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 2016  novembre 29 Martedì calendario

BLOB SOFFERENZE

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Fonte: Mara Monti, Il Sole 24 Ore 23/11/2016

Testo Frammento
NPL, IL MERCATO ITALIANO VALE 40 MILIARDI DI EURO –
Un mercato da 40 miliardi di euro a fine 2017. A tanto sono stimate le securitization dei crediti deteriorati italiani dopo le ultime operazioni annunciate, un salto notevole se si pensa che a fine 2015 non superavano 19 miliardi. L’ultima operazione è di Quaestio Sgr che gestisce il fondo Atlante, presieduto da Alessandro Penati che si è detto pronto ad intervenire anche sui Non performing loans (Npls) di tre delle quattro good bank (Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti) salvate lo scorso anno e che Ubi ha detto di volere acquisire. «Ci deve essere un’offerta della banca che è bidding ed è soggetta al fatto che noi risolviamo (il problema degli Npls, ndr)», ha detto ieri Penati a margine di un convegno sugli Npls. Ma può il fondo Atlante risolvere da solo il problema dei crediti deteriorati, i quali benché siano in calo valgono ancora come sofferenze lorde poco meno di 200 miliardi di euro (85 miliardi quelle nette contro 89 miliardi a fine 2015) e con un livello di copertura pari a circa il 58% contro il 50% nel 2013, collocandosi tra le prime posizioni in Europa. «Atlante ha risorse limitate e per questo ci aspettiamo che altri fondi italiani ed esteri possano scendere in campo per affiancarlo», ha commentato Fabrizio Pagani, capo della segretaria tecnica del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan a margine dello stesso convegno.
Finora le operazioni annunciate da Mps, UniCredit, Credito Valtellinese, Popolare di Bari si contano sulle dita di una mano, tutti deals che saranno perfezionati il prossimo anno in attesa che gli operatori e gli advisor “digeriscano” i numerosi provvedimenti che il governo ha messo a punto nell’ultimo anno e nella Finanziaria in corso di approvazione. «Il governo ha lavorato per creare gli strumenti per intervenire sugli Npls – ha detto Pagani – la buona notizia è che lo stock sta diminuendo. Stiamo sostenendo anche il consolidamento del sistema bancario e in questo senso va la riforma delle banche popolari e il processo con cui stiamo aiutando le banche».
Diminuire i tempi delle cause civili e dei contenziosi in materia fallimentare, costituire il registro elettronico delle procedure e dei beni sottoposti a procedura concorsuale sono alcuni dei provvedimenti ricordati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha sottolineato come dai 5 milioni di cause civili davanti ai Tribunali quest’anno si è passati a 3 milioni e 800 mila. Una sfida per portare l’Italia su parametri europei a cui si aggiunge il piano di riordino dei Tribunali: «Per la prima volta dopo molti anni abbiamo bandito un concorso per 800 cancellieri, la sfida è aperta ce la possiamo fare».




La stampa finanziaria internazionale è unanime nel ritenere che il sistema bancario sia l’anello più debole del sistema-Italia, tornato in balia di un grado di incertezza politica rapidamente crescente.




Fonte: Antonella Olivieri, Il Sole 24 Ore 22/11/2016

Testo Frammento
SORPRESA: IN CALO LE SOFFERENZE –
Primo segnale di inversione del trend sui crediti deteriorati delle banche italiane, ma la Borsa ancora non lo registra. Nel “Risk outlook” della Consob, si segnala infatti che nel primo semestre dell’anno le sofferenze delle otto maggiori banche quotate sono calate del 4%, mentre lo scorso anno erano ancora in crescita (vedi grafico qui sotto). Anche l’ammontare complessivo dei crediti deteriorati, per lo stesso campione di grandi banche, dopo il picco degli ultimi due anni, indica una leggera contrazione verso il basso, poco sotto i 240 miliardi di euro. In parte questo è dovuto alle cessioni di non performing loans che le banche italiane hanno iniziato a fare, in parte il fenomeno potrebe riflettere la stabilizzazione del mercato immobiliare.
Sotto il profilo della copertura delle sofferenze, superiore al 60%, le banche italiane sono al livello di quelle francesi e spagnole e più prudenti di quelle tedesche e inglesi. Mentre, nella media (a parte vistose eccezioni), non ci sono neppure preoccupazioni sul versante della solidità patrimoniale, con ratio adeguati a valori elevati e leva inferiore rispetto al resto d’Europa.
Da segnalare poi che le imprese non finanziarie quotate a Piazza Affari, pur avendo registrato un primo semestre di fatturati in calo (-7% il dato aggregato), hanno notevolmente migliorato la capacità di onorare il debito. Se infatti lo scorso anno erano il 30% le aziende con leva elevata e difficoltà a coprire col cash flow generato gli oneri finanziari, quest’anno la percentuale è scesa al 20%.
In Borsa però, segnala sempre lo stesso rapporto Consob, queste prime indicazioni positive non sono ancora riflesse nelle quotazioni delle banche. In particolare, oltre al livello comunque ancora elevato dei crediti deteriorati, pesa la «debolezza della ripresa economica» e le aspettative reddituali del settore che sono le più basse in assoluto rispetto a quelle delle banche degli altri principali Paesi dell’eurozona (Germania, Francia e Spagna). E ancora, pesa l’esposizione verso il settore pubblico domestico che, tra prestiti alle amministrazioni pubbliche e titoli di Stato in portafoglio, raggiunge il 17% del totale dell’attivo delle banche contro il 12% delle banche spagnole e un peso ancora inferiore al 3% delle banche Uk.
Il tutto si è riflesso in «una significativa contrazione dei corsi azionari, un consistente calo del rapporto prezzo/utili e un crescente disallineamento tra prezzi e fondamentali degli istituti di credito».
I segnali, insomma, sono ancora contrastanti, ma questo potrebbe essere rivelatore di un’inversione di tendenza che comincia a farsi strada dopo anni di indicazioni univoche in senso peggiorativo.



Fonte: Nicola Porro, Il Giornale 19/11/2016

Testo Frammento
QUEL CAPPIO AL COLLO CHE CI HA INFILATO LA
BCE –
In Italia, la cosa è risaputa, ci sono 350 miliardi di prestiti traballanti. La Banca Centrale Europea è lì con il fucile spianato rivolto al nostro sistema creditizio, proprio per questa montagna di quattrini che potrebbero non ritornare a casa.
Non sono tutti perduti. Quelli più a rischio, quelli che un tempo si chiamavano sofferenze e oggi Npl (non performing loans) si aggirano a quota 200 miliardi. Le banche non sono state ferme. Le quasi 700 banche italiane ogni anno hanno messo da parte quattrini per affrontare la botta. Per farla semplice, oggi 85 miliardi di prestiti non sono coperti dagli accantonamenti fatti dalle banche negli anni passati.
Questo è il vero buco nero del nostro sistema creditizio. Questa è la cifra da tenere a mente. A ciò si aggiunga che a Francoforte ci dicono di fare in fretta. Insomma si richiede alle nostre banche di fare pulizia, ma velocemente. Come sempre l’urgenza costa. E oggi il mercato, i fondi, si stima possano comprare questa merce al 20 per cento circa del loro valore. Il che vuole dire che su 200 miliardi di euro le banche potrebbero incassare, vendendo tutto ai fondi specializzati (ipotesi remota), circa 40 miliardi di euro. Il resto (la differenza tra 85 e 40) dovrebbe diventare perdita nel conto economico. Possono le banche italiane sopportare un rosso di 45 miliardi? No. È roba da libri in tribunale: né le più grandi, né le più piccole hanno le risorse per fare fronte così velocemente ad una pulizia di bilancio.
La Bce preme senza scrupoli e riverenze, come si è visto con le richieste fatte alla nuova aggregazione tra Banco Popolare e Bpm, ma anche i fondi si leccano i baffi. Comprare a 40 un portafoglio nominale di 200, può volere dire fare grandi affari.
Una via di scampo ci sarebbe. Ieri ad un incontro organizzato da Prelios, un’azienda che ora si occupa di mettere un po’ d’ordine nei crediti in sofferenza delle banche, sono uscite alcune idee che val la pena condividere. Facciamola semplice. Se le banche conoscessero davvero a chi hanno prestato i soldi potrebbero vendere a prezzi migliori. Una banca, per di più del sud, come la Popolare di Bari, ha venduto una bella fetta dei suoi prestiti compromessi al 31 per cento del loro valore.
Come è possibile? Semplice: non ha venduto un portafoglio a caso ma ha fatto un’analisi puntuale di cosa vendeva con Prelios e Moody’s (che poi ha anche dato un rating) e ha spuntato dal mercato un prezzo superiore.
La cosa in fondo è banale. Se devo comprare un biglietto per una riffa, sono disposto a pagare un prezzo più alto, quanto più so cosa c’è in palio. Se mi dicono di comprare un biglietto, senza dirmi esattamente cosa posso portarmi a casa, il prezzo a cui sono disposto a pagarlo cala considerevolmente.
Insomma, la morale è che Bce e regolatori ci stanno mettendo un cappio al collo. Ma anche il nostro sistema creditizio ha le sue grandi colpe. Non solo in ciò che tutti dicono, e cioè che ha prestato facile. Ma non ha nemmeno un data base chiaro e verificabile di ciò che gli è restato in casa. Oggi le banche sono di fatto i più grandi detentori di immobili in Italia, ma non sanno esattamente cosa hanno.
Il direttore generale della Popolare di Bari ieri raccontava di come i software bancari neanche prevedano specifiche fondamentali per capire la qualità di un bene, come ad esempio il piano in cui è collocato. Talvolta si vendono crediti assistiti da appartamenti a prezzi ridicoli, senza considerare le pertinenze. Per il numero uno di Prelios, Riccardo Serrini, l’81 per cento della montagna di Npl proviene da attività business.
Il che vuol dire che trattare le nostre sofferenze con cura, non cederle all’ingrosso ai fondi, magari affittarle nei tempi di attesa, non solo comporta un vantaggio economico per le banche, ma anche per il sistema economico e industriale nel suo complesso.





Fonte: Ferdinando Giugliano, Affari & Finanza 24/10/2016

Testo Frammento
I SIGNORI DELLE «SOFFERENZE», PER UN PUGNO DI ISTITUTI UN TESORO DA 90 MILIARDI –
A inizio ottobre, Credito Valtellinese completa un’operazione che diventerà sempre più comune fra i nostri istituti di credito. Per rafforzare il suo bilancio, Creval cede un pacchetto di “incagli”, ovvero prestiti che al momento della vendita apparivano di difficile restituzione, dal valore nominale di 104 euro. Il portafoglio, chiamato “Progetto Gavia”, è composto di crediti a 68 piccole e medie imprese, perlopiù lombarde, quasi tutti garantiti da immobili. L’acquirente è Credito Fondiario (Fonspa), una banca specializzata nell’acquisto e gestione di crediti in sofferenza. La società, di proprietà in parte del fondo speculativo Elliott, paga circa 42 milioni di euro, con l’obbiettivo di ottenere ritorni intorno al 10%, grazie ad una valorizzazione degli attivi che eviti la liquidazione, oppure al recupero di crediti e garanzie. I nsieme ad altre realtà poco conosciute al grande pubblico come Banca Ifis, Italfondiario e Prelios, Fonspa è uno dei protagonisti della silenziosa rivoluzione che sta attraversando il sistema bancario italiano. Le banche italiane hanno sui loro bilanci circa circa 350 miliardi di crediti deteriorati. Secondo i calcoli di Giuseppe Lusignani, vicepresidente della società di consulenza Prometeia, gli istituti di credito ne potrebbero vendere circa 90 miliardi lordi a società terze entro il 2019.
«La Banca Centrale Europea ha chiesto alle banche di mettere a punto una chiara strategia di gestione dei crediti deteriorati, che potrà prevedere anche operazioni di cessione. Ci sarà un efficientamento dei tempi di recupero», dice Lusignani.
La speranza dei regolatori è che gli acquisti da parte di questi nuovi attori aiutino le banche a sgomberare i propri bilanci da linee di credito concesse ad aziende “zombie”, in modo da liberare capitale per prestare soldi ad imprese più innovative. Le modalità di riscossione, sicuramente più aggressive, da parte di questi istituti specializzati rischiano però di provocare proteste fra i debitori, che fin qui hanno goduto di un atteggiamento più tollerante da parte delle banche.
«Quello dei crediti deteriorati è diventato un problema strutturale, che finisce per colpire azionisti e correntisti di banche sane e in crisi, dunque ben vengano le cessioni», dice Michela Sirtori, analista finanziario dell’associazione a tutela dei consumatori Altroconsumo. «Tuttavia, l’arrivo di operatori specializzati può tradursi in un aumento della pressione sui debitori».
Le due operazioni che più di tutte stanno facendo crollare la diga dei prestiti andati a male che siedono sui bilanci bancari italiani riguardano Monte dei Paschi di Siena e UniCredit.
«Si tratta di operazioni ‘Jumbo’, che richiedono spalle molto larghe dal lato degli acquirenti, oppure richiedono la creazione di consorzi che però includono complessità operative», dice Giovanni Bossi, amministratore delegato di Banca Ifis. «Di certo è essenziale sgomberare il tavolo da ogni tipo di incertezza riguardo i piani sui crediti deteriorati, altrimenti il rischio è che gli investitori continuino a tenersi alla larga da tutti gli istituti di credito».
Mps ha in programma di cedere tutte le sue “sofferenze”, ovvero prestiti che sicuramente non torneranno più indietro, all’interno di un piano di aumento di capitale da 5 miliardi. Il portafoglio, dal valore nominale di circa 28 miliardi, sarà ceduto a una cifra intorno ai 9-10 miliardi al Fondo Atlante, il veicolo salva-banche gestito dalla Quaestio Capital Management di Alessandro Penati, che ha scelto come consulente la stessa Fonspa.
Fonspa provvederà a impacchettare i prestiti in una cartolarizzazione, dividendola poi in tre tranche. La più sicura verrà coperta da una garanzia statale (Gacs) che la renderà simile a un titolo di Stato. Il “mezzanino” sarà tenuto dallo stesso Fondo Atlante, mentre la porzione più rischiosa, la tranche “junior” verrà distribuita agli azionisti. Il successo dell’operazione è legato alla capacità di recupero e valorizzazione dei crediti andati a male. Gli investitori, nelle cartolarizzazioni, ricevono infatti pagamenti esclusivamente sulla base del denaro recuperato. Per farlo, Quaestio si affiderà a ditte specializzate che agiranno da “servicer”, gestendo le pratiche con i debitori.
Uno dei rischi del progetto sta proprio nella scelta dei servicer. Quaestio intendeva inizialmente prendere un numero molto elevato di aziende per massimizzare la concorrenza, aumentando così l’efficienza del recupero e riducendo le commissioni. Il problema, però, è che non tutte le società hanno la stessa capacità. Ognuna di esse ha un determinato rating, che dipende da quanto fatto in passato.
La stessa cartolarizzazione – in particolare, quanto grandi possono essere le tranche più sicure – dipende dai rating dei servicer. Poiché ci sono poche aziende capaci di dimostrare di aver fatto questo lavoro bene in passato, soprattutto su volumi grossi, Quaestio potrebbe essere costretta a ridurre il numero di società con cui lavorare.
L’altra operazione su cui sono puntati gli occhi del settore riguarda UniCredit. La banca guidata da Jean-Pierre Mustier è in procinto di varare un aumento di capitale che, secondo un’anticipazione di Repubblica, potrebbe arrivare a 13 miliardi.
Una parte importante di questo progetto riguarda lo scorporo di un portafoglio di crediti deteriorati, del valore nominale di circa 20 miliardi. Unicredit non sembra intenzionata a cedere l’intero pacchetto, perché questo la obbligherebbe a svalutare anche il resto dei crediti deteriorati a bilancio a seconda del prezzo di vendita. Piuttosto, l’idea sarebbe quella di far entrare un partner di minoranza con una quota di circa il 20-25 per cento. Italfondiario, di proprietà di Fortress, è favorita rispetto a altri operatori come Pimco ed Apollo.
«Il nodo del prezzo di cessione è fondamentale», dice Marina Brogi, Vicepreside della Facoltà di Economia dell’Università di Roma La Sapienza. «Resta da capire bene come le cessioni verranno trattate nei modelli interni delle banche cessionarie. Anche da questo dipenderà la loro affidabilità».
A queste due operazioni se ne affiancano una serie di più piccole. Tra le più interessanti c’è quella che Carige ha condotto nelle scorse settimane, cedendo a Prelios un portafoglio da 900 milioni.
L’intenzione del gruppo, di proprietà di azionisti come Intesa Sanpaolo, Uni-Credit e Pirelli, è quella di replicare uno schema già utilizzato con la Banca Popolare di Bari e che fa ampio uso della “Gacs”.
La banca pugliese ha venduto un pacchetto di oltre 21.000 crediti deteriorati, estesi a 915 debitori per lo più residenti in Puglia, Calabria e Sicilia, a un prezzo di 150 milioni, a fronte di un valore nominale di 500 milioni. Il portafoglio, una volta cartolarizzato, è stato diviso in una tranche senior da 126,5 milioni, un mezzanino di 14 milioni e un segmento junior di 10 milioni. La banca ha poi deciso di riacquistare la parte più sicura che, grazie alla “Gacs” è considerata senza rischio e non consuma pertanto capitale.
Questo schema ingegnoso ha permesso alla banca di vendere i suoi crediti a un prezzo sensibilmente più alto rispetto a quello che era stato offerto prima della creazione della garanzia. Allo stesso tempo, l’operazione ha consentito alla banca di tenere praticamente gli stessi asset a libro, spostando tuttavia parte del rischio sul contribuente.
La rivoluzione dei crediti deteriorati è un passaggio praticamente obbligato per le nostre banche. Se ben gestita, potrà contribuire a rafforzare il nostro sistema del credito e a far ripartire la crescita economica. Ma, come sempre, il diavolo è nei dettagli: starà al governo vigilare perché debitori e contribuenti non paghino alla fine un prezzo eccessivo per questo cambiamento.



