Riccardo Staglianò, il venerdì 25/11/2016, 25 novembre 2016
LA PLAYLIST È DECISA. DA NOI
NEW YORK. La ragazza con gli auricolari color perla, in piedi nella carrozza della linea 2, sta ascoltando Nicky Jam. È il santo patrono del Reggaeton, un miscuglio di reggae, rap e pop che dal Porto Rico è esondato nel resto del mondo. Il treno viene da East Harlem, periferia ispanica di Manhattan, quindi alla trentenne che ondeggia accanto a me lasciandomi spiare nel suo smartphone la musica può essere arrivata con il passaparola. Agli altri 1,7 milioni di abbonati all’omonima playlist, la terza più popolare tra le 4.500 di Spotify, invece l’ha messa in testa Rocío Guerrero Colomo, la spagnola di ventinove anni che l’ha creata nel 2014. «Era il decimo anniversario di Gasolina, il mega-successo di Daddy Yankee, e volevo solo celebrarlo» mi confessa nella sala Me&Julio Down by the Schoolyard (ognuna ha il titolo di una canzone) della sede newyorchese del servizio di streaming musicale. Ma l’operazione nostalgia le è esplosa tra le mani: «Ha cominciato a crescere a dismisura. Piano piano si sono convertiti Shakira, Ricky Martin e Ricky Iglesias. E così, da unica curatrice che ero della musica latina, sono diventata la capa di una squadra che è raddoppiata l’anno scorso e raddoppierà ancora il prossimo». Violinista di formazione, lunghi capelli corvini, poliglotta entusiasta, dopo aver studiato giornalismo e aver vissuto tra Gran Bretagna e Brasile, è tornata in Spagna con tante idee ma confuse nel 2006, l’anno in cui nasceva la piattaforma per ascoltare musica su computer e smartphone. Ha mandato un curriculum. L’hanno presa. In America ha lavorato a Tunigo, la start up allora appena acquisita e specializzata nello scoprire nuova musica grazie alle raccomandazioni del software. Poi, mettendo insieme magia nera informatica e istinto musicale, è arrivata la tombola di Baila Reggaeton. Circa metà dei cento milioni di utenti mensili di Spotify (di cui 40 iscritti al servizio a pagamento) non arriva alla musica cercando un artista o un genere, come succedeva una generazione fa, ma affidandosi a compilation. Create da algoritmi o da esseri umani tali e quali a lei che possono fare o disfare, come prima solo le etichette, la fortuna di un musicista: sono i signori delle playlist.
Forse era inevitabile. Non era mai esistito un negozio con 30 milioni di canzoni, tante quante ne contiene il catalogo di Spotify. Aggiungete quelle di Apple Music, di Google Play Music, di Amazon Music e Pandora e capirete perché c’è tanto bisogno di ordine. Alla faccia dello scrittore Michael Crichton che, agli esordi del web, aveva vaticinato l’estinzione dei giornalisti-mediasaurus. Internet, si diceva, avrebbe fatto fuori tutti gli intermediari. Quelli vecchi, forse, perché da Uber c Airbnb a Rocío e i suoi settanta colleghi, più almeno la dozzina di Apple e la ventina di Google, quelli nuovi non sono mai stati così bene. Dal momento che se uno dovesse farsi strada da solo nella giungla della musica digitale – come in quella delle notizie online – non gli resterebbe il tempo per fare il suo, di lavoro. In cosa consiste quello dei nostri curatori me lo spiega il loro capo globale Doug Ford, 52enne con un’ex moglie di Frosinone che si è lasciato alle spalle una gioventù da trombettista e la facoltà di economia per andare a suonare in giro, fare due dischi e aprire uno studio dove ha registrato, tra gli altri, Kanye West prima che diventasse una star. Dunque: «Si parte con un’ipotesi tipo: che musica voglio ascoltare mentre faccio una pausa-relax, o il lunedì mattina per affrontare la settimana, o per elaborare il lutto della rottura con la fidanzata? Ogni ipotesi ha un brano che la incarna, intorno al quale trovarne altri che rispondano alla stessa domanda. Quindi serve un titolo (rispettivamente: Un thè e un libro; Monday Motivation; Breakup Songs), un’immagine accattivante e un numero che in media va da 30 a 50 canzoni, per un totale di 2-3 ore di ascolto, coerenti tra loro. E il gioco è fatto». Come ogni ipotesi che si rispetti, anche quella della playlist va verificata. Così se quando arriva la traccia numero tre, poniamo, troppe persone skippano, la saltano, gli editor prima cambiano la sequenza, poi spostano il brano in un’altra compilation e se fa ci lecca anche lì lo fanno fuori. Perché ogni comportamento degli utenti lascia traccia. Sanno quante volte ripeti un brano, se lo salvi offline per sentirlo anche senza connessione, se lo condividi e con chi. E ne fanno tesoro.
