Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 27 Domenica calendario

NO-Sì. DECIDETE VOI


• «Con la riforma lo Stato risparmierà 500 milioni all’anno e avremo un aumento del Pil del 6 per cento in dieci anni, pari circa a 10 miliardi all’anno». Maria Elena Boschi, 8 giugno 2016

Dice il bilancio di previsione 2016: il Senato costa 540 milioni. Di questi, solo 79,5 lordi finiscono nelle tasche dei senatori: tutti gli altri sono costi per personale, servizi, forniture e pensioni. Le indennità dei 315 senatori ammontano a 42,135 milioni di euro. Poi, ognuno ci paga l’Irpef: 14 milioni rientrano nelle casse dello Stato. Nel “nuovo” Senato arriverebbero 100 senatori “stipendiati” solo dai consigli regionali e comunali. Quindi, il risparmio netto sarà di 42 milioni (le indennità non più versate) meno 14 milioni (le tasse non più pagate): totale 28 milioni. Il Senato, poi, versa altri 37,266 milioni per le spese sostenute dai suoi membri per lo svolgimento del mandato. Rimborsi e supporti che spetteranno anche ai nuovi: la spesa da 37 milioni passerà a 12, con un risparmio che, al netto delle tasse non versate, equivarrà a 20. Il totale fa quindi 48 milioni, l’8,8% del bilancio del Senato. I risparmi secondo la Ragioneria generale dello Stato: 49 milioni dal taglio del numero dei senatori e altri 8,7 dalla chiusura del Cnel. Per Roberto Perotti, ex commissario per la spending review, invece, “il risparmio effettivo per l’abolizione del Cnel sarà solo di 3 milioni».


• «Oggi non c’è lo stesso diritto per ciascun cittadino di qualunque Regione di accedere allo stesso tipo di cure per malattie molto gravi come il tumore o i vaccini. Se passa la riforma invece avremo il dovere che ci siano lo stesso tipo di servizi a prescindere dalla Regione in cui vivono». Maria Elena Boschi, 3 novembre 2016

«La riforma consente sulla sanità di avere gli stessi diritti per un bambino malato di diabete in Liguria e uno in Calabria. Sono cose serie». Matteo Renzi, 23 novembre 2016

Il nuovo articolo 117 della Costituzione mette mano alla riforma del Titolo V del 2001 che tanto contenzioso ha creato davanti alla Consulta: “Vengono riportate allo Stato le disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”. Ma già oggi è così grazie all’articolo 120 della Costituzione e ai Lea, i livelli essenziali di assistenza, ovvero gli standard di cura nazionali (che esistono dal 2003). Il vizio di origine riguarda la sproporzione di risorse finanziarie e organizzative fra le 20 Regioni italiane, che hanno capacità di spesa e strutture ospedaliere molto diverse. Dire che “vengono riportate allo Stato le disposizioni generali e comuni per la tutela della salute” non significa garantire cure uguali per tutti. Il punto fondamentale riguarda i finanziamenti. E l’art. 119 stabilisce che “le risorse derivanti di cui ai commi precedenti assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni”. Queste ultime dovranno continuare a provvedere da sole al finanziamento della spesa sanitaria.
Di fatto non cambierà nulla.


• «Sono 70 anni che stiamo aspttando la fine del bicameralismo paritario». Maria Elena Boschi, Corriere della Sera, 17 novembre 2015

Da chi fosse attesa non è ben chiaro. Un sondaggio di Ipsos, per il programma DiMartedì su La7 del 3 maggio 2016, ha calcolato che solo il 6 per cento degli italiani ritiene una priorità riformare la Costituzione, a fronte di ben altre urgenze: rilanciare l’economia (31%), abbassare le tasse (31%), riformare la legge Fornero (27%). Lo stesso sondaggio, riproposto il 24 maggio nella stessa trasmissione e dopo settimane di dibattito sul referendum, segnalava che la percentuale era scesa al 4%. Più si parla della riforma, più gli italiani la giudicano inutile. Quanto ai 70 anni, nel 1945 non era nemmeno stata eletta l’Assemblea costituente: difficile pensare che si volesse modificare la Carta prima ancora che fosse scritta.

