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 2016  ottobre 25 Martedì calendario

PAOLO SORRENTINO: HO SCRITTO UN CAMPIONARIO DEGLI ITALIANI. È COMICO MA ANCHE TRAGICO– Habemus Sorrentinum

PAOLO SORRENTINO: HO SCRITTO UN CAMPIONARIO DEGLI ITALIANI. È COMICO MA ANCHE TRAGICO– Habemus Sorrentinum. Il regista ha scritto Gli aspetti irrilevanti (Mondadori), ventitré storie di sconvolgente (grande?) bellezza, che fanno morire dal ridere ma anche piangere a tradimento. Paolo Sorrentino è recidivo. Il suo primo romanzo, Hanno tutti ragione, era un capolavoro. Gli aspetti irrilevanti è forse qualcosa di più. Non segue dibattito.
L’intervista che segue si è svolta a casa del regista a Roma tra sigari (toscani, il Soldati è il suo preferito), caffè (con zucchero, ma non di canna). Sorrentino, per l’occasione, indossa «il cardigan da casa», la sua coperta di Linus. È appena finita trionfalmente su Sky la prima stagione di The Young Pope, sta scrivendo la seconda e poi farà un film (forse su Berlusconi). Dove ha trovato il tempo per scrivere queste storie? «Mentre lavoravo a The Young Pope, era la mia evasione da quell’impegno molto pesante. Stavo tutto il giorno al montaggio e la sera per rilassarmi, dato che non mi piace più vedere la tv (partite di calcio escluse), mi inventavo questi raccontini. Un divertissement. Le storie ambiscono a essere comiche. Poi qua e là mi sono uscite delle cose drammatiche». A proposito di calcio, Silvio Orlando, nei panni del cardinale Voiello, confessa in una scena di The Young Pope: “Anch’io in un momento triste della storia del Napoli, ho avuto una leggera simpatia per l’Avellino”. Anche lei, appassionato tifoso del Napoli, ha provato in passato una leggera simpatia per l’Avellino? «Quel discorso è una delle cose di cui vado
più orgoglioso non solo nella mia carriera
di regista, ma nella mia vita in generale.
Voiello, in quanto prete, non sa cos’è il tradimento amoroso e allora lo traduce in termini di passione calcistica. L’Avellino è per lui la donna incontrata alla stazione che ti provoca il classico sbandamento, la crisi di mezz’età. No, io non ho mai avuto simpatia per l’Avellino. La rivalità è sempre stata acerrima. Però negli anni Ottanta, quando il Napoli versava in condizioni disperate, provai curiosità, non altro, per il Campania, che giocava in serie C e sfiorò la serie B. Ricordo ancora il nome del mister: Rino Santin». Torniamo al libro. Che bel titolo. «Sono partito da lì. Volevo scrivere solo gli aspetti irrilevanti della vita. Avevo un elenco di sciocchezze assolute e volevo fare un libro fatto solo da fesserie. Poi scrivendo sono venute fuori, spero, cose un po’ più importanti. Ma resto dell’idea che sono gli aspetti irrilevanti a differenziare le persone, a farle diventare uniche e originali. Sono i tic, le manie, le ossessioni, a fare la nostra individualità. Sui grandi temi, sui grandi sentimenti ci assomigliamo, più o meno, tutti, sono le sciocchezze a distinguerci».
 Ogni storia è introdotta da una fotografia, il ritratto in bianco e nero del protagonista di turno. «Sono foto di Jacopo Benassi. Ebbi un colpo di fulmine la prima volta che vidi, anni fa, i suoi scatti. Gli dissi: “Sarebbe bello fare un libro con le tue foto e io che scrivo quattro dati biografici fasulli sui personaggi ritratti”. Ed eccoci qui». I racconti sono ispirati dalle foto? «C’erano anche storie che avevo pensato prima e poi ho fatto casting: ho cercato tra le immagini di Jacopo il volto più adatto al personaggio che avevo inventato».
 Non si offende se le dico che il libro sembra un album di figurine Panini della vita? «Per niente, ho fatto la collezione delle figurine Panini come tutti e ho dato la morte a mio figlio perché la facesse anche lui. Ove mai il libro andasse bene, mi piacerebbe continuarlo, fare, finché si può, un campionario di italiani. Ne ho già in mente altri, sia di foto sia di idee di racconti, ne ho a bizzeffe». Lei ignora chi siano veramente le persone fotografate?
 «Ho pregato Benassi di non dirmelo. Perché se mi avesse detto: “Questa fa l’impiegata alle poste”, ne sarei stato condizionato, non sarei stato più capace di continuare il gioco». Non le è rimasta la curiosità di sapere chi sono queste persone nella realtà? «Certo. Dopo avere scritto, ho chiesto a Jacopo: “Questo chi è? Che fa?”». E cosa ha scoperto? «Che fortunatamente non mi sono mai avvicinato alla verità». 
