Enrico Deaglio, il venerdì 25/11/2016, 25 novembre 2016
LA BELLA ESTATE TERRIBILE
TORINO. Non cercate una targa. Non c’è. Si mette una targa dove uno scrittore è vissuto, perché si vuole trasmettere la sua fonte di ispirazione; e non dove è morto, perché altrimenti si rischia l’effetto Shining: corridoi, finestre, stanze possono diventare terribili sirene. Quando poi si tratta di un poeta che aveva scritto Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di una piccola stanza di un vecchio albergo, di un telefono che non suona... Se fossimo in Shining ci sarebbe anche uno spioncino da cui il poeta vede gli occhi della morte. Ma all’epoca gli spioncini non c’erano.
Ok, gli indizi sono terminati e sapete di che cosa stiamo parlando. Il poeta è Cesare Pavese, culto letterario italiano; il luogo è lo storico Grand Hotel Roma e Rocca di Cavour, a fianco della grande stazione di Porta Nuova dove, in un deserto 27 agosto del 1950 si suicidò colui che aveva scritto Il mestiere di vivere, aveva corteggiato «il vizio assurdo» e aveva deciso di farla finita ad appena 42 anni, proprio mentre l’Italia si apriva a speranze, miracoli, ricostruzioni. Torino è una città lenta, per cui gli edifici, la luce, gli sguardi della gente sono ancora gli stessi del secolo scorso. Forse una sola cosa è cambiata. La disperazione dechirichiana degli agosti torinesi oggi non esiste più; la città ormai post industriale ha ritmi rapsodici; ma per mezzo secolo, ad agosto la Fiat chiudeva tutto e la città di Torino veniva evacuata. Lo scrittore era l’unico che non era partito. E il Roma era l’unico hotel aperto.
Cesare Pavese fu visto per l’ultima volta entrare nell’Hotel il 26 agosto. Il portiere, vestito con lo Stiffelius di ordinanza – la divisa era allora una cifra dell’albergo – lo salutò con torinese deferenza. Venne trovato morto alle 12,30 del 27 agosto, nella camera n. 49 del terzo piano. Sul comodino, trenta bustine vuote di Nembuthal, un barbiturico, che probabilmente Pavese aveva regolarmente comprato alla farmacia Boniscontro di corso Vittorio Emanuele. Aveva 42 anni e aveva appena vinto il Premio Strega con La bella estate. Sul comodino una copia del suo saggio Dialoghi con Leucò e sul frontespizio le sue volontà: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Nessuno notò che le parole erano quasi identiche a quelle lasciate dal poeta rivoluzionario russo Vladimir Majakovskij, suicida (o assassinato?) nell’Unione Sovietica del 1933.
La stanza 49 oggi si chiama 346. L’hotel Roma è solo un tre stelle, ma carico di fascino, con 85 stanze e wi-fi. Non appartiene a catene, anzi ha la stessa proprietà da 150 anni. Un edificio di tre piani che occupa un intero isolato. Qui nel 1854 aprì la Locanda Rocca di Cavour. Nel 1870 la locanda trovò giovamento dalla costruzione della monumentale stazione di Porta Nuova (oggi – dopo interminabili lavori – finalmente ripulita) che collegò la capitale d’Italia (Torino, appunto) a quello strano posto che si chiamava Roma. I vecchi torinesi continuarono per molto tempo a chiamare Porta Nuova, ‘l’embarcadero ’d Genova, perché da lì partiva il diretto Torino-Genova. Mentre la stazione di Porta Susa (oggi una modernissima magnificenza architettonica) era chiamata ‘l’embarcadero ’d Novara. La locanda Rocca di Cavour prese il nome di Grand Hotel Roma e Rocca di Cavour dopo il 1870. Da allora stazione, albergo, giardini sono rimasti un unico impasto di portici, mansarde, caffè, bancarelle di libri usati. Oggi Torino è diventata, finalmente, una meta turistica e l’hotel Roma è parte di un circuito che ha il suo centro nei giardini di piazza Carlo Felice (uno dei tanti svagati Savoia, con l’unico merito di aver lasciato la reggenza a Carlo Alberto). La stanza da cui Cesare Pavese si affacciò, prima di ammazzarsi, dà su piazza Paleocapa, ornata di monumento a Pietro Paleocapa (accento sulla «o»), ingegnere lombardo di origine greca, patriota che diede vita al traforo del Frejus (la Tav di allora) e fu ministro dei lavori pubblici con Cavour. Decisamente, tutto è un set cinematografico.
