non aver avuto figli. «Quando avrebbe potuto era troppo presa dal successo. Poi rimase incinta di un uomo con il quale non voleva mettere su famiglia e abortì. Anni dopo scoprì che non poteva più averne». Lucio, il giovane studente italiano. Ha anche un cognome? «Non mi ricordo». Che bugiardo. «Mais oui. Ogni tanto bisogna esserlo. Ma era una persona perbene, un gran fanatico di Tenco. Si corrispondevano spiritualmente. A quell’epoca non era mica come oggi, non voleva rovinare la sua carriera». Eppure è stata una donna molto emancipata, moderna. «Assolutamente. La prova: non è mai andata a vivere da un uomo. Tutti quelli che hanno attraversato la sua vita sono stati loro a venire a stare con lei. Con Tenco mica andavano all’hotel Prince de Galles come si vede anche nel film (l’albergo dove si erano incontrati la prima volta e dove lei tentò il suicidio, ndr). Quando Luigi era a Parigi stava a casa sua». Vogliamo anche ricordare che si schierò apertamente a favore degli omosessuali quando ancora nessuno affrontava questi temi? Infatti è un’icona gay. «Negli anni Settanta cantava quella canzone sulla solitudine degli omosessuali che diceva: Pour ne pas vivre seul des filles aiment des filles et l’on voit des garçons épouser des garçons (per non vivere soli, ragazze amano ragazze e si vedono ragazzi sposare altri ragazzi). Pensi, mia sorella parlava già di matrimoni gay. Un’avant-gardiste».