Fonte: Federico Fubini, Corriere della Sera 13/10/2016

Testo Frammento
SOFFERENZE, ECCO I VERI CONTI DEL SISTEMA BANCARIO ITALIANO –
Da un anno il governo si occupa di banche nel modo in cui di solito si restaura un mosaico: pezzo dopo pezzo. Ci si concentra sui singoli tasselli man mano che minacciano di staccarsi. In qualche modo si cerca di disinnescare al meglio le emergenze una per una. Un anno fa fu il momento di quattro piccole banche in dissesto in Italia centrale, in primavera Popolare di Vicenza e Veneto Banca furono salvate coagulando un decine di investitori privati nel fondo Atlante, in estate un piano di Jp Morgan ha quanto meno fatto guadagnare tempo al Monte dei Paschi e proprio ieri Atlante ha annunciato che comprerà crediti in default di Siena per una cifra fino a 1,6 miliardi.
Non è stata una scelta. L’approccio caso per caso – tamponare ciascun incendio quando divampa – è stato subìto da tutti come una necessità dettata dalla carenza di altri mezzi. Se il governo avesse affrontato il problema in modo complessivo, intervenendo con un piano di aiuti pubblici per il sistema, le regole europee avrebbero imposto di colpire gli investitori e i depositi; gli effetti sarebbero stati destabilizzanti.
Questa settimana però, a un anno dall’ingresso della fase acuta della crisi bancaria, la Banca d’Italia è tornata a pubblicare il quadro del credito nel Paese e dei prestiti in default. Quei numeri obbligano a chiedersi se la strategia degli interventi puntuali ormai non abbia raggiunto i suoi limiti. Ad agosto 2016 i crediti verso debitori insolventi pesano per il 10,4% del totale di quelli concessi, e per il 12,2% del reddito italiano di un anno. Nel frattempo lo stock di credito all’economia ha continuato a scendere, giù di 26 miliardi dall’inizio dell’anno. Sembra un forte calo, eppure per contenerlo dev’essere servito impegno da parte delle banche, a giudicare dalle ultime stime del Fondo monetario internazionale: il Global Financial Stability Report di questo mese nota che ogni crollo del 20% del prezzo di Borsa degli istituti provoca in media un calo del 4% dei livelli del credito all’economia, perché le banche si arroccano e si concentrano sui propri problemi interni.
Nell’area euro e ancora di più Italia, sta accadendo. Il crollo dei titoli bancari in Borsa scoraggia i nuovi investitori, tiene lontani i capitali freschi di cui ci sarebbe bisogno, raziona il credito e rallenta la ripresa. Da inizio anno l’indice bancario del Ftse Mib di Milano è in calo del 48,5%, quello dell’Eurostoxx banche del 24,9%. Una caduta di queste dimensioni, per l’Fmi, minaccia di ostacolare i prestiti all’economia per almeno tre anni se non ci saranno rimbalzi.
È su questo sfondo che la situazione del sistema bancario oggi in Italia si confronta con quella di altri Paesi colpiti da sindromi simili nel passato recente. Ad eccezione di poche aziende dai bilanci solidi e più agili – fra le maggiori, Intesa Sanpaolo – alcuni dati vitali nella media dell’industria oggi sono più deteriorati di quanto fossero in altri Paesi alla vigilia di grossi salvataggi pubblici. I crediti in difficoltà in Italia sono il 18% del totale, contro il picco del 9% in Spagna nel 2013. Quelli in default erano all’11% del Pil in Svezia nel 1993, prima di un colossale intervento del governo, mentre in Italia sono già saliti oltre il 12%. E la Finlandia aveva il 9,3% di crediti in default nel 1992, prima di un salvataggio pari al 10% del Pil, mentre l’Italia è già sopra quei livelli senza che nulla del genere accada.
L’elenco potrebbe continuare, ma non cambia la sostanza: senza un intervento di sistema, il credito in Italia rimarrà paralizzato a lungo anche se non esplodessero nuovi dissesti. I vincoli europei restano difficili da navigare come prima; ma passato il referendum del 4 dicembre, chiunque vinca, tornare a chiedersi come affrontarli sarà inevitabile.






PIU’ DEL “NO” AL REFERENDUM, I MERCATI TEMONO LE SOFFERENZE BANCARIE - OGGI ASSEMBLEA MONTEPASCHI - UNICO ELEMENTO CERTO DELL’AUMENTO DI CAPITALE IL RICATTO VERSO I RISPARMIATORI: O CONVERTITE BOND SUBORDINATI O SIENA FALLISCE - LA UE CI RIPENSA E STUDIA NUOVE REGOLE BANCARIE
Luca Mazza per il Giornale

L’ allarme viene lanciato proprio quando diversi protagonisti del settore creditizio si apprestano a vivere (da qui a fine anno) una fase cruciale per il loro futuro. Perché in caso di vittoria del No al referendum del 4 dicembre, se da una parte non si prevedono catastrofi sui mercati grazie alla rete di protezione della Bce - ma al massimo un po’ di turbolenza -, Standard & Poor’ s mette in guardia, invece, dal rischio di un rallentamento nella risoluzione di quello che gli operatori di Borsa considerano il problema principale dell’ Italia: le sofferenze bancarie.

Jean-Michel Six, capo economista per Europa e area mediterranea dell’ agenzia di rating statunitense, sottolinea come la preoccupazione numero uno sia lo stato di salute delle banche. E, nello specifico, «la situazione dei Non performing loans » (Npl). Entrando ancora di più nel dettaglio di questo timore, l’ economista spiega che, se il piano di riforme del governo non ottenesse il via libera dal voto dei cittadini, «probabilmente rallenterebbe» lo scioglimento del nodo ’crediti deteriorati’, «perché l’ attenzione si sposterebbe sulle questioni politiche più che su quelle finanziarie ».

A proposito di banche, è arrivata la giornata chiave di Mps, che ipotizza di far partire l’ aumento di capitale in linea di massima tra il 7 e l’ 8 dicembre, quindi dopo il referendum. Così come Unicredit presenterà il suo piano industriale il 13 dicembre. Prima però gli azionisti della banca senese sono chiamati a votare oggi il piano da 5 miliardi di ricapitalizzazione, un passo necessario ad evitare la risoluzione della banca.

Superato sul filo di lana il quorum del 20% per dichiarare valida l’ assemblea, Mps si aspetta un’ adesione all’ offerta di conversione volontaria dei bond subordinati in azioni per un valore nominale di 1.057 milioni di euro, pari al 25% circa del valore nominale (4.289 milioni) delle obbligazioni destinatarie della proposta. Un quota decisamente bassa, se si pensa al ’pressing-ricatto’ della banca. Che per chi non accetta la proposta, come unica alternativa, paventa il bail-in. Smentita, infine, l’ ipotesi di un eventuale ’piano B’ in caso di fallimento del progetto che si sta cercando di portare a termine.

Giochi già fatti, invece, per Bpm e Banco Popolare, visto che una doppia assemblea del 15 ottobre ha approvato la fusione. Tuttavia, un ampio articolo del Sole 24 Ore mette in dubbio la trasparenza dell’ iter per l’ ok al matrimonio e ipotizza che un’ ispezione Bce avrebbe rilevato preliminarmente problemi di sottocopertura degli Npl. Ma tale ricostruzione viene smentita seccamente da entrambi gli istituti, che sono usciti allo scoperto per ribadire la «piena correttezza» e la linearità della procedura con cui si è andati avanti. In seguito ai più recenti contatti con le autorità di vigilanza, si legge nel comunicato di Bpm, «non sono emerse richieste di modifica del piano industriale, le cui assunzioni e previsioni anche in tema di ammontare di crediti in sofferenza e delle relative coperture restano quindi sostanzialmente confermate».

Intanto anche Bruxelles si muove sul versante banche. La Commissione europea ha proposto ieri un ampio pacchetto di nuove norme per migliorare la solidità degli istituti basato sulle esigenze definite dai regolatori globali, ma con alcuni aggiustamenti in virtù «della specificità del settore bancario dell’ Ue». Provvedimenti che, per l’ Abi, rischiano però di produrre un ulteriore inasprimento del capitale e degli obblighi per le banche in un momento in cui la ripresa è ancora fragile e il contesto internazionale incerto.







1. IL BANCHIERE PROTAGONISTA DI ‘THE BIG SHORT’ STA SCOMMETTENDO CONTRO LE BANCHE ITALIANE: ‘SONO ZEPPE DI CREDITI MARCI, MA FANNO FINTA CHE VALGANO IL DOPPIO’
2. STEVE EISMAN AVEVA PREDETTO LA GRANDE CRISI DEL 2007-08, E SI È ARRICCHITO VENDENDO ALLO SCOPERTO I TITOLI DELLE BANCHE DI WALL STREET CHE SPACCIAVANO MUTUI SUBPRIME
3. NON FA NOMI, MA FA CAPIRE CHE GLI ISTITUTI ITALIANI VIVONO IN UNA BOLLA: ‘CREDITI DETERIORATI ISCRITTI A BILANCIO AL 45-50% DEL VALORE? MA QUANDO MAI! CHI LI HA VISTI È DISPOSTO A PAGARE AL MASSIMO IL 20%. MA SE CORREGGONO I BILANCI, FANNO CRAC’
4. IL FONDO ATLANTE DOVEVA COMPRARE QUESTI CREDITI A VALORI FUORI MERCATO, SALVANDO LE CHIAPPE DEL SISTEMA BANCARIO. PER ORA SI E’ SOLO ACCOLLATO DUE BIDONI VENETI
5. L’ARRIVO DI TRUMP? ’UN BRIVIDO PER I MERCATI. LE BANCHE AMERICANE SPERANO DI AVERE MENO REGOLE. E IL CROLLO DEI TITOLI DI STATO E’ UN ALTRO COLPO ALLE BANCHE EUROPEE’

In ‘The Big Short - La Grande Scommessa’, il film che ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, Steve Carell interpreta l’outsider di Wall Street che predice il crash finanziario del 2007-08, e grazie al suo intuito si arricchisce immensamente (si parla di una plusvalenza da un miliardo di dollari). Si rende conto che i mutui subprime che hanno un rating da tripla ‘A’ in realtà sono monnezza, e scommette miliardi contro le banche che li possedevano.

Quell’uomo nella vita reale si chiama Steve Esiman, lavora ancora nella finanza, e si dedica tuttora a vendere allo scoperto le azioni che crede stiano per precipitare. Oggi dà un’intervista al ‘Guardian’ nella quale non rivela quali siano gli istituti messi peggio – per quello bisogna avere almeno un milione di dollari e affidarsi a lui per gestire il proprio patrimonio – ma rivela che il suo obiettivo è uno, molto chiaro: le banche dell’Europa continentale, e in particolare quelle italiane.

Secondo Eisman, le nostre banche sono zeppe di crediti marci (NPL - Non Performing Loans), ma non li hanno ancora ‘spurgati’ dai loro bilanci, dichiarando perdite o minusvalenze miliardarie. No, quei crediti sono ancora nei conti, iscritti a bilancio con un valore tra il 45 e il 50% di quello originario.

Il grosso problema, spiega il finanziere al quotidiano inglese, è che non valgono affatto quelle somme. Quando le società di investimento adocchiano questi NPL per comprarli e si avvicinano alle banche italiane per capire quanti siano realmente in grado di essere ripagati, si rendono conto che il valore reale si aggira intorno al 20%. In parole povere: per ogni 100 euro che gli istituti hanno prestato, ne riusciranno recuperare 20

Il dettaglio non insignificante è che se le banche facessero pulizia nei bilanci prendendo davvero atto di questa montagna di sofferenze, dovrebbero radere al suolo il loro capitale da un giorno all’altro, e dunque andare a gambe all’aria.

Eisman sta attento a non nominare nessuno in particolare, ma il nostro sistema bancario è appesantito da 360 miliardi di ‘bad debts’, e gli stress test dell’Autorità Bancaria Europea hanno mostrato tutte le debolezze del Monte dei Paschi di Siena, che è alle prese con un difficilissimo aumento di capitale, gestito (anche) dal ministero del Tesoro, azionista dell’istituto senese, che si è affidato ai consigli (interessati) di JpMorgan.

Come si è visto, non è facile piazzare questi NPL: il Fondo Atlante, che doveva occuparsi di rastrellarli a valori ben più alti di quelli di mercato – così salvando i suddetti bilanci disastrati – per ora si è dedicato soprattutto a salvare il corrotto sistema bancario veneto. E viene criticato perché i suoi manager si sono messi a fare ‘dumping’ (offrendo condizioni da urlo a chi porta i soldi nella Popolare di Vicenza) a danni di quelle stesse banche che lo hanno creato e si sono ‘tassate’ per capitalizzarlo.

Le autorità europee sono state troppo ‘accomodanti’ nei confronti delle banche europee, dice Eisman. Quelle americane, se prima della crisi avevano fatto un lavoro ‘orrendo’, dopo il crash si sono date una mossa, e grazie all’intervento della Fed è finita l’era dei mutui sub-prime venduti fraudolentemente ai consumatori. Per questo le banche d’Oltreoceano sono diventate ‘noiose’ come investimento, sebbene l’elezione di Trump abbia portato un brivido nei mercati: ‘Credo che ci potrà essere un ammorbidimento delle durissime regole imposte dall’amministrazione Obama nei confronti delle società finanziarie, in particolare sulla vendita dei loro prodotti al pubblico. L’aria è cambiata, a tutto vantaggio delle banche che vogliono approfittarsi dei clienti’.