Ci sono playlist automatiche, interamente assemblate dal software come la popolarissima Discover Weekly che ogni lunedì propone una rassegna basata sui tuoi gusti, oppure il recente Daily Mix o il Release Radar che si concentra sulle nuove uscite. Ma anche quando il selezionatore ha il sangue caldo, l’algoritmo che qui chiamano Keanu (in omaggio al Reeves protagonista di Matrix) aiuta a rimpolpare l’ipotesi con pezzi simili a quelli originariamente scelti dai curatori. «Non è una competizione tra analogico e digitale» insiste Ford, «ma una collaborazione che io chiamo algo-toriale, algoritmica ed editoriale». Troppo conciliante. Perché in tempi di dibattito sulla sostituzione degli umani da parte dell’intelligenza artificiale, questa vicenda segna una rara vendetta dei primi, del loro sapere e della loro capacità di raggruppare cose a prima vista disparate. Tuttavia permane una serie di problemini. Come quello per cui settanta esseri umani da soli riescono a servire una clientela di 50-100 milioni (la crescita senza lavoro denunciata da tanti economisti). Che l’1 per cento dei musicisti (il dato si riferisce a Apple Music, ma né Doug né Rocío lo contestano) fa da solo il 77 per cento del fatturato. O che, a una media di 6 centesimi di dollaro per ascolto, è dura, durissima, se non impossibile, per un artista campare con lo streaming, secondo la miserabile ma sempre più accettata equivalenza «dollari analogici, centesimi digitali».
I nostri inossidabili melomani però non si lasciano scoraggiare. Prima Ford: «Siamo un formidabile strumento di democrazia musicale. Mai nella storia tanti artisti sono riusciti ad avere un pubblico come oggi». Poi Colomo: «Prima ce la faceva solo l’aristocrazia che arrivava nella Top 40, mentre noi abbiamo creato un nuovo ceto medio di musicisti». Mi citano Muna, un trio femminile di Los Angeles, «indie piuttosto dark», che poche settimane dopo essere approdate su una playlist di successo ha firmato con un’etichetta. O quel cantante italiano che Doug ha sentito durante una vacanza in Svizzera qualche mese fa e che poi ha messo in heavy rotation su qualche playlist («Succede davvero!»). L’aneddotica, il più delle volte diplomaticamente laconica, si spreca. Rocío rilancia: «La verità è che non è mai stato così facile emergere. Abbiamo appena inaugurato un formulario digitale su Google Docs attraverso il quale chiunque può sottoporci quel che fa. Non garantiamo di pubblicarli, ma di ascoltarli sì».
I duemila dipendenti di Spotify, tra cui le varie centinaia che occupano i tre piani in ristrutturazione di questo vecchio grattacielo, con la loro quota obbligatoria di scrivanie alle quali lavorare in piedi secondo l’ultima ortodossia della Silicon Valley, giurano di essere assai accessibili. Tranne quando gli chiedi di uscire dalla vaghezza sui loro artisti preferiti o sul modus operandi dei loro software.
L’arte della playlist non è affatto banale. Gli ingredienti segreti sono custoditi gelosamente, sotto il travestimento della modestia («Spesso il successo è totalmente casuale»). Un caso che però non trascura il setaccio parossistico dei comportamenti di ascolto. È il terreno di caccia dell’applicazione Puma, acronimo di Playlist Usage Monitoring and Analysis. Ho letto che ogni buona playlist ha almeno un paio di cover di grandi classici, che servono a far andar giù meglio le novità. Che c’è un rapporto preciso tra pezzi nuovi e vecchi, sofisticati e pop. Qui dicono di no, che è un lavoro più artigianale, sempre diverso. Di certo proporre nuovi artisti è più vantaggioso perché non si lamenteranno mai, come ha fatto l’onnipotente Taylor Swift o Thom Yorke (definì Spotify «l’ultima disperata scoreggia di un corpo agonizzante», quello dell’industria musicale), sulla spartizione dei proventi. Magari, forti della lezione di Amazon, gli svedesi potranno un giorno scritturare direttamente gli autori. La verità è che, con la potenza di fuoco degli 8,6 milioni di followers della Today’s Top Hits o dei 3,6 milioni di Rap Caviar, puoi fare un po’ quello che ti pare senza chiedere permesso a nessuno.