Entrate nell’hotel Roma e il decor non è molto cambiato. Non c’è più il portiere in Stiffelius, ma una certa formalità è rimasta. E così se alla reception chiedete di Pavese, sanno come rispondere. «Certo, la stanza esiste ancora ed è stata lasciata com’era. Certo, si può affittare, circa 80 euro». Se la stanza è libera, visitatori competenti, studiosi, cultori del poeta sono ammessi per una breve visita; ma le storie dell’albergo dicono anche di persone che cercano la 346 per strani riti satanico-sessuali.
Cesare Pavese aveva raccontato un mondo antico – le poverissime Langhe cuneesi, in cui era nato, quelle che oggi sono il trionfo di Slow Food e patrimonio dell’Unesco – e il loro rapporto con Torino, la capitale. Figlio di benestanti di Santo Stefano Belbo, Pavese aveva studiato al liceo D’Azeglio (duecento metri dall’Hotel Roma) con il mitico professore antifascista Augusto Monti; per un ruolo marginale in un embrione di opposizione, nel 1935 venne mandato al confino per tre anni nel minuscolo paese di Brancaleone Calabro. Ritornato, venne assunto come redattore della casa editrice Einaudi, con sede in via Biancamano (300 metri dall’hotel Roma). Traduttore degli scrittori americani (Melville, Steinbeck, Dos Passos...) saggista, camminava una spanna sopra gli altri, per scrittura, erudizione. La sua narrativa mostrava grazia e tormento. Non partecipò alla resistenza (già: perché?), ma sfilò in piazza Castello il 25 aprile. Era un lungagnone timido, introverso, con una faccia magra e scontrosa, provinciale in città, e aveva molti problemi con le donne. Ma anche una gran bella massa di capelli neri e ricci, che gli davano fascino. Cesare Pavese aveva appena vinto il Premio Strega con La bella estate, battendo una oggi dimenticata Flora Volpini (La fiorentina) e il bombastico Curzio Malaparte, autore del very politically incorrect La pelle sulle nefandezze dei popolo napoletano al tempo dell’invasione americana. Pavese, per l’occasione, si era fatto fare un vestito nuovo e ritirò il premio al Ninfeo di Villa Giulia accompagnato dall’americana Doris Dowling: un tuffo nel jet set per il timido langarolo. Doris era la sorella di Constance Dowling, star di Hollywood che aveva recitato in Riso amaro con Silvana Mangano. C’era stato un flirt, o comunque qualcosa, tra Pavese e Costance Dowling, ma poi la storia non aveva funzionato. Gli occhi che portano la morte, della famosa poesia, erano i suoi. Perché Pavese andò a dormire in albergo? Perché stava solo, nella Torino deserta, il 27 agosto? Perché, se era depresso, non aveva fatto cento metri e preso un treno Torino Parigi e si era fatto una bella serata a Pigalle? Perché volle una stanza con telefono, un lusso per il Roma? Non si sa nulla. Dicono che aspettasse una telefonata dalla bellissima diciottenne Romilda Bollati, che non arrivò. O da Costance Dowling. Dicono che il problema di Pavese era una disfunzione erettile, oggi risolvibile col Viagra.
La stanza è piccola. Il parquet di legno, il letto a una piazza, un tavolino con poltroncina. Nessun quadro alle pareti. Il minuscolo bagno (water più lavandino) ha due ante in legno stile saloon, per risparmiare spazio. La morte di Pavese non fece grandi titoli di giornali. Trafiletti. Non ci fu autopsia, né funerali religiosi. Tutto passò sotto silenzio, era l’agosto del 1950. Anche i pettegolezzi, tutto sommato, furono pochi. Il mistero del suo suicidio diventò però, per la gioventù italiana, una questione importante, come sarebbe successo 17 anni dopo per quello di Luigi Tenco a Sanremo, nella stanza 219 dell’hotel Savoy.
La più bella storia sull’avvenimento (la più pavesiana comunque) è questa: la mattina del 27 agosto 1950 una cameriera bussò più volte alla stanza 49 e non ebbe risposta. Avvertì il proprietario del Roma. Questi era un uomo giovane, benestante e amante della bella vita, e con il cruccio della calvizie incipiente. Dunque, il proprietario arrivò e aprì con il passepartout. Pavese giaceva sul letto, morto da ore. Il proprietario lo rimproverò, in piemontese: «Ma cosa hai fatto? Con quella massa di capelli che avevi...».
Se avete tempo per altri luoghi legati a scrittori, in piazza Carlo Alberto 8, una sontuosa targa ricorda che lì visse Friederich Nietzsche, anno 1889, ma non dice che proprio lì impazzì. E se girate dall’altra parte, in corso Re Umberto n. 75, visse e infine morì suicida Primo Levi, anno 1987. Molto più lontano, sulla collina dietro corso Casale venne invece ritrovato Emilio Salgari, che si era ucciso con un kris malese. Anno 1911.
Enrico Deaglio