L’arrivo di Donald alla Casa Bianca ha fatto precipitare il valore dei titoli di Stato, altra tegola per le banche europee, piene di Btp e Bund. Più cala il valore di questi ‘sovereign bonds’, più si restringe il capitale delle banche che li posseggono. ‘Nei paesi europei ormai le banche sono i maggiori detentori di questi titoli, e dunque sono le più esposte alle oscillazioni dei rendimenti’.

Cattive notizie riserva anche per Deutsche Bank, che rischia una multa da 14 miliardi per i suoi illeciti compiuti in America. La borsa ha scommesso sul titolo tedesco dopo l’elezione del candidato repubblicano, per un motivo molto prosaico: Deutsche Bank ha concesso negli anni enormi prestiti all’impero (di carta) di Donald Trump, e così l’azione è passata da 12,9 a 15,3 € nei tre giorni dopo la vittoria del puzzone newyorkese, puntando su una ‘clemenza’ da parte del nuovo governo.

Certo, scommettere contro Mps o Deutsche Bank può avere senso, ma diversamente dai giganti di Wall Street alla vigilia del crack di Lehman Brothers, queste due banche sono già ai loro valori minimi: il futuro incerto è già scritto nel prezzo, secondo il ‘Guardian’.





ALLARME ROSSO SOFFERENZE BANCARIE - QUELLE ITALIANE SONO IL DOPPIO DELLE SPAGNOLE E IL GOVERNO PENSA SOLO AL REFERENDUM - GLI ISTITUTI CALANO IN BORSA E CHIUDONO I RUBINETTI - RENZI E PADOAN INTERVENGONO O SONO CONCENTRATI SOLO SU MONTEPASCHI E BANCHE VENETE?

Federico Fubini per il Corriere della Sera
Da un anno il governo si occupa di banche nel modo in cui di solito si restaura un mosaico: pezzo dopo pezzo. Ci si concentra sui singoli tasselli man mano che minacciano di staccarsi. In qualche modo si cerca di disinnescare al meglio le emergenze una per una.

Un anno fa fu il momento di quattro piccole banche in dissesto in Italia centrale, in primavera Popolare di Vicenza e Veneto Banca furono salvate coagulando un decine di investitori privati nel fondo Atlante, in estate un piano di Jp Morgan ha quanto meno fatto guadagnare tempo al Monte dei Paschi e proprio ieri Atlante ha annunciato che comprerà crediti in default di Siena per una cifra fino a 1,6 miliardi.

Non è stata una scelta. L’ approccio caso per caso - tamponare ciascun incendio quando divampa - è stato subìto da tutti come una necessità dettata dalla carenza di altri mezzi. Se il governo avesse affrontato il problema in modo complessivo, intervenendo con un piano di aiuti pubblici per il sistema, le regole europee avrebbero imposto di colpire gli investitori e i depositi; gli effetti sarebbero stati destabilizzanti.

Questa settimana però, a un anno dall’ ingresso della fase acuta della crisi bancaria, la Banca d’ Italia è tornata a pubblicare il quadro del credito nel Paese e dei prestiti in default. Quei numeri obbligano a chiedersi se la strategia degli interventi puntuali ormai non abbia raggiunto i suoi limiti.

Ad agosto 2016 i crediti verso debitori insolventi pesano per il 10,4% del totale di quelli concessi, e per il 12,2% del reddito italiano di un anno. Nel frattempo lo stock di credito all’ economia ha continuato a scendere, giù di 26 miliardi dall’ inizio dell’ anno. Sembra un forte calo, eppure per contenerlo dev’ essere servito impegno da parte delle banche, a giudicare dalle ultime stime del Fondo monetario internazionale: il Global Financial Stability Report di questo mese nota che ogni crollo del 20% del prezzo di Borsa degli istituti provoca in media un calo del 4% dei livelli del credito all’ economia, perché le banche si arroccano e si concentrano sui propri problemi interni.

Nell’ area euro e ancora di più Italia, sta accadendo. Il crollo dei titoli bancari in Borsa scoraggia i nuovi investitori, tiene lontani i capitali freschi di cui ci sarebbe bisogno, raziona il credito e rallenta la ripresa. Da inizio anno l’ indice bancario del Ftse Mib di Milano è in calo del 48,5%, quello dell’ Eurostoxx banche del 24,9%. Una caduta di queste dimensioni, per l’ Fmi, minaccia di ostacolare i prestiti all’ economia per almeno tre anni se non ci saranno rimbalzi.

È su questo sfondo che la situazione del sistema bancario oggi in Italia si confronta con quella di altri Paesi colpiti da sindromi simili nel passato recente. Ad eccezione di poche aziende dai bilanci solidi e più agili - fra le maggiori, Intesa Sanpaolo - alcuni dati vitali nella media dell’ industria oggi sono più deteriorati di quanto fossero in altri Paesi alla vigilia di grossi salvataggi pubblici.

I crediti in difficoltà in Italia sono il 18% del totale, contro il picco del 9% in Spagna nel 2013. Quelli in default erano all’ 11% del Pil in Svezia nel 1993, prima di un colossale intervento del governo, mentre in Italia sono già saliti oltre il 12%. E la Finlandia aveva il 9,3% di crediti in default nel 1992, prima di un salvataggio pari al 10% del Pil, mentre l’ Italia è già sopra quei livelli senza che nulla del genere accada.

L’ elenco potrebbe continuare, ma non cambia la sostanza: senza un intervento di sistema, il credito in Italia rimarrà paralizzato a lungo anche se non esplodessero nuovi dissesti. I vincoli europei restano difficili da navigare come prima; ma passato il referendum del 4 dicembre, chiunque vinca, tornare a chiedersi come affrontarli sarà inevitabile.





E LE CHIAMANO GOOD BANK - HANNO FATTO FALLIRE 4 BANCHE (ETRURIA IN TESTA), LE HANNO RIPULITE, DIECI MESI FA LE HANNO PURE RICAPITALIZZATE CON 1,8 MILIARDI - ED ORA, A FRONTE DI UN PATRIMONIO DI 1,59 MILIARDI, SONO RIUSCITE A PRODURRE NUOVI CREDITI DETERIORATI PER 3,39 MILIARDI
Fabio Pavesi per Il Sole 24 ore

Sembrava un gioco da ragazzi, facile, facile. Prendi le 4 banche sull’orlo del crac, le ripulisci dalle sofferenze le chiami “banche buone” e pensi che trovare un compratore non sarà poi così difficile. E invece quello che sembrava un percorso tutto in discesa si è trasformato in affanno.

Prima un’asta che ha visto poche offerte, solo da fondi di private equity anglosassoni con prezzi rigettati al mittente perchè giudicati troppo bassi. Ora è in corso il rush finale e si sono palesati nuovi compratori. Ma tutti sanno che il nodo gordiano difficile da sciogliere è il prezzo, o meglio il valore.

Già quando valgono le 4 buone banche? Difficile dirlo, ma i numeri delle semestrali appena approvate aiutano a capire tutte le difficoltà a far incontrare domanda e offerta tale da non scontentare nessuno dei due. Ecco i numeri: il patrimonio ovviamente c’è: a giugno 2016 ammontava a 1,59 miliardi, ma la redditività è fortemente negativa e soprattutto sulle 4 banche gravano (nonostante la pulizia delle sofferenze) oggi 3,39 miliardi di crediti deteriorati, più del doppio del capitale e quasi il 20% del portafoglio prestiti.

È qui (redditività da ritrovare e prestiti malati alti) la chiave del rebus prezzo. Certo c’è un tasso di copertura degli Npl al 47% in linea con il mercato, ma da solo il dato pare non tranquillizzare del tutto i compratori possibili. Quella zavorra che vale due volte il capitale pur ben coperta avrà nuove perdite da conteggiare nei prossimi mesi.

Basti pensare che le rettifiche nette già operate sono state di 110 milioni, di fatto mangiando il 41% dei ricavi totali delle 4 banche. E c’è infine un altro tema spinoso. I costi operativi tuttora superano ampiamente i ricavi. Le 4 banche infatti hanno costi operativi pari a 300 milioni contro ricavi per 264 milioni.

Quando i costi sono il 136% del margine d’intermediazione è ovvio che si chiuda in perdita. E questo senza contare le rettifiche su sofferenze e incagli. Ecco perchè è difficile trovare un compratore che possa mettere sul piatto offerte in grado di soddisfare il venditore. Quel venditore è in realtà il sistema bancario che ha ricapitalizzato per 1,8 miliardi le 4 banche solo dieci mesi fa.

Possono valere quella cifra? Neanche per idea, dato che in media le stesse banche quotate italiane faticano a farsi prezzare più del 20-30% del loro capitale. Le 4 good banks con i numeri di bilancio che le rappresentano non possono essere valorizzate più di quel 20-30% delle loro consorelle che stanno sul mercato.

Il che significherà, a meno di incredibili tanto improbabili sorprese, che il sistema bancario in caso di vendita dovrà mettere in conto di perdere buon oltre un miliardo di quella ricapitalizzazione fatta solo pochi mesi fa. Con buona pace di chi pensava che le banche ripulite sarebbero state appetibili e in grado di restituire i soldi avuti dalle altre banche per il salvataggio .




BANCHE DA CODICE PENALE - FRODI, TRUFFE E BILANCI FALSI: ECCO LA CRONOLOGIA DI 25 ANNI DI CRIMINI COMMESSI ALLO SPORTELLO - UN DOCUMENTO ESPLOSIVO DELLA CASSAZIONE DEPOSITATO (E INSABBIATO) AL SENATO METTE IN FILA TUTTI I REATI DEGLI ISTITUTI NEI PRESTITI, NELLA VENDITA DI PRODOTTI FINANZIARI E NEI SERVIZI DI INVESTIMENTO - UN ALTO GRADO DI CONOSCENZA NON METTE AL RIPARO DA FREGATURE

Francesco De Dominicis per "Libero Quotidiano"

Chi cerca le ragioni del tracollo del sistema bancario italiano (col terzo gruppo del Paese, il Monte dei paschi di Siena, ormai al collasso) non può rinunciare alla lettura di un documento depositato la scorsa settimana al Senato da un alto magistrato, Luigi Orsi. Il quale è sostituto procuratore generale della Corte di cassazione e a palazzo Madama ha «denunciato» tutti i reati commessi dalle banche dal 1990 a oggi.

Dai prestiti agli investimenti fasulli, dai bond bidone ai mercati taroccati, dai bilanci falsi alle truffe finanziarie: è la storia di 25 anni di scandali e malefatte che hanno portato a dissesti di colossi bancari e di istituti minori, al fallimento di grandi e piccole aziende, a decine di migliaia di investitori e risparmiatori in ginocchio.

Quello di Orsi è una sorta di Bignami del codice penale applicato (o, meglio, calpestato) dagli istituti italiani. Un documento che, peraltro, arriva a gamba tesa mentre torna d’attualità l’idea di utilizzare denaro pubblico per i salvataggi delle banche in crisi, a cominciare proprio da Mps. Il governo di Matteo Renzi ci sta pensando seriamente: i contribuenti corrono il rischio di cacciare quattrini, con nuove tasse, per coprire i buchi di bilancio, conseguenze degli illeciti attribuibili ai banchieri.

Nelle carte della Cassazione non ci sono i nomi delle banche né dei manager coinvolti in singole vicende, ma non è complicato associare i casi di cronaca alle violazioni normative illustrate dal pg della Corte. Il menù è completo: le obbligazioni subordinate di Etruria, Marche, Chieti e Ferrara vendute a clienti non esperti; le bufale di Mps (e delle sue controllate) dello scorso decennio; i prestiti concessi solo a determinate condizioni (Veneto Banca); gli acquisti pilotati di azioni per alterare il valore di mercato dei titoli (Popolare di Vicenza); e, per andare un po’ più indietro con gli anni, i bond Cirio e Parmalat (protagonista era Capitalia), a testimonianza del fatto che la storia dei bancarottieri all’amatriciana viaggia di pari passo a quella dei dossier caldi degli istituti.

LE RAGIONI DELLA CRISI

Il mix micidiale di comportamenti criminali e illeciti sistematici squadernato dalla toga della Cassazione, ovviamente, non è la sola ragione dell’attuale crisi bancaria. Né si deve inciampare nella becera generalizzazione, sostenendo che tutti i banchieri rubano (le condanne, però, non sono mancate). Tuttavia, le difficoltà non possono essere motivate soltanto con la tempesta internazionale e la recessione. Che poi è la favoletta raccontata dagli esponenti del settore: dalla Banca d’Italia all’Abi, l’autocritica è sempre esercizio ostico.

Ma torniamo al rapporto della Cassazione. Il capitolo più corposo è quello sul credito: “sviste” su «bilanci falsi», acquisto di azioni della banca (è il caso degli istituti del Nord Est) con finanziamenti ad hoc, erogazione di denaro condizionata all’impiego di una fetta del prestito ad altro cliente in dissesto o vincolata alla prestazione di garanzia a supporto di un altro cliente sempre nei guai; rimborso di rate con obbligazioni emesse da un’impresa debitrice vendute dalla banca (Parmalat e Cirio), nascondendo i pericoli ai risparmiatori. In buona sostanza, Orsi chiarisce l’origine di una fetta delle sofferenze bancarie, vale a dire quei 200 miliardi di euro di prestiti non ripagati che affossano il settore.

Su questo versante, l’analisi del magistrato parte dai «reati connessi in sede di erogazione del credito». Il caso più frequente è quello in cui «il cliente debitore della banca venga dichiarato fallito e il giudice penale debba verificare se il debito sia stato assunto in circostanze pregiudizievoli per la massa dei creditori». Si tratta di una «casistica rilevante perché coinvolge i settori apicali della banca» e «riguarda operazione per importi cospicui».

IL CREDITO FASULLO

L’analisi entra poi nei dettagli con diversi tipi di crimine finanziario. Il primo caso è la «erogazione di credito condizionata all’acquisto di beni problematici della banca»: si concretizza quando un istituto appioppa a un’azienda cliente beni «non particolarmente appetibili» spesso «acquisiti a garanzia di crediti di altri soggetti» magari in ritardo con rate di prestiti.

Che fa la banca? Concede un prestito per far comprare magari un appartamento invendibile, il cui valore è inferiore al prezzo dichiarato. È la «bancarotta fraudolenta» (di cui risponde anche il banchiere con l’imprenditore) e lo è anche nel caso di prestiti vincolati «all’acquisto sul mercato borsistico di azioni emesse dalla banca»: la quotazione del titolo sale, ma non corrisponde al mercato. Di qui anche il reato di «manipolazione del mercato» e «aggiotaggio».

Sempre di bancarotta fraudolente si parla nell’ipotesi di finanziamenti concessi dietro un accordo segreto: chi riceve il credito lo «impiega in favore di un altro cliente della banca, insolvente». Il vantaggio per l’istituto sta nel nascondere alla Vigilanza una sofferenza: la manovra, in gergo, si chiama «cambio di cavallo». Che ha una variante, cioè quando l’impresa che chiede denaro poi lo utilizza per prestare garanzie a società decotte.

IL RISPARMIO TRADITO

A metà strada tra il credito e il risparmio tradito si posiziona il caso dei bond emessi da un’azienda mezza fallita col solo obiettivo di rimborsare un finanziamento. «Cirio, Parmalat e Finpart» ricorda la Cassazione: tutto questo era stato architettato attraverso emissioni «estero-vestite» in modo da «aggirare» i limiti imposti alle banche per collocare prodotti di aziende con le quali erano esposte.

E qui entriamo (anche) nel campo della «truffa». Risparmiatori e investitori, poi, sono vittime di «frodi nella comunicazione finanziaria», quando determinate informazioni vengono fraudolentemente sottaciute dalle banche ai loro clienti «ingannando il mercato». Qui scatta il «falso in bilancio».