I personaggi sono straordinari. C’è il commercialista truffaldino Leggiadro Pazienza che, dopo una vita di rigorosa osservanza omosessuale, scopre le gioie dell’eterosessualità con una donna a ore paraguayana. C’è lo spietato sicario della camorra Valerio Affabile, cantautore in segreto di struggenti melodie napoletane. C’è la viceportiera Donna Emma, la persona più cattiva del mondo che terrorizza un intero palazzo dove risiede il fior fiore della borghesia napoletana... Ho avuto l’impressione che lei abbia tutte queste persone dentro. Il suo condominio personale è abitato da tutta questa gente? «È la nefasta conseguenza di non avere personalità. Rileggendo le bozze ho pensato che tutti questi personaggi, ovviamente trasformati, mi ri-
guardano per un tratto, per un dettaglio, molto da vicino». Questa folla di personaggi mi fa venire in mente la battuta del Divo in cui Andreotti dice di aver conosciuto almeno trecentomila persone in vita sua, ma di avere sofferto lo stesso di solitudine. È vero anche per lei? «Sì, solo che a me la solitudine piace, l’ho sempre scelta. Non sono molto sociale. Con gli anni sono pure peggiorato. Ho i miei amici e tutto, però la mia condizione ideale è proprio lo stare per conto mio. Stare da solo per me vuol dire stare con tutti questi personaggini che ho dentro e ai quali non sono obbligato a parlare. Per me stare in società è faticoso, sono molto lento, non ho mai la risposta pronta. In questo momento è diverso, si tratta di un’intervista, ma nella vita normale le risposte mi vengono ore dopo che la conversazione è finita». Il suo stile ricorda i linguaggi tecnici. A volte è notarile, a volte burocratico, a volte
 scientifico. 
«Mi viene dai miei studi. Ho fatto economia, ho
fatto diritto. Leggendo
quei libroni infiniti ho
scoperto tantissimi eco
nomisti che avevano velleità letterarie e utilizza-
vano il linguaggio tecnico
in una forma artistica. Mi
è capitato pure in mate-
rie aridissime come la
ragioneria. C’era questo
celebre manuale di ragio
neria scritto da Domenico Amodeo, considerato la divinità della ragioneria. Non c’è ragioniere che non si è inchinato a un genio come l’Amodeo, il quale apre il suo librone con una lunghissima citazione, va giù con Dante per una pagina intera. Il mio stile, se vogliamo chiamarlo così, l’ho appreso studiando ragioneria e materie affini. È stata la mia fortuna non avere fatto lettere e per questo benedico la mia famiglia piccolo borghese. Rimasto orfano dei genitori, io dissi ai miei cugini, che erano per me come guide paterne, che volevo studiare filosofia. E loro, me lo ricordo esattamente, mi chiesero: “Ma che cos’è?”. Non l’avevano mai sentita nominare questa parola. Loro avevano una ditta di riscaldamenti. È stato come se avessi detto una parola in finnico: “Ma cos’è, Paolo? Spiegaci”. E io che tanto volevo fare filosofia non glielo seppi spiegare, perché vaglielo a spiegare... Bofonchiai che la filosofia si occupava del significato della vita e loro: “Aaah, si tratta di quello? Allora fai economia”». Questi cugini meriterebbero un pezzo della statuetta del suo Oscar per La grande bellezza. «Aver fatto studi che non sono poi il tuo destino, ti aiuta a essere meno talebano nel tuo lavoro. Per talebano intendo quelli che dicono: la letteratura è la cosa più importante del mondo, il cinema uguale. Invece tu, che sei stato indottrinato dall’Amodeo e dal suo manualone, hai imparato che le cose serie sono la partita doppia, l’economia politica, e mantieni sempre un distacco verso la letteratura, la consideri un gioco. Quando mi chiamano artista o maestro, io rimango scettico e me la rido un po’. Non ci credo fino in fondo». Quindi il suo destino più probabile era il lavoro in banca. «Avevo pure avuto la chiamata perché allora c’era la prassi che se tuo padre lavorava in banca (come aveva fatto mio padre), allora i figli venivano invitati a lavorare in banca anche loro». Che banca era? «Era l’allora famoso Banco di Napoli». Ah, quello che aveva il motto: “Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. 