• «Lo Stato sarà più semplice. Non avremo più il ping pong di ogni legge tra la Camera e il Senato, perché il Senato non potrà più cambiare le leggi fatte dalla Camera». Matteo Renzi, 8 maggio 2016

La “navetta” tra un ramo e l’altro del Parlamento sopravvive anche con la nuova Costituzione. Alcune leggi (di 22 materie) dovranno passare obbligatoriamente al vaglio sia della Camera, sia del Senato. Ma anche tutte le altre. I senatori potranno infatti intervenire con tempi stabiliti su tutte le leggi in discussione alla Camera: certe volte potranno “trattenerle” per 10 giorni, certe volte 15, altre 40 e poi rimandarle indietro emendate. A quel punto, se la Camera vuole, può aggirare le modifiche del Senato: certe volte a maggioranza semplice, certe assoluta. Non solo: il Senato può anche proporre leggi sue e la Camera deve esaminarle in sei mesi. Restano di competenza del Senato le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali. Quanto alla navetta, secondo uno studio di Open Polis delle 252 leggi approvate in questa legislatura, solo 50 hanno richiesto la navetta a causa di modifiche da parte di uno dei due rami del Parlamento, ovvero il 19,8% del totale. Di queste, ben 43 hanno richiesto solo tre approvazioni ovvero una in più rispetto al normale iter. Solamente per 5 norme si sono poi resi necessari 4 passaggi parlamentari mentre i casi limite sono solo due: la legge sull’omicidio stradale (5 passaggi in Parlamento) e la riforma costituzionale (6 voti, dove però 4 sono obbligatorie per legge essendo un testo che va a modificare la Costituzione secondo la procedura prescritta dall’articolo 138).

• «La riforma costituzionale del Senato influirà sulla velocità delle decisioni, sulla capacità di governare i problemi quando nascono e non dopo». Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica alla Columbia University di New York, 13 febbraio 2016

Davvero abbiamo bisogno di leggi più veloci? O, piuttosto, di leggi fatte meglio? Gli studi degli uffici parlamentari, comunque, dimostrano come i tempi di approvazione delle leggi con la Costituzione vigente non siano affatto lunghi, anzi. Se guardiamo ai disegni di legge, nel 2016 per approvare quelli d’iniziativa governativa finora ci sono voluti una media di 107 giorni alla Camera e 141 in Senato. Ancora meno tempo serve per la conversione dei decreti legge: la media nel 2016 è di 28 giorni alla Camera e 14 in Senato. I tempi di approvazione si allungano invece con le norme promosse dal Parlamento: nel 2016 la media è di 392 giorni a Montecitorio e 226 a Palazzo Madama, mentre nel 2015 è stata di 400 giorni alla Camera e 313 al Senato. In generale, da inizio legislatura le leggi volute dall’esecutivo sono state approvate con una media di 56 giorni alla Camera e 68 in Senato; quelle di iniziativa regionale in 113 giorni a Montecitorio e 106 a Palazzo Madama; quelle proposte dal Parlamento in 308 giorni alla Camera e 227 in Senato. Mentre i decreti legge sono stati convertiti in 17 giorni in media alla Camera e 13 giorni in Senato.

• «Il Senato sarà organo di raccordo tra lo Stato, le Regioni e gli altri enti territoriali, e fra questi ultimi e l’Unione europea». Anna Finocchiaro, Pd, presidente della commissione Affari cstituzionali, l’Unità, 18 settembre 2015

Secondo l’articolo 70 restano di competenza bicamerale anche le materie di attuazione delle politiche europee: su questo punto i costituzionalisti stanno cercando da mesi di interpretare la norma (quali leggi riguarda? Solo i trattati? Solo la legge comunitaria? Tutte le leggi che recepiscono direttive Ue?), ma è talmente oscura che le letture sono molte. Le Regioni, poi, perdono quasi completamente la loro autonomia legislativa, per giunta con norme coniuse e malscritte che non diminuiranno neppure l’enorme contenzioso con lo Stato. Il governo si riprende la competenza “esclusiva” su materie tipicamente regionali, come il controllo del territorio, ma solo per “dettare disposizioni generali comuni”. Cioè? Lo Stato potrà fare tutto ciò che vorrà. Come attribuire alle Regioni la competenza esclusiva su materie vastissime, salvo poi contraddire tutto con la “clausola di supremazia” dello Stato centrale (che sarà il governo e non il Parlamento a decidere se attivare o no). Clausola che, fra l’altro, ripristina il principio dell’“interesse nazionale” che prima della riforma del 2001 del Titolo V era il pretesto discrezionale con cui il Parlamento calpestava le autonomie locali. Restano invariati i privilegi delle cinque Regioni a Statuto speciale.