Il documento svela pure il fenomeno degli «investimenti spinti allo sportello» con «consigli» che «hanno riguardato titoli estremamente rischiosi». Con le bufale il problema è individuare i colpevoli «all’interno delle complesse filiere organizzative delle banche».

Orsi non ha dubbi: i lavoratori bancari che piazzano la spazzatura ai risparmiatori non hanno colpe, gli ordini arrivano dall’alto. E «chi consiglia il prodotto allo sportello è scarsamente informato della sua rischiosità» racconta il procuratore. Sta di fatto che i vertici dell’azienda solitamente si dichiarano «estranei» e chi ha confezionato il «pacco» si trincera dietro le chinese wall, le muraglie cinesi che in teoria separano le diverse funzioni di un istituto.

LE FRODI FINANZIARIE
Come uscire dal labirinto? Lo scorso anno, quando sono stati azzerati in una notte i bond subordinati delle banche in default, 10mila risparmiatori hanno visto andare in fumo un miliardo. Il caso ha spinto le associazioni dei consumatori a riproporre l’istituzione di una Procura nazionale dedicata. Un appello che porta a galla un problema serio: i pochi mezzi a disposizione della magistratura nell’accertamento dei reati finanziari e della responsabilità penale dei banchieri.

Tant’è che Orsi parla di «armi spuntate» in mano ai giudici. Finisce che la colpa è dei clienti che si lasciano fregare. Su questo terreno, però, il magistrato smonta un mito: il basso livello di educazione finanziaria in Italia. È il mantra ripetuto dai banchieri per giustificare proprio il risparmio tradito e per lavarsi le mani dei clienti che perdono soldi in investimenti ad altissimo rischio.

Scrive il procuratore: «Una pure accettabile cultura finanziaria, ove fosse mai posseduta da investitori non professionali, non eliderebbe il rischio di incorrere nelle frodi montate ad arte». Che tradotto vuol dire: si può studiare la finanza anche ad alti livelli, ma se la banca vuole imbrogliare non c’è manuale che metta al riparo dalle fregature.

C’è da dire che l’esplosiva analisi di Orsi non ha suscitato reazioni fra i senatori che lo hanno ascoltato il 15 settembre né fra gli altri parlamentari che pure accedono agli atti ufficiali consegnati nelle commissioni. L’audizione è stata seguita da un eloquente mutismo: forse perché alle frodi e agli illeciti bancari spesso non sono estranei gli stessi politici.





BANK VERY BAD - UNICREDIT APRE LE PORTE DELLA DISCARICA PUBBLICA DELLE SOFFERENZE: CEDERA’ 20 MILIARDI DI CREDITI MARCI UTILIZZANDO LE GARANZIE STATALI, NECESSARIE A RIPULIRE I BILANCI - BANKITALIA SI SVEGLIA E SFORBICIA I PREMI DESTINATI AI LAVORATORI BANCARI SUI FINANZIAMENTI CONCESSI ALLO SPORTELLO

Francesco De Dominicis per "Libero Quotidiano"

Unicredit cede alla tentazione della garanzia di Stato per ripulire i bilanci dai crediti in sofferenza. La seconda banca italiana, guidata dal francese Jean-Pierre Mustier, dovrebbe liberarsi di finanziamenti non rimborsati per un ammontare complessivo di 20 miliardi di euro: la vendita sarebbe dunque supportata dalle Gacs (Garanzie cartolarizzazione sofferenze), strumento messo a disposizione dal Tesoro e non considerato aiuto di Stato.

Un’opzione, quella della garanzia pubblica, ignorata (salvo poche eccezioni) a lungo dagli istituti di credito del nostro Paese. Finora solo la Popolare di Bari aveva usato le Gacs nell’ambito di un’operazione da 500 milioni. Ma con le sofferenze, stabilmente sopra quota 200 miliardi che zavorrano i conti del settore bancario, è arrivato il dietro front: ora il sostegno del Tesoro piace. Tant’è che anche il Monte dei paschi di Siena si muove nella stessa direzione. Prende corpo, così, la gigantesca discarica pubblica per la spazzatura delle banche (bad bank).

In attesa dei dettagli sulla manovra da parte di Unicredit, ieri il titolo a piazza Affari ha chiuso in rialzo del 3,2% a 2,25 euro. A rendere la giornata sui listini positiva per l’istituto di piazza Gae Aulenti ha contribuito l’indiscrezione sulla fusione tra la controllata Pioneer ed Eurizon (IntesaSanpaolo).

L’affare piace agli analisti: per quelli di banca Akros il matrimonio «avrebbe senso» nonostante alcune questioni da risolvere prima, mentre Mediobanca e Icbpi hanno sottolineato che l’aggregazione imita la combinazione tra SocGen e Credit Agricole. Tutto questo mentre la stessa Unicredit procede con le dismissioni (Fineco e Pekao) con l’obiettivo di fare cassa e far salire i parametri osservati dalla vigilanza della Bce.

Frattanto, la Banca d’Italia dà un giro di vite ai premi che gli istituti riconoscono per l’erogazione di nuovi finanziamenti. La stretta - che rientra in un’ampia revisione normativa, anche sulla trasparenza nei confronti della clientela, su mutui e prestiti - può contribuire a risolvere, in via strutturale, il nodo delle sofferenze, aumentate, in questi ultimi anni, proprio a causa di finanziamenti concessi con valutazioni non di rado superficiali. Non a caso, Bankitalia corregge anche le procedure per la valutazione del merito creditizio.

Via Nazionale mira a garantire che le «politiche di remunerazione» delle banche siano «ispirate a criteri di correttezza nelle relazioni con la clientela e che non si basino esclusivamente su obiettivi commerciali né costituiscano un incentivo a commercializzare prodotti non adeguati rispetto alle esigenze finanziarie dei clienti». Il provvedimento entra in vigore a fine settembre. I tempi sono stretti e la tabella di marcia tradisce una certa urgenza. Tuttavia, se, da un lato, la mossa di Bankitalia ha il merito di migliorare il quadro regolatorio, dall’altro appare ancora una volta come un intervento un po’ tardivo: le stalle si chiudono sempre quando i buoi sono già fuggiti.






Ma le banche non sono finite gambe all’aria soprattutto perché hanno prestato soldi a chi non era in grado di pagare?

«Sì, certo, ma bisogna decidersi. Sono sicuro che il suo giornale per anni ha accusato le banche di non prestare soldi alle famiglie e agli imprenditori e di soffocare l’economia».

Il problema è però a chi si presta. L’accusa è che molte banche abbiano finanziato imprese per fare favori ai politici locali e garantire loro il consenso: è accaduto questo?

«È senz’altro capitato che le banche sul territorio abbiano svolto talvolta e in parte una funzione di ammortizzatore sociale, sostenendo economie e aziende che andavano male per salvaguardare posti di lavoro. Anche molte sofferenze di Mps sono dovute a finanziamenti a piccole e medie imprese mai restituiti».

Lo trova giusto?

«Se finanzi un’impresa decotta, sbagli; se mandi sul lastrico un tuo cliente che potrebbe farcela e magari dà lavoro ai tuoi correntisti, sbagli. Sono decisioni difficili: il cittadino non vuole che la banca butti via i suoi soldi, ma poi se la banca fa chiudere l’azienda dove lavora suo figlio si lamenta. Con i soldi siamo tutti un po’ irrazionali. Perfino ai tedeschi capita di esserlo».







BANCHE ITALIANE, CHE SOFFERENZA! LA FEDERAL RESERVE BOCCIA I NOSTRI ISTITUTI DI CREDITO: “SONO MESSI SOTTO PRESSIONE DALLA PREVISIONE DEL PEGGIORAMENTO DELL’ECONOMIA ITALIANA, I BASSI MARGINI SUI TASSI E LE PREOCCUPAZIONI SULLA QUALITÀ DEI LORO PORTAFOGLIO CREDITI” - UNICREDIT KO

Ugo Bertone per “Liberoquotidiano”

«Nel corso del dibattito sulla stabilità finanziaria si è preso atto che, sebbene la posizione delle banche Usa sia solida, le banche europee, soprattutto quelle italiane - come dimostra il brusco declino delle quotazioni - sono messe sotto pressione dalla previsione del peggioramento dell’ economia, i bassi margini sui tassi e le preoccupazioni sulla qualità dei loro portafoglio crediti».

Questo si legge nei verbali della Fed pubblicati mercoledì sera (ora italiana). E non è difficile collegare il ritorno delle vendite, violentissime, di ieri sui titoli delle banche italiane, ai timori ventilati dalla Fed: niente che le Borse già non conoscessero, ma fa impressione vedere che l’ Italia torna a essere evocata come un rischio per «la stabilità finanziaria». E a rincarare la dose sono arrivati giovedì i verbali della Bce che, senza citare l’ Italia, hanno comunque sottolineato che sulle banche incombe ancora l’ allarme rosso: gli stress test, insomma, hanno creato scompiglio ma senza fornire certezze sulle banche.

E così i mercati hanno presentato il conto: Piazza Affari, la Borsa peggiore, ha lasciato sul terreno il 2,2% circa, ma le aziende di credito hanno perso più del 4%, tre volte tanto il resto d’ Europa. Sotto tiro in particolare Unicredit, più volte sospesa al ribasso prima di chiudere con un calo del 6% abbondante.

A questi livelli, l’ istituto rischia di uscire dal paniere dello Stoxx 50, la serie A della maggiori società europee. Per giunta, la revisione del paniere a fine agosto potrebbe decretare anche la retrocessione delle Generali. La finanza italiana, con l’ eccezione di Intesa, rischia di finire in B.

La bufera su Unicredit, colpevole di non aver ancora comunicato le prossime mosse per rafforzare il capitale, non è infatti isolata. Perdite pesanti anche per Intesa (-3,8%) mentre Ubi, Bper, Banco Popolare e Bpm, promossi a pieni voti agli stress test, arretrano del 4% e più. Perde poco più del 2% Mps, già sotto tiro per le indagini su Alessandro Profumo e Fabrizio Viola.

La banca di Siena è parzialmente protetta dal divieto di vendita allo scoperto che intralcia le manovre della speculazione. Ma la frana è ormai cosa fatta: non sarà facile raccogliere 5 miliardi di nuovo capitale per una banca che a questi prezzi vale in Borsa 670 milioni.

C’ è da domandarsi, a questo punto, chi abbia ragione: chi sostiene (ministro dell’ Economia Padoan in testa) che le banche italiane sono solide o gli investitori internazionali che annusano aria di mattanza ai danni di un sistema già stremato per l’ aiuto fornito alle banche venete e per il prossimo intervento di Atlante 2 sulle sofferenze di Mps. Gli ottimisti hanno buoni argomenti. La crisi, innanzitutto, non è solo italiana.

Anzi. A togliere il sonno ai vigilanti europei è Deutsche Bank (-3,7%) su cui incombe una montagna di derivati, ma non vanno meglio i colossi francesi o svizzeri. Inoltre, è fuori discussione che le banche nostrane, a forza di iniezioni di capitale e pulizia nei conti, sono oggi più presentabili del 2011-12.

Ma non mancano i segnali d’ allarme. Oggi, a differenza di 5 anni fa, il sistema può contare sull’ ombrello Bce che protegge i titoli di Stato. Per questo, la speculazione ha dirottato le sue energie sui titoli delle banche che detengono il 40% circa dello stock del debito di casa nostra. Inoltre, rispetto ai concorrenti europei sui bilanci delle banche italiane gravano 190 miliardi di crediti in sofferenza, il 17% dei prestiti in essere, contro il 3-5% di Francia e Germania. E l’ economia non riparte, come ha mostrato il dato sul Pil del secondo trimestre, inchiodato a zero.

A questo si aggiunge l’ incertezza politica, l’ ingrediente più sgradito ai mercati che hanno già armato il proprio arsenale: i contratti di opzione collegati alle vendite sulle banche italiane sono ai massimi dal 2013, come ha rilevato Bloomberg. E, come dimostra il ribasso di ieri, la speculazione sta già passando all’ incasso.





IL PESCE PUZZA SEMPRE DALLA TESTA (PURE NELLE BANCHE) - MA A CHI HANNO PRESTATO DENARO IN QUESTI ANNI PER AVERE COSI’ TANTE SOFFERENZE? INDUSTRIALI E COSTRUTTORI I PEGGIORI CLIENTI: NON RIMBORSANO I PRESTITI - TANTO PAGANO RISPARMIATORI E DIPENDENTI: NEI PROSSIMI 5 ANNI TAGLIO DI ALTRI 16MILA BANCARI

Ugo Bertone per “Libero quotidiano”

Guadagnano di meno (profitti in calo del 46%), ma si apprestano a tagliare di più: fino a 16 mila posti di lavoro nei prossimi cinque anni (oltre ai 12 mila già persi, secondo la Fabi, il sindacato dei bancari). Nonostante i capitali (non meno di 30 miliardi secondo i primi calcoli) che saranno necessari per rimettere in carreggiata banche comunque deboli, nonostante i 9 miliardi già investiti negli istituti più a rischio. E ad assorbire (tanto) capitale.

Una sola voce non cambia nel panorama disastrato del credito di casa nostra: l’ ammontare delle sofferenze che, più minacciose di un iceberg, incombono sull’ economia italiana. Dal supplemento al Bollettino statistico su moneta e banche di Banca d’ Italia emerge che i crediti a rischio che pesano sulle banche italiane sono scesi a giugno a 197,9 miliardi, contro i 200 miliardi di maggio.

A livello netto le sofferenze sono passate a 83,708 miliardi dagli 84,948 del mese precedente. Negli ultimi 12 mesi il tasso di crescita delle sofferenze è stato pari all’ 1,1%, in frenata rispetto al 3,2% precedente. Un miglioramento, piccolo piccolo, c’ è stato.

Ma non ci vuole molto a capire che, di questo passo, ci vorrà almeno un secolo per smaltire gli effetti dei prestiti concessi in passato, per lo più negli anni che hanno preceduto la crisi. Perciò prepariamoci alla «cura dimagrante» attraverso gli acquisti dei non performing loans e i successivi, inevitabili, aumenti di capitale a carico delle banche scottate.

Ovvero dei loro azionisti e obbligazionisti del tutto incolpevoli per gli errori di giudizio dei banchieri che in passato hanno prestato quattrini (non loro) senza la necessaria prudenza.

C’ è da chiedersi, a questo punto, a chi fanno capo i 200 miliardi, euro più euro meno, che sono sfumati in questi anni.

Certo, come fanno notare i banchieri, buona parte della responsabilità tocca alla crisi. Nel 2008, infatti, le sofferenze ammontavano a soli 43 miliardi, meno di un quinto del macigno che pesa sui conti. Da allora l’ economia italiana ha perduto più di un quarto della sua capacità produttiva. Non c’ è da stupirsi, è il ragionamento, se la cattiva congiuntura ha contagiato immobili, attività industriali e ogni altro tipo di garanzia.

Vero, anche se, come sempre, le statistiche non raccontano tutto. Un’ indagine di Price Waterhouse Cooper (Pwc) ha rilevato che l’ 82% delle sofferenze è legata ai prestiti (non restituiti) alle aziende. Non solo. A differenza di quanto si possa pensare sono i grandi, e non i piccoli, a ritardare la restituzione: 141,4 miliardi, secondo uno studio di Unimpresa, «sono relativi a finanziamenti oltre il mezzo milione di euro erogati ad appena 32.608 soggetti».

Ovvero poco più di 30 mila debitori rappresentano il 70% del problema che paralizza l’ economia di casa nostra. E tra costoro figurano in prima fila immobiliaristi e costruttori, in prima fila i protagonisti di tante scorrerie e speculazioni rese possibili da giri di favori, sia a livello nazionale che, non meno spesso, tra notabili locali.