Una trentina di playlist oggi supera il milione di ascoltatori. Finiremo tutti, nonostante la fenomenale varietà di partenza, ad ascoltare le stesse tracce, come succede con i ristoranti per l’effetto Tripadvisor o con i risultati delle ricerche nella prima pagina di Google? «Ma no» tranquillizza Ford, «per un semplice motivo. Che le playlist sono organismi viventi, che vanno innaffiate in continuazione come si farebbe col proprio giardino. Le piante appassite si potano o se ne piantano di nuove. Nessuna rimane troppo a lungo uguale a se stessa». Quello della fine della infodiversità, però, non è un dibattito ozioso circoscritto alle colonne anticonsumeriste di Adbusters o alla tesi di Il filtro di Eli Pariser. Perché non esiste limite tecnologico al fatto che la playlist che oggi attrae 8 milioni domani non ne cumuli dieci volte tante. Certo, sopravviverebbero tante nicchie, ma nascerebbe un mass medium nuovo. Enormemente influente. Nel recente Every Song Ever il critico jazz del New York Times Ben Ratliff sostiene che l’attaccamento al genere è fuori moda come le giacche con le spalline imbottite o il Walkman. Invita dunque a uscire dai tranquillizzanti laghetti della tradizione per tuffarsi nel mare aperto delle nuove piattaforme. Per quel che vale, io ci ho provato per essere infine sopraffatto dall’abbondanza. Al netto di qualche bella scoperta mi sono sorbito un sacco di robetta rinforzando la convinzione che a volte more is less e che le euristiche messe a punto con l’esperienza servono proprio a evitare di perdere tempo con quel che non ci piacerà. Per non dire della perdita, questa oggettiva, di tutto il paratesto una volta costituito dalle copertine, i testi e le altre informazioni che fornivano un contesto alla musica alla spina, qui e ora, in cui sguazziamo oggi.
Dal rumore di fondo delle opinioni emergono due segnali chiari. Uno: alla fine degli anni 90 l’industria musicale valeva 38 miliardi di dollari contro i 15 attuali. Due: il numero di musicisti professionisti in attività (dati Bureau of labor statistics) negli Stati Uniti sono passati da 50 mila (2002) a 30 mila (2012). Quella sì che era classe media, oggi dimezzata. «Piuttosto su queste piattaforme la popolarità si moltiplica, con le star che attraggono una percentuale altissima degli streaming» mi dice Rahul Telang, professore alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh e autore di Streaming, Sharing, Stealing. Big Data and the Future of Entertainment. Che ci tiene a non passare da pessimista: «Di certo si può dire che Spotify e gli altri facilitano il passaggio della musica dal creatore all’utente. Da lì a dire che l’artista medio stia meglio di prima è tutto da dimostrare». Nei bei capitoli di Internet non è la risposta dedicati alla metamorfosi digitale della musica, Andrew Keen ricordava il caso emblematico di Ellen Shipley, interprete rythm and blues nominata ai Grammy, che dopo 3 milioni 112 mila passaggi su Spotify aveva totalizzato la bellezza di 39,61 dollari. Con cui festeggiare lautamente a hamburger e birretta. Rocío non ci sta: «Anche Nicky Jam si lamentava all’inizio, ma ora è ricco. Piuttosto i musicisti dovrebbero educare il loro pubblico a passare all’offerta premium: una cosa è una royalty del 70 per cento (da spartirsi con l’etichetta) basata sulla pubblicità, altra sul canone. Sarebbe stato più utile anche per Taylor Swift incoraggiare i suoi fan ad abbonarsi». Quando era solo una curatrice Rocío ascoltava musica tutta la giornata, al netto del sonno («Dai nostri dati abbiamo scoperto, fra l’altro, che c’è gente che tiene accese playlist come White Noise, Peaceful Piano o Sleep tutta la notte»). Neppure lei teme di essere licenziata a breve dall’algoritmo, perché «le macchine non possono parlare con gli artisti e convincerli, come ho fatto io con Mark Anthony, a girare un piccolo video con suo padre da condividere con i nostri ascoltatori». Lo dice, ironia della sorte, sotto un ritratto di Philip K. Dick appeso alla carta da parati nera della saletta intitolata a uno dei capolavori di Simon&Garfunkel. Ciò che si può affermare, oggi, è che la partita tra nerd musicali in carne e ossa e macchine, come quelle per la «deconvoluzione spettrale avanzata» che anni fa, analizzandone la struttura sonora, riuscirono a intuire in anticipo che Come Away with Me di Norah Jones sarebbe diventato un album record, la vincono i signori delle playlist. Più difficile, come insegnava il fisico Niels Bohr, fare previsioni. Soprattutto sul futuro.
Riccardo Staglianò