«Come fa a saperlo?». Anch’io dovevo andare a lavorare al banco di Napoli. «Collega allora. Insomma, mi chiamarono, ci fu un colloquio e fui assunto. Ma non lo dissi a nessuno, perché non ci volevo andare. Pensai: se lo dico, poi mi ci portano in manette nella sede del Banco di Napoli». Lei è veloce a scrivere? «Sì, se scrivo per il cinema e per la televisione. Con i libri no, a scrivere questo ci ho messo un anno, che per me è tanto. Ho fatto molta fatica a scrivere la storia di Peppino Valletta, il cantante di piano bar. È stato straziante. Ho preso questa china e mi dicevo: perché ho scelto questo andazzo? Peppino Valletta mi faceva proprio piangere. Scrivevo un rigo al giorno ed era gravido di dolore. Scioccamente, mi sono immedesimato come se fossero fatti miei. Perché non c’è niente da fare, la paternità è dolorosa e quella di Peppino, con un figlio problematico, dolorosissima. Non so perché la paternità ha una forma di dolore inviolabile». Che non ha la maternità? «La maternità mi sembra più schietta. La paternità è un groviglio inestricabile. I figli maschi fanno molta attenzione alle reazioni del padre, hanno anche molta paura a volte. Questo ti fa sentire in colpa, diventa una matassa tremenda». I suoi racconti sono anche, e specialmente, molto comici. Tra gli aspetti irrilevanti della vita, lei mette gli ancheggiamenti fatali delle donne. 
«Le donne non ancheggiano più ed è un peccato. È una cosa retrò e perciò mi piace molto. Le donne risolvevano certi momenti difficili della vita con un ancheggiamento fatale, come fa il mio personaggio nel racconto. Nessuna donna usa più l’ancheggiamento come forma di seduzione e, invece, ha una sua enorme nobiltà». A proposito di seduttrici, a lei piaceva molto Kim Novak. «Era una mia passione da ragazzo». La seguo. Nel libro rivela un aspetto non proprio irrilevante di Kim Novak che non conoscevo. 
«Soffriva della sindrome di Morris, aveva cioè il corredo genetico di un maschio però non era spuntato il pene». Kim Novak, un sex symbol forse superiore (segue dibattito) a Marilyn e a Brigitte, era un uomo? 
«Tecnicamente era un maschio. Questo mi fa impazzire, lei che era la quintessenza della femminilità. E mi è venuto un dubbio: che quelle veramente belle siano maschi? Capisce che la cosa inquieta». C’è stato un tempo e c’è stata un’Italia, come lei racconta, che la prima scoperta del fascino femminile avveniva grazie ai cataloghi Postal Market, quelli della vendita per corrispondenza, e precisamente grazie alle pagine di réclame dell’intimo femminile. «La prima cosa che ho visto girare per casa che rimandava al sesso è stato il catalogo della Postal Market. Mia mamma ritagliava i punti e mi chiese di aiutarla, così scoprii quelle pagine segrete». Una versione casalinga, rudimentale del mitico paginone centrale di Playboy.
 «Erano molto belle le modelle della Postal Market o, almeno, così le ricordo. Non so se le ingigantisco nella mia memoria di bambino, ma erano bonissime quelle ragazze». L’idea di bellezza del regista della Grande bellezza cominciò a formarsi anche sui ritratti femminili sulle quarte di copertina di Diabolik. Erano donne stupende. «Erano bellezze irraggiungibili, classiche. Rappresentavano il sogno, l’amore romantico. Erano tutte belle come Grace Kelly e, infatti, molte storie di Diabolik si svolgevano a Montecarlo. Dietro c’era il mito della Costa Azzurra. Finito di leggere il fumetto, lo chiudevi e guardavi queste cover girl messe alla fine e non all’inizio. Erano come un cameo, apparivano una sola volta. Che idea meravigliosa». 
I suoi racconti sono come gli incidenti stradali, ci si ferma a guardarli. Ci sono momenti altissimi come quando descrive l’immaginario erotico di un boss camorrista che sogna, dalla sua latitanza, la pornostar Jessica Swarovski “nuda, che mangia peperoni abbottonati”. E qui si ride. Si ride meno leggendo quest’altra sua frase: «I matrimoni sono inedite coppie di comici formate da due spalle». «La condanna del matrimonio. Il matrimonio può essere una gioia ma anche tutt’altra cosa. Da bambino avevo una passione per Ric e Gian. Ric era quello che faceva ridere, Gian era la spalla. Ecco, certi matrimoni sembrano fatti solo da due Gian. Ma facevano ridere veramente Ric e Gian? A distanza di anni mi è venuto qualche dubbio». Penso che questo sia il suo libro più autobiografico. Addirittura, nell’ultimo racconto...