• «La legge elettorale è il simbolo di un governo che non si limita a predicare le riforme, ma le fa sul serio». «Credo che il risultato più importante sia che il nostro Paese aspettava una legge elettorale nuova e finalmente ce l’abbiamo». Maria Elena Boschi, 4 maggio 2015

Dal 2005 la riforma elettorale era attesa da chi voleva cancellare il Porcellum. Ma nel dicembre 2013, due mesi prima che Renzi andasse al governo, a cancellare la “porcata” di Calderoli ha provveduto la Corte costituzionale. Che, non potendo lasciare il Paese senza una legge elettorale, ha espunto dal Porcellum tutti i profili d’incostituzionalità – liste bloccate e premio di maggioranza senza soglia – creando una nuova normativa (“detta Consultellum”). Naturalmente nulla impediva a Renzi e alla sua maggioranza di farne un’altra, più attenta alla governabilità. Ma senza spacciare l’Italia per un Paese privo di legge elettorale e attenendosi ai paletti fissati dalla Consulta.
Invece l’Italicum riproduce entrambi i vizi d’incostituzionalità: capilista bloccati e multicandidati e premio di maggioranza senza soglia dopo il ballottaggio. Quanto al governo che le riforme le fa sul serio, l’Italicum – su cui l’esecutivo ha posto la questione di fiducia – è entrato in vigore a luglio 2016 (un anno e passa dopo la sua approvazione) e ora lo stesso Renzi si è impegnato a modificarlo: il Pd ha persino prodotto un documento ufficiale in cui si parla di sopprimere il ballotaggio.


• «L’Italia due anni fa era incastrata in una costante depressione politica. Poi il Parlamento imporovvisamente si è svegliato ed è cominciato il processo che ha portato alle riforme: dopo 63 governi di fila, ai vertici internazionali non hanno neanche il tempo di ricordarsi la tua faccia». Matteo Renzi, 2 maggio 2016

A parte il fatto che certe facce è meglio che se le dimentichino tutti; questa storia dei 63 governi che non hanno fatto le riforme finché non è arrivato Renzi a salvarci, è assolutamente infondata. Intanto i governi sarebbero stati 62 se Renzi – noto cultore della stabilità – non avesse rovesciato dopo soli 9 mesi quello di Enrico Letta. Ma sopratutto dal 1946 a oggi il Parlamento ha modificato 43 articoli della Costituzione. Soltanto negli ultimi 25 anni, le Camere hanno approvato ben 13 leggi di revisione costituzionale (una ogni due anni, di cui soltanto una – quella di Berlusconi e Bossi detta “devolution”, nel 2006 è stata bocciata al referendum), che hanno modificato 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Occorre domandarsi perché nessuno, men che meno il premier, ricordi i benefici di una sola di quelle “ritorme” costituzionali; forse perché non esistono, forse perché ciò che va cambiato in Italia non è la Costituzione, ma i politici che continuano a tradirla e a riscriverla. Con gli esiti a tutti noti.

• «L’immunità vale esclusivamente per ciò che viene detto e fatto mentre sono al Senato». Andrea Romano, 9 maggio 2016

Come si fa a tagliare in due un sindaco o un consigliere regionale che fa anche il senatore? Se si scopre che costui ha chiesto o intascato una mazzetta o trucca un appalto per il suo Comune o la sua Regione durante una riunione tenuta nel suo ufficio in Senato, che si fa? Lo si intercetta, lo si perquisisce e lo si arresta, oppure si chiede l’autorizzazione a procedere a Palazzo Madama? E se tenta di vendersi il voto su una legge al Senato a un imprenditore che va a trovarlo in Comune e in Regione, il reato “vale” come senatoriale oppure è comunale o regionale? La verità è che l’immunità varrà sempre, qualunque cosa faccia e ovunque si trovi il senatore part-time. E siccome la carica senatoriale sarà a titolo pressoché gratuito, l’unico vantaggio per sindaci e consiglieri che la ricevono, sarà proprio l’immunità. Il che trasformerà gli inquisiti e gli inquisibili in altrettanti candidati privilegiati al seggio in Senato.