Secondo Il Bollettino di via Nazionale a giugno il settore costruzioni accusava sofferenze per 40,161 miliardi, davanti a poco più di 20 miliardi delle attività immobiliari e i 23 miliardi del commercio. Industria ed agricoltura devono poco più di 36 miliardi per un quarto da imputare a «metallurgia e lavorazione di minerali non metallici» (vedi il comparto della siderurgia).

In sintesi, le sofferenze non dipendono da una sola grande crisi (come accade per la cantieristica tedesca) ma sono comunque il frutto di prestiti a «pesci grossi», spesso privilegiati o costretti (vedi quel che è successo a Vicenza o a Veneto Banca) dalle banche a investire parte del credito in azioni degli istituti.

Oggi i nodi arrivano al pettine. E a pagare il prezzo saranno dipendenti, clienti onesti e profittevoli e risparmiatori che, nonostante tutto, resistono: a giugno, mese degli stress test, i depositi sono saliti del 3,4%.



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Ancora una volta la stampa finanziaria internazionale è unanime nel ritenere che le banche italiane siano l’anello più debole del sistema-Europa, specie adesso che a Roma il grado di incertezza politica è tornato rapidamente a crescere. Perché in caso di vittoria del No al referendum del 4 dicembre, se da una parte non si prevedono catastrofi sui mercati grazie alla rete di protezione della Bce – ma al massimo un po’ di turbolenza –, Standard & Poor’s mette in guardia, invece, dal rischio di un rallentamento nella risoluzione di quello che gli operatori di Borsa considerano il problema principale dell’ Italia: le sofferenze bancarie. Entrando un po’ più nel dettaglio di questo timore, l’agenzia di rating statunistense spiega che, se il piano di riforme del governo non ottenesse il via libera dal voto dei cittadini, «probabilmente rallenterebbe» lo scioglimento del nodo crediti deteriorati, «perché l’attenzione si sposterebbe sulle questioni politiche più che su quelle finanziarie». E un nuovo allarme viene lanciato non a caso proprio quando diversi protagonisti del settore creditizio (Mps e Unicredit su tutti) si apprestano a vivere (da qui a fine anno) una fase cruciale per il loro futuro, con operazioni jumbo che richiedono spalle molto larghe dal lato degli acquirenti, oppure la creazione di consorzi con complessità operative mai affrontate prima.

NPL In pancia alle banche italiane, la cosa è risaputa, ci sono circa 350 miliardi di prestiti traballanti, tecnicamente crediti deteriorati ma che da qualche tempo abbiamo tutti cominciato a chiamare npl (dall’inglese non performing loans, prestiti non performanti). Prima di vedere a che punto stanno e verso quali scenari ci stanno portando facciamo un breve ma essenziale ripasso. Npl sono tutti quei crediti delle banche (debiti per gli altri soggetti) per i quali la riscossione è incerta in termini di rispetto delle scadenze e, più in generale, di effettivo recupero dell’intero capitale. I crediti deteriorati si classificano in varie categorie in base al rischio di insolvenza: le principali sono gli incagli e le sofferenze. Le sofferenze sono quei crediti la cui riscossione non è certa (per le banche che hanno erogato il finanziamento) perché i soggetti debitori si trovano in stato d’insolvenza o in situazioni sostanzialmente equiparabili. Gli incagliati rappresentano delle esposizioni di credito nei confronti di soggetti in situazione di difficoltà obiettiva ma, si spera, temporanea. A differenza delle sofferenze pertanto gli incagli sono dei crediti che in un congruo periodo di tempo si suppongono recuperabili. In una scala del rischio quindi gli incagli si pongono un gradino al di sotto delle sofferenze e richiedono pertanto accantonamenti inferiori nelle riserve contro il rischio.

ACCANTONAMENTI I crediti che le banche ritengono infine inesigibili (il caso tipico è quello di una società messa in liquidazione) devono essere cancellati dal bilancio. Detta semplicemente gli istituti devono coprire di tasca propria tutte le posizioni creditizie che per qualche motivo, parzialmente o in toto, non sono più rientrate. Se nel mentre che le posizioni si deteriorano la banca è stata previdente ed ha accantonato i soldi nel fondo rischi non ci sono problemi, fa parte del gioco. Il problema è quando cominciano a deteriorarsi una percentuale sempre più alta di prestiti. E il problema si fa ancora più grave se cominciano a deteriorarsi sempre più prestiti proprio quando si riducono gli utili delle banche. E il problema infine esplode quando senza utili e con percentuali altissime di accantonamenti, anche i patrimoni delle banche si riducono facendo crollare la diga dei prestiti andati a male che siedono sui loro bilanci. Ed è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi.

Cerchiamo di capire meglio come si copre un credito deteriorato. Dicevamo che queste posizioni in perdita devono essere integralmente coperte dalle aziende di credito, come? Possono essere risolte direttamente rivalendosi su una garanzia reale (come nel caso dell’ipoteca per i mutui) o personale (come nel caso dei prestiti assistiti da garanti) oppure se non sono presenti garanzie facendo con il debitore un compromesso per avere indietro almeno una parte del prestito (come il saldo e stralcio) oppure infine accettando di perdere tutta l’esposizione rimasta (come nel caso dei fallimenti). In quest’ultimo caso, e in quelli precedenti per la differenza tra ciò che si è ottenuto e ciò che si doveva avere, si registra una perdita. Che può essere coperta dagli accontonamenti (se per quel credito erano stati fatti), dagli utili (se quell’azienda li ha fatti) o dal proprio patrimonio. C’è anche un’altra possibilità: che il credito deteriorato possa venir ceduto a prezzi di saldo, solitamente lotti numerosi, a fronte di pagamenti cash, a società che ne diventano proprietarie e si ingegnano per recuperare dai debitori almeno qualcosa in più rispetto al prezzo a cui l’hanno comprato (le modalità di riscossione, sicuramente più aggressive, da parte di questi istituti specializzati rischieranno di guastare il sonno a parecchi debitori insolvente, che fin qui hanno goduto di un atteggiamento più tollerante da parte delle banche. I prezzi a cui vendere gli Npl variano ovviamente dal tipo di Npl: se è un mutuo c’è un’ipoteca per cui si dovrebbe riuscire a riprendere qualcosa e allora il prezzo a cui la banca lo cede sarà senz’altro più alto rispetto a quanto riuscirà a cedere un prestito fatto senza garanzie ad una srl che ha appena portato i libri in tribunale.

Le quasi 700 banche italiane in questi anni non sono state a guardare e ogni anno hanno messo da parte quattrini per affrontare la botta. Vediamo i numeri nel dettaglio. Dei 350 miliardi di euro di npl le sofferenze sono circa 200 miliardi e circa 150 miliardi circa incagli (che, non dimentichiamoci, a loro volta potrebbero diventare sofferenze). Soffermandosi solo sui 200 miliardi attuali, più della metà delle sofferenze sono assistiti da coperture, cioè le bache hanno già messo da parte i soldi necessari per cancellarli dal bilancio una volta che saranno definitivamente dichiarati enesigibili. Senza nessuna copertura ce ne sono 85 miliardi. Detta in un’altra maniera i 200 miliardi di sofferenze hanno coperture medie per il 57,5%. E’ dunque il restante 32,5%, gli 85 miliardi, è il vero buco nero del nostro sistema creditizio. Questa è la cifra da tenere a mente. Una cifra che, per dare un termine di paragone, corrisponde a circa 5 Finanziarie (adesso si chiamano Legge di Stabilità), ovvero 5 anni di politica economica dello stato italiano.

Il problema è emerso drammaticamente quando da Francoforte la Bce ha chiesto (e non ha iniziato la frase con "per favore") alle nostre banche di fare pulizia velocemente, cioè praticamente di coprire in fretta anche i restanti 85 miliardi. Solo che queste richieste sono arrivate già dopo anni di sanguinosi accantonamenti che hanno ridotto gli utili degli istituti di credito al lumicino e in un periodo in cui la redditività delle banche, lo abbiamo detto tante volte, a causa della crisi delle politiche monetarie e delle gestioni allegre di tanti consigli di amministrazione, è azzerata. Come si fa dunque ad accantonare, a mettere da parte quattrini senza averli? A tutti è venuta in mente la medesima grande idea: vendiamoli questi benedetti npl! Ci sono delle società che, lo dicevamo, fanno questo di mestiere: comprano a prezzi di saldo crediti difficili e poi provano a riscuotere più di quanto li hanno pagati.

Ma come sempre l’urgenza costa cara. Il mercato conoscendo la burocrazia italiana e i tempi delle cause civili e dei contenziosi in materia fallimentare si è corso guardato bene da correre in massa a comprare i nostri npl e soprattutto si è detto disposto a pagarli non più del 20% del loro valore nominale. Quindi anche ammettendo che le banche italiane riescano a vendere sul mercato tutte le sofferenze che hanno in bilancio questo comunque non basterebbe a tappare il buco. I calcoli sono semplici: il 20% di 200 sono 40 miliardi. Per cui resterebbero 45 miliardi (85-40) che dovrebbero a questo punto diventare immediatamente perdita nel conto economico. Adesso, possono le banche italiane sopportare un rosso di 45 miliardi? No. È roba da libri in tribunale: né le più grandi, né le più piccole hanno le risorse per fare fronte così velocemente ad una pulizia di bilancio. Dunque il dettaglio non insignificante è che se le banche facessero pulizia nei bilanci prendendo davvero atto di questa montagna di sofferenze, dovrebbero radere al suolo il loro capitale da un giorno all’altro, e dunque andare a gambe all’aria.

Vie di scampo? Il governo e il sistema bancario italiano ne hanno messe in campo due. Il fondo Atlante che dovrà occuparsi di rastrellare npl a valori più alti di quelli di mercato. E le Gacs (Garanzie cartolarizzazione sofferenze), strumento messo a disposizione dal Tesoro e non considerato aiuto di Stato per aiutare le cartolarizzazioni. Cerchiamo di capirli entrambi facendo il caso più importante e complesso in cui, se tutto va bene, saranno coinvolti a breve: la cessione delle sofferenze di Mps. La banca senese ha in programma di cedere tutte le sue sofferenze all’interno di un piano di aumento di capitale da 5 miliardi. Il portafoglio degli Npl, dal valore nominale di circa 28 miliardi, sarà ceduto a una cifra intorno ai 9-10 miliardi al Fondo Atlante (quindi circa il 33% del loro valore nominale, molto di più di quello che era disposto a pagare il mercato), il veicolo salva-banche gestito dalla Quaestio Capital Management di Alessandro Penati, che ha scelto come consulente Credito Fondiario (Fonspa), una banca specializzata nell’acquisto e gestione di crediti in sofferenza di proprietà, in parte, del fondo speculativo Elliott.

Fonspa provvederà a impacchettare i prestiti in una cartolarizzazione, dividendola poi in tre tranche, praticamente tre emissioni obbligazionarie. La più sicura verrà coperta da una garanzia statale (Gacs) che la renderà simile a un titolo di Stato. Il “mezzanino” sarà tenuto dallo stesso Fondo Atlante, mentre la porzione più rischiosa, la tranche “junior” verrà distribuita agli azionisti. Il successo dell’operazione è legato alla capacità di recupero dei crediti sottostanti. Gli investitori, nelle cartolarizzazioni, ricevono infatti pagamenti esclusivamente sulla base del denaro recuperato. Per farlo, Quaestio si affiderà a ditte specializzate che agiranno da “servicer”, gestendo le pratiche con i debitori.

Uno dei rischi del progetto sta proprio nella scelta dei servicer. Quaestio intendeva inizialmente prendere un numero molto elevato di aziende per massimizzare la concorrenza, aumentando così l’efficienza del recupero e riducendo le commissioni. Il problema, però, è che non tutte le società hanno la stessa capacità. Ognuna di esse ha un determinato rating, che dipende da quanto fatto in passato. La stessa cartolarizzazione – in particolare, quanto grandi possono essere le tranche più sicure – dipende dai rating dei servicer. Poiché ci sono poche aziende capaci di dimostrare di aver fatto questo lavoro bene in passato, soprattutto su volumi grossi, Quaestio potrebbe essere costretta a ridurre il numero di società con cui lavorare.

Un’altra operazione su cui sono puntati gli occhi del settore riguarda Unicredit. La banca guidata da Jean-Pierre Mustier è in procinto di varare un aumento di capitale che potrebbe arrivare a 13 miliardi. Una parte importante di questo progetto riguarda lo scorporo di un portafoglio di crediti deteriorati, del valore nominale di circa 20 miliardi. Unicredit non sembra intenzionata a cedere l’intero pacchetto, perché questo la obbligherebbe a svalutare anche il resto dei crediti deteriorati a bilancio a seconda del prezzo di vendita. Piuttosto, l’idea sarebbe quella di far entrare un partner di minoranza con una quota di circa il 20-25 per cento. Italfondiario, di proprietà di Fortress, è favorita rispetto a altri operatori come Pimco ed Apollo.

A queste due operazioni se ne affiancano una serie di più piccole. Tra le più interessanti c’è quella che Carige ha condotto nelle scorse settimane, cedendo a Prelios un portafoglio da 900 milioni. L’intenzione del gruppo, di proprietà di azionisti come Intesa Sanpaolo, Uni-Credit e Pirelli, è quella di replicare uno schema già utilizzato con la Banca Popolare di Bari e che fa ampio uso della Gacs. La banca pugliese ha venduto un pacchetto di oltre 21.000 crediti deteriorati, estesi a 915 debitori per lo più residenti in Puglia, Calabria e Sicilia, a un prezzo di 150 milioni, a fronte di un valore nominale di 500 milioni. Il portafoglio, una volta cartolarizzato, è stato diviso in una tranche senior da 126,5 milioni, un mezzanino di 14 milioni e un segmento junior di 10 milioni. La banca ha poi deciso di riacquistare la parte più sicura che, grazie alla “Gacs” è considerata senza rischio e non consuma pertanto capitale.

Questo schema ingegnoso ha permesso alla banca di vendere i suoi crediti a un prezzo (31%) sensibilmente più alto rispetto a quello che era stato offerto prima della creazione della garanzia. Allo stesso tempo, l’operazione ha consentito alla banca di tenere praticamente gli stessi asset a libro, spostando tuttavia parte del rischio sul contribuente. Un attimo però, stop. Riavvolgiamo l’ultima parte del nastro.
[...]

Prende corpo, così, la gigantesca discarica pubblica per la spazzatura delle banche.



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I crediti deteriorati (conosciuti anche come prestiti non performanti o, in inglese, non performing loans) sono crediti delle banche (mutui, finanziamenti, prestiti) che i debitori non riescono più a ripagare regolarmente o del tutto. Si tratta in pratica di crediti delle banche (debiti per gli altri soggetti) per i quali la riscossione è incerta sia in termini di rispetto della scadenza sia per l’ammontare dell’esposizione di capitale. I non performing loans nel linguaggio bancario sono chiamati anche crediti deteriorati e si distinguono in varie categorie fra le quali le più importanti sono gli incagli e le sofferenze.

Queste posizioni in perdita devono essere integralmente coperte dalle aziende di credito, esse possono essere risolte direttamente o le posizioni possono venir cedute a prezzi di saldo, solitamente lotti numerosi a fronte di denaro liquido, a società che studiano la composizione del portafoglio e valutano le probabilità (centile) di riscossione dei crediti deteriorati sulla base delle informazioni commerciali dei soggetti debitori (fallimento, insolvenza senza fallimento, ritardo nei pagamenti) [1]


Nel caso delle banche il rapporto sofferenze/impieghi, ovvero fra crediti ritenuti inesigibili e prestiti totali concessi, è un indicatore di solvibilità patrimoniale fondamentale per la comunità finanziaria nel rating dei titoli bancari.

I crediti che le banche o altre imprese ritengono inesigibili devono essere cancellati dall’attivo di bilancio. Ciò da un lato riduce gli utili che emergono dal bilancio, ma evita anche di pagare tasse su entrate mancanti.