 «La avverto che sta spoilerando. Sta dicendo come va a finire». Mi perdoni, lasciamo la sorpresa finale. Domanda di riserva: di uno dei suoi personaggi dice che ha una lista di idiosincrasie lunghe come il Vecchio Testamento. Anche lei non scherza a riguardo. È uno specialista. «Un po’ sì. Lo ammetto». Ha un’idiosincrasia per gli occhiali da sole? «Io non li porto, mi dà fastidio vedere attraverso le lenti scure, quindi li associo sempre a una posa anche se so benissimo che ci sono persone che ne hanno un bisogno fisico». E ha un debole, invece, per la parola “babilonese”? «Mi piace da pazzi». C’è un personaggio che va nelle chiese e circumnaviga i confessionali per sentire i peccati degli altri. Una volta sente una donna dire al prete: “Padre, ho detto a mio marito che l’ho tradito, ma non era vero. Ora non mi crede e soffre”. Sembra la prima scena di un film. «Il racconto più cinematografico, perché è pieno di colpi di scena, è quello dell’avvocato che vive nello stesso residence dove viveva Dino Risi. Un giorno questo avvocato uccide per strada un uomo. Commesso il delitto, si guarda intorno e vede Dino Risi che lo fissa dalla finestra del bagno del residence. Era l’idea di un film che volevo fare. Il film di uno che uccide una persona e nessuno viene a cercarlo. Lui aspetta inutilmente ed entra in una paranoia molto più grande di quella di chi commette semplicemente un delitto». La cito: “Da bambini il mondo ha le fattezze di un bel film. I film sono questo anche a insaputa del regista, una riproduzione dell’idea di mondo del bambino”. Questa è la sua poetica come si chiamava una volta? «Nei film metto sempre cose
che mi piacevano da bambino. Nell’Uomo in più misi tutte cose legate a mio padre, al mondo di mio padre e di mia madre, ma solo quello che mi piaceva, i lati oscuri li tengo fuori. Per pudore».
 E qui si spalanca un abisso. Altra citazione: “Perché questa è la tragedia, tutto ciò che abbiamo provato da bambini siamo destinati a non provarlo mai più”.
 «È la vera tragedia».
 La farmacista di un suo racconto sospetta che le zigulì di quando aveva otto anni non siano più le zigulì di oggi. Chiede lumi al rappresentante delle zigulì che le giura che nulla è cambiato nella ricetta, sono le stesse. 
«Era il palato che era diverso».
 Lei ricorda i musicarelli, i film che si ispiravano alle canzoni (Non son degno di te con Morandi e Laura Efrikian, Nessuno mi può giudicare con Caterina Caselli). A me facevano molta tenerezza. Non se ne fanno più. «Perché sono come gli spettacoli di magia in televisione, sono cose pensabili per un’audience ingenua che è scomparsa. C’è stato un pubblico candido che non esiste più e che si stupiva di Silvan e di Tony Binarelli. Siamo diventati un popolo torvo e intellettualoide. Quando vado sui social vedo che ora anche gli ignoranti sentono la responsabilità di dover essere complicati. Bisogna essere intellettuali così come si deve avere la patente». L’ignoranza complicata, un ossimoro pericoloso. «Un cocktail letale. Escono fuori puttanate senza precedenti. Era così bello quando andavi in un negozio o dal meccanico e c’erano persone che dicevano: “Guarda, io sono ignorante, so fare questo”. Erano così chiari i rapporti». Nel libro c’è un cameo di Paolo Conte che ne celebra la classe e lo stile: «La barba di due giorni e l’occhio appassito. Il ghigno nella bocca. Carisma e autorevolezza». Mi permetta una standing ovation. «Io sono malato di Paolo Conte. Lo adoro. Mi fa impazzire quando tira i pezzi all’infinito. È la cosa più bella della musica proporre qualcosa di estenuante, qualcosa che tu dici: vorrei che finisse ma non voglio che finisca. E sulle parole, poi, è insuperabile: “Diavolo Rosso dimentica la strada, vieni con noi a bere un’aranciata”. Lei dice che io scrivo bene ma queste son cose serie. L’abbinamento dell’aranciata con il diavolo è inarrivabile». La studio da un po’. Non ho capito se per lei la malinconia è un dono o una condanna.
 «Nel mio caso è un dono perché io l’ho messa a reddito, l’ho fatta fruttare. Però, se si avvita su stessa può essere una condanna». Ho sempre pensato che lo sguardo più giusto che si possa avere verso il mondo è di malinconia. È la giusta fotografia del film della vita. «Sono d’accordo, la malinconia ti pone in una sorta di amorevole distanza dalle cose. È amorevole ma non è proprio il turbinio della passione che poi diventa un’inenarrabile rottura di scatole, una trappola. Aggiungerei alla malinconia anche l’ironia, sono due filtri che aiutano molto a rapportarsi col mondo». Però l’ironia è più armata. La malinconia è disarmata. «Non dice una cazzata. Forse l’autoironia e non l’ironia è, come strumento, più prossimo alla malinconia». Forse ne è figlia. Solo dalla malinconia può nascere l’autoironia. «Ha ragione, è molto vero». Dio mio, stiamo scivolando nella filosofia. Chissà se ci sentissero i suoi cugini... «Vuole che parliamo di ragioneria?». Antonio D’Orrico