• «I senatori hanno deciso di abolire il Senato. La politica dà un grande segnale: rinuncia alle poltrone». Matteo Renzi, 2 maggio 2016

Magari. Almeno risparmieremmo un sacco di soldi. Nessuno, men che meno il Senato, ha mai “abolito il Senato”. La “riforma” abolisce solo le elezioni per il Senato, riempiendolo di nominati: cioè sindaci e consiglieri regionali miracolati dall’immunità parlamentare. Per il resto, il Senato resterà vivo e vegeto, con un terzo degli attuali membri, ma con tutta la costosissima burocrazia retrostante.

• «La Consulta ha bocciato la riforma della PA. Se votiamo Sì non ci sarà più la possibilità che una Regione blocchi l’innovazione di tutto il Paese». Marianna Madia, 25 novembre 2016

La Corte costituzionale ha bocciato una buona fetta della riforma della Pubblica amministrazione (legge Madia), accogliendo il ricorso del Veneto. L’uscita della Madia, però, si basa su un presupposto falso. La riforma del Titolo V fatta dal Ddl Boschi non cambierà nulla su queste materie. Basta leggere la sentenza. La Consulta boccia la legge delega (su cui si basano i decreti attuativi) perché non ha previsto un’intesa piena da raggiungere nella Conferenza Stato-Regioni: per i decreti attuativi ci si è limitati a prevedere un “parere”, mentre invece va cercata “un’intesa”. Già oggi, infatti, lo Stato può intervenire sui temi su cui la Consulta accoglie l’incostituzionalità, ma si tratta di materie concorrenti “legate in un intreccio inestricabile, dove è necessario che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze”. Problema: i 4 decreti attuativi indirettamente colpiti dalla sentenza della Corte non riguardano competenze che la riforma Boschi attribuirà esclusivamente allo Stato. Tradotto: su organizzazione interna, personale e dirigenti, società partecipate e altre competenze toccate dalla legge Madia, le Regioni avranno ancora voce in capitolo e, se ignorate, potranno impugnare le norme.

• «Non stiamo cercando di fare nulla di straordinariamente rivoluzionario, ma cerchiamo di dire che il Senato diventerà come in Germania». Graziano Delrio, 30 marzo 2014

Il modello tedesco non c’entra nulla col nuovo Senato italiano. Nella Repubblica federale di Germania, la Camera all’Alta equivalente al nostro Senato si chiama Bundesrat ed è formata dai delegati dei governi dei Länder (cioè gli Stati regionali dotati di tradizioni e poteri non comparabili alle nostre Regioni). Questi hanno l’obbligo di votare compatti (pena la nullità del voto) nell’interesse del proprio Land e possono anche essere revocati dai loro governi. Diversamente dai nostri senatori vecchi e nuovi, quelli tedeschi hanno vincolo di mandato, cioè rappresentano i Länder, mentre i nuovi senatori rappresentano i rispettivi partiti e si organizzano per Gruppi parlamentari politici e non territoriali. I membri del Bundesrat non hanno l’immunità parlamentare e ricevono solo il rimborso del viaggio.

• «Noi diminuiamo gli stipendi dei parlamentari da 950 a 630. Dall’altra parte difendono i loro privilegi». Matteo Renzi, 8 novembre 2016

La riduzione del numero dei senatori, con quel risparmio irrisorio, decapita il Senato da 315 a 100 membri, senza fare altrettanto in maniera omogenea con i deputati. Così si crea uno squilibrio insensato fra le due Camere. I deputati restano infatti 630. La riforma Bossi-Berlusconi del 2005, respinta con il referendum costituzionale del 2006, prevedeva una Camera formata da 518 deputati, e un Senato composto da 252 membri. E comunque Renzi aveva promesso ben altro: “Dimezzeremo il numero e gli emolumenti dei deputati e dei senatori e li faremo eleggere tutti dai cittadini”. Così si avrebbe avuto un vero risparmio e un taglio equilibrato, oltre a non calpestare il diritto fondamentale dei cittadini di eleggere tutti i propri rappresentanti nel Parlamento che approva le leggi.