Si definiscono crediti in sofferenza quei crediti bancari la cui riscossione non è certa (per le banche e gli intermediari finanziari che hanno erogato il finanziamento) poiché i soggetti debitori si trovano in stato d’insolvenza (anche non accertato giudizialmente) o in situazioni sostanzialmente equiparabili.

Le banche e gli intermediari finanziari devono informare per iscritto il cliente e gli eventuali coobbligati (ad esempio i garanti) la prima volta che lo segnalano a "sofferenza". Si prescinde, pertanto, dall’esistenza di eventuali garanzie (reali o personali) poste a presidio dei crediti. Sono escluse le posizioni la cui situazione di anomalia sia riconducibile a profili attinenti al rischio-paese. La classificazione di un credito tra quelli in "sofferenza" implica una valutazione da parte dell’intermediario della situazione finanziaria del cliente che equipari il soggetto a uno stato di insolvenza. La “sofferenza” non va confusa con un semplice ritardo del cliente nei pagamenti all’intermediario, in quanto il ritardo nei pagamenti non è una condizione sufficiente per la segnalazione a "sofferenza" alla Centrale dei Rischi o nel bilancio dell’intermediario finanziario.

I crediti incagliati rappresentano delle esposizioni nei confronti di soggetti in situazione di difficoltà obiettiva, ma temporanea. A differenza delle sofferenze pertanto gli incagli rappresentano dei crediti che in un congruo periodo di tempo si suppongono recuperabili. In una scala del rischio dunque gli incagli si pongono un gradino al di sotto delle sofferenze e richiedono pertanto accantonamenti inferiori nelle riserve contro il rischio.

I crediti non preformanti possono essere classificati come:
Crediti in sofferenza;
Crediti incagliati;
Esposizioni ristrutturate;
Esposizioni scadute.




Ma può il fondo Atlante risolvere da solo il problema dei crediti deteriorati, i quali benché siano in calo valgono ancora come sofferenze lorde poco meno di 200 miliardi di euro (85 miliardi quelle nette contro 89 miliardi a fine 2015) e con un livello di copertura pari a circa il 58% contro il 50% nel 2013, collocandosi tra le prime posizioni in Europa. «Atlante ha risorse limitate e per questo ci aspettiamo che altri fondi italiani ed esteri possano scendere in campo per affiancarlo», ha commentato Fabrizio Pagani, capo della segretaria tecnica del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan a margine dello stesso convegno.


Diminuire i tempi delle cause civili e dei contenziosi in materia fallimentare, costituire il registro elettronico delle procedure e dei beni sottoposti a procedura concorsuale sono alcuni dei provvedimenti ricordati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha sottolineato come dai 5 milioni di cause civili davanti ai Tribunali quest’anno si è passati a 3 milioni e 800 mila. Una sfida per portare l’Italia su parametri europei a cui si aggiunge il piano di riordino dei Tribunali: «Per la prima volta dopo molti anni abbiamo bandito un concorso per 800 cancellieri, la sfida è aperta ce la possiamo fare».


La stampa finanziaria internazionale è unanime nel ritenere che il sistema bancario sia l’anello più debole del sistema-Italia, tornato in balia di un grado di incertezza politica rapidamente crescente.


Nel “Risk outlook” della Consob, si segnala infatti che nel primo semestre dell’anno le sofferenze delle otto maggiori banche quotate sono calate del 4%, mentre lo scorso anno erano ancora in crescita (vedi grafico qui sotto). Anche l’ammontare complessivo dei crediti deteriorati, per lo stesso campione di grandi banche, dopo il picco degli ultimi due anni, indica una leggera contrazione verso il basso, poco sotto i 240 miliardi di euro. In parte questo è dovuto alle cessioni di non performing loans che le banche italiane hanno iniziato a fare, in parte il fenomeno potrebe riflettere la stabilizzazione del mercato immobiliare.


Da segnalare poi che le imprese non finanziarie quotate a Piazza Affari, pur avendo registrato un primo semestre di fatturati in calo (-7% il dato aggregato), hanno notevolmente migliorato la capacità di onorare il debito. Se infatti lo scorso anno erano il 30% le aziende con leva elevata e difficoltà a coprire col cash flow generato gli oneri finanziari, quest’anno la percentuale è scesa al 20%.


In Borsa però, segnala sempre lo stesso rapporto Consob, queste prime indicazioni positive non sono ancora riflesse nelle quotazioni delle banche. In particolare, oltre al livello comunque ancora elevato dei crediti deteriorati, pesa la «debolezza della ripresa economica» e le aspettative reddituali del settore che sono le più basse in assoluto rispetto a quelle delle banche degli altri principali Paesi dell’eurozona (Germania, Francia e Spagna). E ancora, pesa l’esposizione verso il settore pubblico domestico che, tra prestiti alle amministrazioni pubbliche e titoli di Stato in portafoglio, raggiunge il 17% del totale dell’attivo delle banche contro il 12% delle banche spagnole e un peso ancora inferiore al 3% delle banche Uk.


In Italia, la cosa è risaputa, ci sono 350 miliardi di prestiti traballanti. La Banca Centrale Europea è lì con il fucile spianato rivolto al nostro sistema creditizio, proprio per questa montagna di quattrini che potrebbero non ritornare a casa.

Non sono tutti perduti. Quelli più a rischio, quelli che un tempo si chiamavano sofferenze e oggi Npl (non performing loans) si aggirano a quota 200 miliardi. Le banche non sono state ferme. Le quasi 700 banche italiane ogni anno hanno messo da parte quattrini per affrontare la botta. Per farla semplice, oggi 85 miliardi di prestiti non sono coperti dagli accantonamenti fatti dalle banche negli anni passati.

Questo è il vero buco nero del nostro sistema creditizio. Questa è la cifra da tenere a mente. A ciò si aggiunga che a Francoforte ci dicono di fare in fretta. Insomma si richiede alle nostre banche di fare pulizia, ma velocemente. Come sempre l’urgenza costa. E oggi il mercato, i fondi, si stima possano comprare questa merce al 20 per cento circa del loro valore. Il che vuole dire che su 200 miliardi di euro le banche potrebbero incassare, vendendo tutto ai fondi specializzati (ipotesi remota), circa 40 miliardi di euro. Il resto (la differenza tra 85 e 40) dovrebbe diventare perdita nel conto economico. Possono le banche italiane sopportare un rosso di 45 miliardi? No. È roba da libri in tribunale: né le più grandi, né le più piccole hanno le risorse per fare fronte così velocemente ad una pulizia di bilancio.

Comprare a 40 un portafoglio nominale di 200, può volere dire fare grandi affari.

Una via di scampo ci sarebbe. Ieri ad un incontro organizzato da Prelios, un’azienda che ora si occupa di mettere un po’ d’ordine nei crediti in sofferenza delle banche, sono uscite alcune idee che val la pena condividere. Facciamola semplice. Se le banche conoscessero davvero a chi hanno prestato i soldi potrebbero vendere a prezzi migliori. Una banca, per di più del sud, come la Popolare di Bari, ha venduto una bella fetta dei suoi prestiti compromessi al 31 per cento del loro valore.

Il direttore generale della Popolare di Bari ieri raccontava di come i software bancari neanche prevedano specifiche fondamentali per capire la qualità di un bene, come ad esempio il piano in cui è collocato. Talvolta si vendono crediti assistiti da appartamenti a prezzi ridicoli, senza considerare le pertinenze. Per il numero uno di Prelios, Riccardo Serrini, l’81 per cento della montagna di Npl proviene da attività business. Il che vuol dire che trattare le nostre sofferenze con cura, non cederle all’ingrosso ai fondi, magari affittarle nei tempi di attesa, non solo comporta un vantaggio economico per le banche, ma anche per il sistema economico e industriale nel suo complesso.

Le banche italiane hanno sui loro bilanci circa circa 350 miliardi di crediti deteriorati. Secondo i calcoli di Giuseppe Lusignani, vicepresidente della società di consulenza Prometeia, gli istituti di credito ne potrebbero vendere circa 90 miliardi lordi a società terze entro il 2019. Ferdinando Giugliano, Affari & Finanza 24/10/2016

«La Banca Centrale Europea ha chiesto alle banche di mettere a punto una chiara strategia di gestione dei crediti deteriorati, che potrà prevedere anche operazioni di cessione. Ci sarà un efficientamento dei tempi di recupero», dice Lusignani.

La speranza dei regolatori è che gli acquisti da parte di questi nuovi attori aiutino le banche a sgomberare i propri bilanci da linee di credito concesse ad aziende “zombie”, in modo da liberare capitale per prestare soldi ad imprese più innovative. Le modalità di riscossione, sicuramente più aggressive, da parte di questi istituti specializzati rischiano però di provocare proteste fra i debitori, che fin qui hanno goduto di un atteggiamento più tollerante da parte delle banche.

Le due operazioni che più di tutte stanno facendo crollare la diga dei prestiti andati a male che siedono sui bilanci bancari italiani riguardano Monte dei Paschi di Siena e UniCredit. «Si tratta di operazioni ‘Jumbo’, che richiedono spalle molto larghe dal lato degli acquirenti, oppure richiedono la creazione di consorzi che però includono complessità operative»,

Mps ha in programma di cedere tutte le sue “sofferenze”, ovvero prestiti che sicuramente non torneranno più indietro, all’interno di un piano di aumento di capitale da 5 miliardi. Il portafoglio, dal valore nominale di circa 28 miliardi, sarà ceduto a una cifra intorno ai 9-10 miliardi al Fondo Atlante, il veicolo salva-banche gestito dalla Quaestio Capital Management di Alessandro Penati, che ha scelto come consulente la stessa Fonspa.

Fonspa provvederà a impacchettare i prestiti in una cartolarizzazione, dividendola poi in tre tranche. La più sicura verrà coperta da una garanzia statale (Gacs) che la renderà simile a un titolo di Stato. Il “mezzanino” sarà tenuto dallo stesso Fondo Atlante, mentre la porzione più rischiosa, la tranche “junior” verrà distribuita agli azionisti. Il successo dell’operazione è legato alla capacità di recupero e valorizzazione dei crediti andati a male. Gli investitori, nelle cartolarizzazioni, ricevono infatti pagamenti esclusivamente sulla base del denaro recuperato. Per farlo, Quaestio si affiderà a ditte specializzate che agiranno da “servicer”, gestendo le pratiche con i debitori.

Uno dei rischi del progetto sta proprio nella scelta dei servicer. Quaestio intendeva inizialmente prendere un numero molto elevato di aziende per massimizzare la concorrenza, aumentando così l’efficienza del recupero e riducendo le commissioni. Il problema, però, è che non tutte le società hanno la stessa capacità. Ognuna di esse ha un determinato rating, che dipende da quanto fatto in passato. La stessa cartolarizzazione – in particolare, quanto grandi possono essere le tranche più sicure – dipende dai rating dei servicer. Poiché ci sono poche aziende capaci di dimostrare di aver fatto questo lavoro bene in passato, soprattutto su volumi grossi, Quaestio potrebbe essere costretta a ridurre il numero di società con cui lavorare.

L’altra operazione su cui sono puntati gli occhi del settore riguarda UniCredit. La banca guidata da Jean-Pierre Mustier è in procinto di varare un aumento di capitale che, secondo un’anticipazione di Repubblica, potrebbe arrivare a 13 miliardi. Una parte importante di questo progetto riguarda lo scorporo di un portafoglio di crediti deteriorati, del valore nominale di circa 20 miliardi. Unicredit non sembra intenzionata a cedere l’intero pacchetto, perché questo la obbligherebbe a svalutare anche il resto dei crediti deteriorati a bilancio a seconda del prezzo di vendita. Piuttosto, l’idea sarebbe quella di far entrare un partner di minoranza con una quota di circa il 20-25 per cento. Italfondiario, di proprietà di Fortress, è favorita rispetto a altri operatori come Pimco ed Apollo.

«Il nodo del prezzo di cessione è fondamentale»

A queste due operazioni se ne affiancano una serie di più piccole. Tra le più interessanti c’è quella che Carige ha condotto nelle scorse settimane, cedendo a Prelios un portafoglio da 900 milioni. L’intenzione del gruppo, di proprietà di azionisti come Intesa Sanpaolo, Uni-Credit e Pirelli, è quella di replicare uno schema già utilizzato con la Banca Popolare di Bari e che fa ampio uso della “Gacs”.

La banca pugliese ha venduto un pacchetto di oltre 21.000 crediti deteriorati, estesi a 915 debitori per lo più residenti in Puglia, Calabria e Sicilia, a un prezzo di 150 milioni, a fronte di un valore nominale di 500 milioni. Il portafoglio, una volta cartolarizzato, è stato diviso in una tranche senior da 126,5 milioni, un mezzanino di 14 milioni e un segmento junior di 10 milioni. La banca ha poi deciso di riacquistare la parte più sicura che, grazie alla “Gacs” è considerata senza rischio e non consuma pertanto capitale.


Questo schema ingegnoso ha permesso alla banca di vendere i suoi crediti a un prezzo sensibilmente più alto rispetto a quello che era stato offerto prima della creazione della garanzia. Allo stesso tempo, l’operazione ha consentito alla banca di tenere praticamente gli stessi asset a libro, spostando tuttavia parte del rischio sul contribuente.

La rivoluzione dei crediti deteriorati è un passaggio praticamente obbligato per le nostre banche. Se ben gestita, potrà contribuire a rafforzare il nostro sistema del credito e a far ripartire la crescita economica. Ma, come sempre, il diavolo è nei dettagli: starà al governo vigilare perché debitori e contribuenti non paghino alla fine un prezzo eccessivo per questo cambiamento.

Da un anno il governo si occupa di banche nel modo in cui di solito si restaura un mosaico: pezzo dopo pezzo. Ci si concentra sui singoli tasselli man mano che minacciano di staccarsi. In qualche modo si cerca di disinnescare al meglio le emergenze una per una. Un anno fa fu il momento di quattro piccole banche in dissesto in Italia centrale, in primavera Popolare di Vicenza e Veneto Banca furono salvate coagulando un decine di investitori privati nel fondo Atlante, in estate un piano di Jp Morgan ha quanto meno fatto guadagnare tempo al Monte dei Paschi e proprio ieri Atlante ha annunciato che comprerà crediti in default di Siena per una cifra fino a 1,6 miliardi.

Non è stata una scelta. L’approccio caso per caso – tamponare ciascun incendio quando divampa – è stato subìto da tutti come una necessità dettata dalla carenza di altri mezzi. Se il governo avesse affrontato il problema in modo complessivo, intervenendo con un piano di aiuti pubblici per il sistema, le regole europee avrebbero imposto di colpire gli investitori e i depositi; gli effetti sarebbero stati destabilizzanti.

Ad agosto 2016 i crediti verso debitori insolventi pesano per il 10,4% del totale di quelli concessi, e per il 12,2% del reddito italiano di un anno. Nel frattempo lo stock di credito all’economia ha continuato a scendere, giù di 26 miliardi dall’inizio dell’anno. Sembra un forte calo, eppure per contenerlo dev’essere servito impegno da parte delle banche, a giudicare dalle ultime stime del Fondo monetario internazionale: il Global Financial Stability Report di questo mese nota che ogni crollo del 20% del prezzo di Borsa degli istituti provoca in media un calo del 4% dei livelli del credito all’economia, perché le banche si arroccano e si concentrano sui propri problemi interni.

Il crollo dei titoli bancari in Borsa scoraggia i nuovi investitori, tiene lontani i capitali freschi di cui ci sarebbe bisogno, raziona il credito e rallenta la ripresa. Da inizio anno l’indice bancario del Ftse Mib di Milano è in calo del 48,5%, quello dell’Eurostoxx banche del 24,9%. Una caduta di queste dimensioni, per l’Fmi, minaccia di ostacolare i prestiti all’economia per almeno tre anni se non ci saranno rimbalzi.