• «Aboliamo il bicameralismo perfetto che è un unicum italiano. Non esiste in nessun altro Paese del mondo e rallenta i tempi delle decisioni in maniera inaccettabile». Pier Ferdinando Casini, 26 ottobre 2016

Non è vero. Negli Stati Uniti il sistema dei rapporti tra le due Camere è un bicameralismo perfetto nell’esercizio della funzione legislativa e di revisione costituzionale. Tutte le leggi devono essere approvate da entrambe le Camere (quelle di finanza devono obbligatoriamente essere presentate alla Camera). La Costituzione americana è stata modificata nel 1913 per rendere elettivi i 100 senatori (2 per ogni Stato) che prima non lo erano. In Francia, solo l’Assemblea nazionale (Camera bassa) dà la fiducia al governo, mentre dal punto di vista dell’iter legislativo è un bicameralismo sostanzialmente paritario. Non ci sono grandi distinzioni funzionali tra le due Camere, ma la volontà dell’Assemblea nazionale può prevalere sul Senato: in caso di disaccordo, dopo due letture da parte di ciascuna Camera o in caso di procedura accelerata, il primo ministro o i presidenti delle Camere (congiuntamente) possono convocare una commissione mista paritetica per proporre un testo sulle disposizioni rimaste in sospeso. Se il disaccordo tra le due Camere persiste, il governo può far decidere in via definitiva l’Assemblea nazionale.

• «Non è vero che il Senato non sarà eletto dai cittadini: i cento senatori, senza indennità, saranno scelti dai cittadini». Matteo Renzi, 9 novembre 2016

Il nuovo articolo 57 della Costituzione al comma 2, dice che i senatori siano “eletti con metodo proporzionale” dai “Consigli regionali”. Ma, al comma 5, si contraddice: “i senatori saranno scelti in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo”. E il “come” è rinviato a una legge ordinaria, ancora di là da venire. I due commi non possono stare insieme: se i Consigli regionali eleggono i senatori (comma 5), la decisione su quali eleggere spetta solo a loro, ignorando le scelte degli elettori; se invece i Consigli regionali devono rispettare le scelte degli elettori (comma 2), allora non eleggono i senatori, ma ratificano soltanto gli orientamenti dell’elettorato. E comunque sono esclusi a prescindere i 21 sindaci e i 5 nominati dal Quirinale. La legge sarà comunque incostituzionale o perché viola il comma 2 o perché viola il comma 5. I cittadini non riceveranno più la scheda per il Senato. Quanto all’indennità i senatori arriveranno a Roma da tutta Italia, avranno diritto ai rimborsi per il viaggio, le trasferte, il vitto e l’alloggio nella Capitale, oltre agli assistenti parlamentari (i “portaborse”), al personale di segreteria e ai consulenti degli uffici legislativi, che si mangeranno parte del modesto risparmio ricavato dal taglio delle indennità.


• «La riforma perfetta è quella che non si farà mai, che resterà scritta nei libri. Ma questo della riforma costituzionale su cui si voterà a dicembre è un passo avanti importantissimo». Matteo Renzi, 7 novembre 2016

«Sono la prima a riconoscere che questa non è la forma perfetta, e del resto leggi perfette difficilmente esistono, ma mi rincuora pensare che anche quando fu approvata la Costituzione italiana del 1948 non mancarono le voci critiche». Maria Elena Boschi, 9 agosto 2016

Il punto, naturalmente, non è la perfezione. Il punto è che questa riforma stravolge un terzo della Costituzione in maniera irrazionale e pasticciata, senza che dietro ci sia un disegno istituzionale coerente e logico. I danni di sistema e di funzionamento saranno moltissimi. La Costituzione però non è l’italicum e nemmeno la legge Madia, non si riforma per tentativi, passo passo: quando ci si mette mano serve un progetto organico. Questo è implicito in quanto prescrive l’articolo 138 della Carta, cioè maggioranze molto ampie e tempi lunghi: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”.

• «Il voto al referendum è un’occasione che non ricapita. La fregatura è che una vittoria del No vuol dire buttare via l’ultima occasione in trent’anni per cambiare le cose». Matteo Renzi, 6 ottobre 2016

Nulla impedisce al Parlamento di riprendere il filo delle riforme: ovviamente sarebbe meglio che lo facesse un Parlamento eletto con una legge non incostituzionale (come capita a quello in carica, eletto con il Porcellum) e che i partiti spiegassero per bene in campagna elettorale quali riforme vogliono fare, così da sottoporle al vaglio dei cittadini. E che si procedesse con leggi costituzionali uniformi, così che a un eventuale referendum gli elettori possano dire Si o No a quesiti chiari e specifici. Dieci anni fa fu bocciata la Controriforma Bossi-Berlusconi e questo non impedì certo a questo Parlamento di procedere a una nuova Controriforma approvata nel breve volgere di due anni. Su alcune materie c’è ampia condivisione fra le attuali forze politiche. Quattro tra costituzionalisti e politologi – Gianfranco Pasquino, Andrea Pertici, Maurizio Viroli, Roberto Zaccaria – hanno appena sottoscritto cinque modifiche sostanziali e migliorative alla Costituzione: ridurre il numero sia dei senatori sia dei deputati e delle rispettive indennità, fiducia al governo espressa solo dalla Camera, istituzione di una bicamerale per accelerare il processo legislativo, potenziare referendum e leggi popolari, eliminare il Cnel. Iniziative simili sono state prese dalle forze politiche che si oppongono alla legge di revisione Renzi-Boschi.

• «La riforma costituzionale non tocca la forma di governo». Matteo Renzi, 9 maggio 2016

Peccato che all’articolo 1 della Carta si legga: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tra queste forme e questi limiti non è previsto che i due terzi dei parlamentari siano nominati dai capipartito con il trucco dei capilista bloccati (per la Camera) e con quello dell’“elezione di secondo grado” da parte dei Consigli regionali (per il Senato). Così, la sovranità apparterrà non più al popolo, ma ai partiti. Soprattutto a uno. L’Italia non sarà più una Repubblica parlamentare ma un premierato: la riforma costituzionale che modifica il Senato non può essere letta senza considerare la legge elettorale per la Camera. Gli articoli della prima parte dedicati ai diritti dei cittadini, poi, si attuano approvando le leggi secondo le modalità previste nella seconda parte. Cambiare quest’ultima significa alterare inevitabilmente anche l’altra: da tempo la dottrina costituzionalistica parla di unitarietà della Carta. Il nuovo articolo 72, poi, introduce il voto a data certa che si somma ai decreti legge e prevede una corsia preferenziale per i disegni di legge del governo. L’esecutivo potrà chiedere alla Camera che un disegno di legge per l’attuazione del suo programma sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e votato entro 70 giorni. Cosa che potenzialmente rende il governo padrone dell’agenda parlamentare.

• «La vittoria del No io la vedo come una tappa di avvicinamento a un prossimo governo a 5Stelle che non auguro all’Italia». Gad Lerner, 19 novembre 2016

Premesso che non si vota sul governo, che qualcuno magari si augura un governo M5S e che è stato Renzi a ricattare il Paese legando la sua permanenza a Palazzo Chigi al Sì al referendum, l’eventualità è assai improbabile: il Pd ha già depositato un documento in cui promette di cambiare l’Italicum eliminando il ballottaggio e affidando il premio alla coalizione vincitrice che supera il 40% dei consensi (linea Napolitano); Forza Italia propone oggi un proporzionale con soglia di sbarramento, sistema che andrebbe bene pure a M5S e Lega. Se vince il No, riformare l’Italicum (che non prevede un metodo di elezione per il Senato) è obbligatorio: l’unica legge elettorale che può venir fuori da questo Parlamento, eliminando la roulette russa del ballottaggio, consentirà la vittoria solo di schieramenti larghi o governi di coalizione successivi alle elezioni. Paradossalmente, il No è contro un governo a 5 Stelle.

• «Se vince il No si esce con l’ennesima accozzaglia di tutti senza un ragionamento alternativo». Matteo Renzi, 19 novembre 2016

Nella Costituzione si mescolano le grandi tradizioni che in Assemblea costituente erano rappresentate: cattolico-democratica, liberale, repubblicana-azionista e social-comunista. Giuseppe Dossetti – deputato Dc alla Costituente – la raccontò così: “È stata la guerra il grande crogiuolo che ha determinato a parer mio in quasi tutti una disposizione degli animi più equa. Che, al di là delle frange estremiste, spesso divergenti od opposte dei costituenti, ha portato alla conclusione di un patto approvato dalla maggioranza del 90 per cento dei membri della Costituente. Un patto che non è stato un qualunque compromesso o una manifestazione ante-litteram di consociativismo o un semplice effimero espediente. Ma un solido edificio in cui sono confluite, al di là dei contrasti politici anche molto aspri e talvolta cruenti, le tre grandi tradizioni: quella liberale, quella cattolica e quella social comunista”. Nel 2004, in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti, l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha detto: “Io difendo la Costituzione, dico che dobbiamo stare insieme. Come durante la Resistenza. C’erano i comunisti, i liberali, i cattolici, i monarchici. Nessuna parentela fra loro. Il denominatore comune era la riconquista della libertà. Quando parlo, è vero, la gente alla fine si alza e applaude a lungo”.