I crediti in difficoltà in Italia sono il 18% del totale, contro il picco del 9% in Spagna nel 2013. Quelli in default erano all’11% del Pil in Svezia nel 1993, prima di un colossale intervento del governo, mentre in Italia sono già saliti oltre il 12%. E la Finlandia aveva il 9,3% di crediti in default nel 1992, prima di un salvataggio pari al 10% del Pil, mentre l’Italia è già sopra quei livelli senza che nulla del genere accada.

L’elenco potrebbe continuare, ma non cambia la sostanza: senza un intervento di sistema, il credito in Italia rimarrà paralizzato a lungo anche se non esplodessero nuovi dissesti. I vincoli europei restano difficili da navigare come prima; ma passato il referendum del 4 dicembre, chiunque vinca, tornare a chiedersi come affrontarli sarà inevitabile.

L’ allarme viene lanciato proprio quando diversi protagonisti del settore creditizio si apprestano a vivere (da qui a fine anno) una fase cruciale per il loro futuro. Perché in caso di vittoria del No al referendum del 4 dicembre, se da una parte non si prevedono catastrofi sui mercati grazie alla rete di protezione della Bce - ma al massimo un po’ di turbolenza -, Standard & Poor’ s mette in guardia, invece, dal rischio di un rallentamento nella risoluzione di quello che gli operatori di Borsa considerano il problema principale dell’ Italia: le sofferenze bancarie.

Jean-Michel Six, capo economista per Europa e area mediterranea dell’ agenzia di rating statunitense, sottolinea come la preoccupazione numero uno sia lo stato di salute delle banche. E, nello specifico, «la situazione dei Non performing loans » (Npl). Entrando ancora di più nel dettaglio di questo timore, l’ economista spiega che, se il piano di riforme del governo non ottenesse il via libera dal voto dei cittadini, «probabilmente rallenterebbe» lo scioglimento del nodo ’crediti deteriorati’, «perché l’ attenzione si sposterebbe sulle questioni politiche più che su quelle finanziarie ».

A proposito di banche, è arrivata la giornata chiave di Mps, che ipotizza di far partire l’ aumento di capitale in linea di massima tra il 7 e l’ 8 dicembre, quindi dopo il referendum. Così come Unicredit presenterà il suo piano industriale il 13 dicembre. Prima però gli azionisti della banca senese sono chiamati a votare oggi il piano da 5 miliardi di ricapitalizzazione, un passo necessario ad evitare la risoluzione della banca.


Secondo Eisman, le nostre banche sono zeppe di crediti marci (NPL - Non Performing Loans), ma non li hanno ancora ‘spurgati’ dai loro bilanci, dichiarando perdite o minusvalenze miliardarie. No, quei crediti sono ancora nei conti, iscritti a bilancio con un valore tra il 45 e il 50% di quello originario.

Il grosso problema, spiega il finanziere al quotidiano inglese, è che non valgono affatto quelle somme. Quando le società di investimento adocchiano questi NPL per comprarli e si avvicinano alle banche italiane per capire quanti siano realmente in grado di essere ripagati, si rendono conto che il valore reale si aggira intorno al 20%. In parole povere: per ogni 100 euro che gli istituti hanno prestato, ne riusciranno recuperare 20

Il dettaglio non insignificante è che se le banche facessero pulizia nei bilanci prendendo davvero atto di questa montagna di sofferenze, dovrebbero radere al suolo il loro capitale da un giorno all’altro, e dunque andare a gambe all’aria.

Eisman sta attento a non nominare nessuno in particolare, ma il nostro sistema bancario è appesantito da 360 miliardi di ‘bad debts’, e gli stress test dell’Autorità Bancaria Europea hanno mostrato tutte le debolezze del Monte dei Paschi di Siena, che è alle prese con un difficilissimo aumento di capitale, gestito (anche) dal ministero del Tesoro, azionista dell’istituto senese, che si è affidato ai consigli (interessati) di JpMorgan.


Come si è visto, non è facile piazzare questi NPL: il Fondo Atlante, che doveva occuparsi di rastrellarli a valori ben più alti di quelli di mercato – così salvando i suddetti bilanci disastrati – per ora si è dedicato soprattutto a salvare il corrotto sistema bancario veneto. E viene criticato perché i suoi manager si sono messi a fare ‘dumping’ (offrendo condizioni da urlo a chi porta i soldi nella Popolare di Vicenza) a danni di quelle stesse banche che lo hanno creato e si sono ‘tassate’ per capitalizzarlo.


Le autorità europee sono state troppo ‘accomodanti’ nei confronti delle banche europee, dice Eisman. Quelle americane, se prima della crisi avevano fatto un lavoro ‘orrendo’, dopo il crash si sono date una mossa, e grazie all’intervento della Fed è finita l’era dei mutui sub-prime venduti fraudolentemente ai consumatori. Per questo le banche d’Oltreoceano sono diventate ‘noiose’ come investimento, sebbene l’elezione di Trump abbia portato un brivido nei mercati: ‘Credo che ci potrà essere un ammorbidimento delle durissime regole imposte dall’amministrazione Obama nei confronti delle società finanziarie, in particolare sulla vendita dei loro prodotti al pubblico. L’aria è cambiata, a tutto vantaggio delle banche che vogliono approfittarsi dei clienti’.


Già quando valgono le 4 buone banche? Difficile dirlo, ma i numeri delle semestrali appena approvate aiutano a capire tutte le difficoltà a far incontrare domanda e offerta tale da non scontentare nessuno dei due. Ecco i numeri: il patrimonio ovviamente c’è: a giugno 2016 ammontava a 1,59 miliardi, ma la redditività è fortemente negativa e soprattutto sulle 4 banche gravano (nonostante la pulizia delle sofferenze) oggi 3,39 miliardi di crediti deteriorati, più del doppio del capitale e quasi il 20% del portafoglio prestiti.


Quando i costi sono il 136% del margine d’intermediazione è ovvio che si chiuda in perdita. E questo senza contare le rettifiche su sofferenze e incagli. Ecco perchè è difficile trovare un compratore che possa mettere sul piatto offerte in grado di soddisfare il venditore. Quel venditore è in realtà il sistema bancario che ha ricapitalizzato per 1,8 miliardi le 4 banche solo dieci mesi fa. Possono valere quella cifra? Neanche per idea, dato che in media le stesse banche quotate italiane faticano a farsi prezzare più del 20-30% del loro capitale. Le 4 good banks con i numeri di bilancio che le rappresentano non possono essere valorizzate più di quel 20-30% delle loro consorelle che stanno sul mercato.

Chi cerca le ragioni del tracollo del sistema bancario italiano (col terzo gruppo del Paese, il Monte dei paschi di Siena, ormai al collasso) non può rinunciare alla lettura di un documento depositato la scorsa settimana al Senato da un alto magistrato, Luigi Orsi. Il quale è sostituto procuratore generale della Corte di cassazione e a palazzo Madama ha «denunciato» tutti i reati commessi dalle banche dal 1990 a oggi.

Il mix micidiale di comportamenti criminali e illeciti sistematici squadernato dalla toga della Cassazione, ovviamente, non è la sola ragione dell’attuale crisi bancaria. Né si deve inciampare nella becera generalizzazione, sostenendo che tutti i banchieri rubano (le condanne, però, non sono mancate). Tuttavia, le difficoltà non possono essere motivate soltanto con la tempesta internazionale e la recessione. Che poi è la favoletta raccontata dagli esponenti del settore: dalla Banca d’Italia all’Abi, l’autocritica è sempre esercizio ostico.

Ma torniamo al rapporto della Cassazione. Il capitolo più corposo è quello sul credito: “sviste” su «bilanci falsi», acquisto di azioni della banca (è il caso degli istituti del Nord Est) con finanziamenti ad hoc, erogazione di denaro condizionata all’impiego di una fetta del prestito ad altro cliente in dissesto o vincolata alla prestazione di garanzia a supporto di un altro cliente sempre nei guai; rimborso di rate con obbligazioni emesse da un’impresa debitrice vendute dalla banca (Parmalat e Cirio), nascondendo i pericoli ai risparmiatori. In buona sostanza, Orsi chiarisce l’origine di una fetta delle sofferenze bancarie, vale a dire quei 200 miliardi di euro di prestiti non ripagati che affossano il settore.


Su questo versante, l’analisi del magistrato parte dai «reati connessi in sede di erogazione del credito». Il caso più frequente è quello in cui «il cliente debitore della banca venga dichiarato fallito e il giudice penale debba verificare se il debito sia stato assunto in circostanze pregiudizievoli per la massa dei creditori». Si tratta di una «casistica rilevante perché coinvolge i settori apicali della banca» e «riguarda operazione per importi cospicui».

L’analisi entra poi nei dettagli con diversi tipi di crimine finanziario. Il primo caso è la «erogazione di credito condizionata all’acquisto di beni problematici della banca»: si concretizza quando un istituto appioppa a un’azienda cliente beni «non particolarmente appetibili» spesso «acquisiti a garanzia di crediti di altri soggetti» magari in ritardo con rate di prestiti.

Che fa la banca? Concede un prestito per far comprare magari un appartamento invendibile, il cui valore è inferiore al prezzo dichiarato. È la «bancarotta fraudolenta» (di cui risponde anche il banchiere con l’imprenditore) e lo è anche nel caso di prestiti vincolati «all’acquisto sul mercato borsistico di azioni emesse dalla banca»: la quotazione del titolo sale, ma non corrisponde al mercato. Di qui anche il reato di «manipolazione del mercato» e «aggiotaggio».

Sempre di bancarotta fraudolente si parla nell’ipotesi di finanziamenti concessi dietro un accordo segreto: chi riceve il credito lo «impiega in favore di un altro cliente della banca, insolvente». Il vantaggio per l’istituto sta nel nascondere alla Vigilanza una sofferenza: la manovra, in gergo, si chiama «cambio di cavallo». Che ha una variante, cioè quando l’impresa che chiede denaro poi lo utilizza per prestare garanzie a società decotte.

A metà strada tra il credito e il risparmio tradito si posiziona il caso dei bond emessi da un’azienda mezza fallita col solo obiettivo di rimborsare un finanziamento. «Cirio, Parmalat e Finpart» ricorda la Cassazione: tutto questo era stato architettato attraverso emissioni «estero-vestite» in modo da «aggirare» i limiti imposti alle banche per collocare prodotti di aziende con le quali erano esposte. E qui entriamo (anche) nel campo della «truffa».

Unicredit cede alla tentazione della garanzia di Stato per ripulire i bilanci dai crediti in sofferenza. La seconda banca italiana, guidata dal francese Jean-Pierre Mustier, dovrebbe liberarsi di finanziamenti non rimborsati per un ammontare complessivo di 20 miliardi di euro: la vendita sarebbe dunque supportata dalle Gacs (Garanzie cartolarizzazione sofferenze), strumento messo a disposizione dal Tesoro e non considerato aiuto di Stato.

Un’opzione, quella della garanzia pubblica, ignorata (salvo poche eccezioni) a lungo dagli istituti di credito del nostro Paese. Finora solo la Popolare di Bari aveva usato le Gacs nell’ambito di un’operazione da 500 milioni. Ma con le sofferenze, stabilmente sopra quota 200 miliardi che zavorrano i conti del settore bancario, è arrivato il dietro front: ora il sostegno del Tesoro piace. Tant’è che anche il Monte dei paschi di Siena si muove nella stessa direzione. Prende corpo, così, la gigantesca discarica pubblica per la spazzatura delle banche (bad bank).


Ma le banche non sono finite gambe all’aria soprattutto perché hanno prestato soldi a chi non era in grado di pagare? «Sì, certo, ma bisogna decidersi. Sono sicuro che il suo giornale per anni ha accusato le banche di non prestare soldi alle famiglie e agli imprenditori e di soffocare l’economia». Il problema è però a chi si presta. L’accusa è che molte banche abbiano finanziato imprese per fare favori ai politici locali e garantire loro il consenso: è accaduto questo? «È senz’altro capitato che le banche sul territorio abbiano svolto talvolta e in parte una funzione di ammortizzatore sociale, sostenendo economie e aziende che andavano male per salvaguardare posti di lavoro. Anche molte sofferenze di Mps sono dovute a finanziamenti a piccole e medie imprese mai restituiti». Lo trova giusto? «Se finanzi un’impresa decotta, sbagli; se mandi sul lastrico un tuo cliente che potrebbe farcela e magari dà lavoro ai tuoi correntisti, sbagli. Sono decisioni difficili: il cittadino non vuole che la banca butti via i suoi soldi, ma poi se la banca fa chiudere l’azienda dove lavora suo figlio si lamenta. Con i soldi siamo tutti un po’ irrazionali. Perfino ai tedeschi capita di esserlo».


Una sola voce non cambia nel panorama disastrato del credito di casa nostra: l’ ammontare delle sofferenze che, più minacciose di un iceberg, incombono sull’ economia italiana. Dal supplemento al Bollettino statistico su moneta e banche di Banca d’ Italia emerge che i crediti a rischio che pesano sulle banche italiane sono scesi a giugno a 197,9 miliardi, contro i 200 miliardi di maggio.

A livello netto le sofferenze sono passate a 83,708 miliardi dagli 84,948 del mese precedente. Negli ultimi 12 mesi il tasso di crescita delle sofferenze è stato pari all’ 1,1%, in frenata rispetto al 3,2% precedente. Un miglioramento, piccolo piccolo, c’ è stato.

Ma non ci vuole molto a capire che, di questo passo, ci vorrà almeno un secolo per smaltire gli effetti dei prestiti concessi in passato, per lo più negli anni che hanno preceduto la crisi. Perciò prepariamoci alla «cura dimagrante» attraverso gli acquisti dei non performing loans e i successivi, inevitabili, aumenti di capitale a carico delle banche scottate.

C’ è da chiedersi, a questo punto, a chi fanno capo i 200 miliardi, euro più euro meno, che sono sfumati in questi anni. Certo, come fanno notare i banchieri, buona parte della responsabilità tocca alla crisi. Nel 2008, infatti, le sofferenze ammontavano a soli 43 miliardi, meno di un quinto del macigno che pesa sui conti. Da allora l’ economia italiana ha perduto più di un quarto della sua capacità produttiva. Non c’ è da stupirsi, è il ragionamento, se la cattiva congiuntura ha contagiato immobili, attività industriali e ogni altro tipo di garanzia.


Vero, anche se, come sempre, le statistiche non raccontano tutto. Un’ indagine di Price Waterhouse Cooper (Pwc) ha rilevato che l’ 82% delle sofferenze è legata ai prestiti (non restituiti) alle aziende. Non solo. A differenza di quanto si possa pensare sono i grandi, e non i piccoli, a ritardare la restituzione: 141,4 miliardi, secondo uno studio di Unimpresa, «sono relativi a finanziamenti oltre il mezzo milione di euro erogati ad appena 32.608 soggetti».


Ovvero poco più di 30 mila debitori rappresentano il 70% del problema che paralizza l’ economia di casa nostra. E tra costoro figurano in prima fila immobiliaristi e costruttori, in prima fila i protagonisti di tante scorrerie e speculazioni rese possibili da giri di favori, sia a livello nazionale che, non meno spesso, tra notabili locali.

Secondo Il Bollettino di via Nazionale a giugno il settore costruzioni accusava sofferenze per 40,161 miliardi, davanti a poco più di 20 miliardi delle attività immobiliari e i 23 miliardi del commercio. Industria ed agricoltura devono poco più di 36 miliardi per un quarto da imputare a «metallurgia e lavorazione di minerali non metallici» (vedi il comparto della siderurgia).

In sintesi, le sofferenze non dipendono da una sola grande crisi (come accade per la cantieristica tedesca) ma sono comunque il frutto di prestiti a «pesci grossi», spesso privilegiati o costretti (vedi quel che è successo a Vicenza o a Veneto Banca) dalle banche a investire parte del credito in azioni degli istituti.




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Perché la stampa finanziaria internazionale, le agenzie di rating, i burocrati e i capi di governo di mezzo mondo considerano la vittoria del No al referendum del 4 dicembre tanto un pericolo per il sistema-Italia? Certamente non perché credono nel mito renziano: la loro unica preoccupazione, tanto per cambiare, sono le nostre banche. E cosa c’entrano con il referendum? Semplice: a Roma il grado di incertezza politica è tornato rapidamente a crescere e c’è il rischio di una frenata nella risoluzione di quello che gli operatori di borsa considerano il principale problema italiano: le sofferenze bancarie. Lasciamo parlare Standard & Poor’s, per esempio. L’agenzia di rating statunitense spiega che, «se il piano di riforme del governo non ottenesse il via libera dal voto dei cittadini», «probabilmente rallenterebbe» lo scioglimento del nodo crediti deteriorati, «perché l’attenzione si sposterebbe sulle questioni politiche più che su quelle finanziarie». E l’allarme viene lanciato non a caso proprio quando diversi protagonisti del settore (Mps e Unicredit su tutti) si apprestano a vivere (da qui a fine anno) una fase cruciale per il loro futuro, con operazioni jumbo che richiedono spalle molto larghe dal lato degli acquirenti, oppure la creazione di consorzi con complessità operative mai affrontate prima.

In pancia alle banche italiane, la cosa è risaputa, ci sono circa 350 miliardi di prestiti traballanti, tecnicamente crediti deteriorati ma che da qualche tempo abbiamo tutti cominciato a chiamare npl (dall’inglese non performing loans, prestiti non performanti). Per capire verso quali scenari ci stanno portando è necessario capire bene come siamo arrivati a questo punto. Npl sono tutti quei finanziamenti (crediti per le banche, debiti per gli altri soggetti) per i quali la riscossione è incerta in termini di rispetto delle scadenze e, più in generale, di effettivo recupero del capitale. Si classificano in varie categorie, le principali sono gli incagli e le sofferenze. Le sofferenze sono quei crediti la cui riscossione non è certa perché i soggetti debitori si trovano in stato d’insolvenza o in situazioni sostanzialmente equiparabili. Gli incagliati rappresentano delle esposizioni di credito nei confronti di soggetti in situazione di difficoltà obiettiva ma temporanea. A differenza delle sofferenze pertanto gli incagli sono dei crediti che in un congruo periodo di tempo si suppongono recuperabili. In una scala del rischio quindi gli incagli si pongono un gradino al di sotto delle sofferenze e richiedono pertanto accantonamenti inferiori nelle riserve contro il rischio. In Italia, dei 350 miliardi di euro di npl le sofferenze sono circa 200 miliardi e circa 150 miliardi sono gli incagli (che, non dimentichiamoci, a loro volta potrebbero anche diventare sofferenze).

I crediti che le banche ritengono inesigibili (il caso tipico è quello di una società messa in liquidazione) devono essere cancellati dal bilancio. Detta più semplicemente, gli istituti devono coprire di tasca propria tutte le posizioni creditizie che per qualche motivo, parzialmente o in toto, non sono più rientrate. Se nel mentre che le posizioni si deteriorano la banca è stata previdente ed ha accantonato i soldi nel fondo rischi non ci sono problemi, fa parte del mestiere. Il problema è quando cominciano a deteriorarsi una percentuale sempre più alta dei prestiti erogatii. Peggio ancora quando cominciano a deteriorarsi sempre più prestiti proprio quando si riducono gli utili delle banche. E il bomba infine esplode quando, senza utili e con percentuali altissime di accantonamenti, anche il capitale delle banche si riduce facendo crollare la diga dei prestiti andati a male che siedono sui loro bilanci. Ed è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi.

Cerchiamo anche di capire meglio come si copre un credito deteriorato. Dicevamo che queste posizioni in perdita devono essere integralmente coperte dalle aziende di credito, come? Possono essere risolte direttamente rivalendosi su una garanzia reale (come nel caso dell’ipoteca per i mutui) o personale (come nel caso dei prestiti assistiti da garanti). Altrimenti, se non sono presenti garanzie, facendo con il debitore un compromesso per avere indietro almeno una parte del prestito (come il saldo e stralcio) oppure infine accettando di perdere tutta l’esposizione rimasta (come nel caso dei fallimenti). In quest’ultimo caso, e in quelli precedenti per la differenza tra ciò che si è ottenuto e ciò che si doveva avere, si registra una perdita. Che può essere coperta dagli accontonamenti (se per quel credito erano stati fatti), dagli utili (se quell’azienda li ha fatti) o dal proprio capitale (o da quel che ne è rimasto).

C’è anche un’altra possibilità: che il credito deteriorato possa venir ceduto a prezzi di saldo, solitamente in lotti numerosi, a fronte di pagamenti cash, a società che ne diventano proprietarie e si ingegnano per recuperare dai debitori almeno qualcosa in più rispetto al prezzo a cui l’hanno comprato dalle banche (le modalità di riscossione, sicuramente più aggressive, di questi istituti specializzati rischieranno di guastare il sonno a parecchi debitori insolventi, che fin qui hanno goduto di un atteggiamento più tollerante da parte degli impiegati bancari). I prezzi a cui poter vendere gli npl variano ovviamente dal tipo di npl: se è un mutuo c’è un’ipoteca, per cui si dovrebbe riuscire a riprendere qualcosa, e allora il prezzo a cui la banca lo cede sarà senz’altro più alto rispetto a quanto riusce a ricavare dalla vendita di un prestito fatto senza garanzie ad una srl che ha appena portato i libri in tribunale.

I quasi 700 istituti italiani in questi anni non sono state a guardare e ogni anno hanno messo da parte quattrini per affrontare la botta. Vediamo i numeri nel dettaglio. Soffermandoci solo sui 200 miliardi di sofferenze attuali, più della metà sono assistite da coperture, cioè le banche hanno già messo da parte i soldi necessari per cancellarli dal bilancio una volta che saranno definitivamente dichiarati inesigibili. Senza nessuna copertura ne rimangono 85 miliardi. Detta in un’altra maniera, i 200 miliardi di sofferenze hanno coperture medie per il 57,5%. È dunque il restante 32,5%, gli 85 miliardi, il vero buco nero del nostro sistema creditizio. Questa è la cifra da tenere a mente. Una cifra che, per dare un metro di paragone, corrisponde a circa cinque Finanziarie (adesso si chiamano Legge di Stabilità), ovvero cinque anni di politica economica dello stato italiano.

Il problema è emerso drammaticamente quando da Francoforte la Bce ha chiesto alle nostre banche (e non ha iniziato la frase con «per favore») di fare pulizia velocemente, cioè praticamente di coprire in fretta anche i restanti 85 miliardi. Solo che questa richiesta è arrivata dopo anni di sanguinosi accantonamenti che hanno ridotto gli utili degli istituti di credito al lumicino e in un periodo in cui la redditività delle banche, lo abbiamo detto tante volte, a causa della crisi, dei tassi a zero e delle gestioni allegre di tanti consigli di amministrazione, è azzerata. Come si fa dunque ad accantonare, a mettere da parte quattrini senza averli? A tutti è venuta in mente la medesima grande idea: vendiamole queste benedette sofferenze. Ci sono delle società, lo dicevamo, che fanno questo di mestiere: comprano crediti difficili dalle banche e poi provano a recuperare più di quanto li hanno pagati.

Ma come sempre l’urgenza costa cara. Il mercato, conoscendo la burocrazia italiana e i tempi delle cause civili e dei contenziosi in materia fallimentare, si è guardato bene da correre in massa a comprare le sofferenze italiane e soprattutto si è detto disposto a pagarle non più del 20% del loro valore nominale. Quindi anche ammettendo che le banche riescano a vendere sul mercato tutte le sofferenze che hanno in bilancio questo comunque non basterebbe a tappare il buco. I calcoli sono semplici: il 20% di 200 sono 40 miliardi. Per cui resterebbero 45 miliardi (85-40) che a questo punto diventerebbero immediatamente perdita nel conto economico. Adesso, possono le banche italiane sopportare un rosso di 45 miliardi? No. È roba da libri in tribunale: né le più grandi, né le più piccole hanno le risorse per fare fronte così velocemente ad una pulizia di bilancio. Dunque il dettaglio non insignificante è che se le banche premdessero davvero atto di questa montagna di sofferenze, dovrebbero radere al suolo il loro capitale da un giorno all’altro, e dunque andare a gambe all’aria.

Vie di scampo? Il governo e il sistema bancario italiano ne hanno messe in campo due. Il Fondo Atlante che dovrà occuparsi di comprare sofferenze a valori più alti di quelli di mercato e le Gacs (Garanzie cartolarizzazione sofferenze), strumento messo a disposizione dal Tesoro e non considerato aiuto di Stato per aiutare le cartolarizzazioni. Senza entrare in tecnicismo cerchiamo di capirli entrambi facendo il caso più importante in cui, se tutto va bene, saranno coinvolti a breve: la cessione delle sofferenze di Mps. La banca senese ha in programma di cedere tutte le sue sofferenze all’interno di un piano di aumento di capitale da 5 miliardi. Il portafoglio, dal valore nominale di circa 28 miliardi, sarà ceduto a una cifra intorno ai 9-10 miliardi al Fondo Atlante (circa il 33% del loro valore nominale, molto di più del 20% che era disposto a pagare il mercato), il veicolo salva-banche gestito dalla Quaestio Capital Management di Alessandro Penati, che ha scelto come consulente Credito Fondiario (Fonspa), una banca specializzata nell’acquisto e gestione di crediti in sofferenza di proprietà, in parte, del fondo speculativo Elliott.

Fonspa provvederà a impacchettare i prestiti in una cartolarizzazione, dividendola poi in tre tranche, praticamente tre emissioni obbligazionarie. La più sicura verrà coperta da una garanzia statale (Gacs) che la renderà sicura come un titolo di Stato quindi molto appetibile sul mercato. Il mezzanino sarà tenuto dallo stesso Fondo Atlante, mentre la porzione più rischiosa, la tranche junior verrà distribuita agli azionisti. Chi comprasse queste obbligazioni avrebbe la garanzia sul capitale investito sono con la tranche senior (quella con la Gacs). Mentre gli utili saranno legati alla capacità di recupero dei crediti sottostanti (impacchettati per costruire l’obbligazione). Gli investitori, nelle cartolarizzazioni, ricevono infatti pagamenti esclusivamente sulla base del denaro recuperato. Per farlo, Quaestio si affiderà a ditte specializzate che agiranno da “servicer”, gestendo le pratiche con i debitori.

Un’altra manovra su cui sono puntati gli occhi del settore riguarda Unicredit. La banca guidata da Jean-Pierre Mustier è in procinto di varare un aumento di capitale che potrebbe arrivare a 13 miliardi (cifra non ancora confermata). Una parte importante di questo progetto riguarda lo scorporo di un portafoglio di crediti deteriorati, del valore nominale di circa 20 miliardi. A queste due operazioni monstre se ne affiancano una serie di più piccole. Tra le più interessanti c’è quella che Carige ha condotto nelle scorse settimane, cedendo a Prelios un portafoglio da 900 milioni. L’intenzione del gruppo è quella di replicare uno schema già utilizzato con la Banca Popolare di Bari che già fa ampio uso della Gacs. La banca pugliese ha venduto un pacchetto di oltre 21.000 crediti deteriorati a un prezzo di 150 milioni, a fronte di un valore nominale di 500 milioni. Il portafoglio, una volta cartolarizzato, è stato diviso in una tranche senior da 126 milioni, un mezzanino di 14 milioni e un segmento junior di 10 milioni. La banca ha poi deciso di riacquistare la parte più sicura che, grazie alla Gacs è considerata senza rischio e non consuma pertanto capitale.

Questo schema ingegnoso ha permesso alla banca di vendere i suoi crediti a un prezzo (31%) sensibilmente più alto rispetto a quello che era stato offerto prima della creazione della garanzia. Allo stesso tempo, l’operazione ha consentito alla banca di tenere praticamente gli stessi asset a libro, spostando tuttavia parte del rischio sul contribuente. Un attimo però, stop. Riavvolgiamo l’ultima parte del nastro.
[...]

Prende corpo, così, la gigantesca discarica pubblica per la spazzatura delle banche.



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Perché la stampa finanziaria internazionale, le agenzie di rating, i burocrati e i capi di governo di mezzo mondo considerano la vittoria del No al referendum del 4 dicembre tanto un pericolo per il sistema-Italia? Certamente non perché credono nel mito renziano: la loro unica preoccupazione, tanto per cambiare, sono le nostre banche. E cosa c’entrano con il referendum? Semplice: a Roma il grado di incertezza politica è tornato rapidamente a crescere e c’è il rischio di una frenata nella risoluzione di quello che gli operatori di borsa considerano il principale problema italiano: le sofferenze bancarie. Lasciamo parlare Standard & Poor’s, per esempio. L’agenzia di rating statunitense spiega che, «se il piano di riforme del governo non ottenesse il via libera dal voto dei cittadini», «probabilmente rallenterebbe» lo scioglimento del nodo crediti deteriorati, «perché l’attenzione si sposterebbe sulle questioni politiche più che su quelle finanziarie». E l’allarme viene lanciato non a caso proprio quando diversi protagonisti del settore (Mps e Unicredit su tutti) si apprestano a vivere (da qui a fine anno) una fase cruciale per il loro futuro, con operazioni jumbo che richiedono spalle molto larghe dal lato degli acquirenti, oppure la creazione di consorzi con complessità operative mai affrontate prima.

In pancia alle banche italiane, la cosa è risaputa, ci sono circa 350 miliardi di prestiti traballanti, tecnicamente crediti deteriorati ma che da qualche tempo abbiamo tutti cominciato a chiamare npl (dall’inglese non performing loans, prestiti non performanti). Per capire verso quali scenari ci stanno portando è necessario capire bene come siamo arrivati a questo punto. Npl sono tutti quei finanziamenti (crediti per le banche, debiti per gli altri soggetti) la cui riscossione è incerta. Si classificano in varie categorie, le principali sono gli incagli e le sofferenze. Le sofferenze sono quei soldi prestati a soggetti che si trovano in stato d’insolvenza o in situazioni sostanzialmente equiparabili (per esempio, una ditta di costruzioni che sta per fallire). Gli incagliati sono delle esposizioni nei confronti di soggetti in difficoltà obiettiva ma temporanea (per esempio, un’azienda che lavora con la Pa che ha difficoltà nelle riscossioni e di conseguenza nei pagamenti). A differenza delle sofferenze, gli incagli sono dei crediti che in un congruo periodo di tempo si suppongono recuperabili. In una scala del rischio quindi gli incagli si pongono un gradino al di sotto delle sofferenze e richiedono pertanto accantonamenti inferiori nelle riserve contro il rischio. In Italia, dei 350 miliardi di euro di npl, le sofferenze sono circa 200 miliardi e circa 150 miliardi sono gli incagli (che, non dimentichiamoci, a loro volta potrebbero anche diventare sofferenze).

I crediti che le banche ritengono inesigibili (il caso tipico è quello di una società messa in liquidazione) devono essere cancellati dagli attivi di bilancio. Detta più semplicemente, gli istituti devono coprire di tasca propria tutte le posizioni che per qualche motivo, parzialmente o in toto, non sono più rientrate. Se nel mentre che un credito si deteriora la banca è stata previdente e ha accantonato i soldi nel fondo rischi non ci sono problemi, fa parte del mestiere. Il problema è quando cominciano a deteriorarsi una percentuale sempre più alta dei prestiti erogatii. Peggio ancora se questo succede proprio quando si riducono gli utili. E la bomba infine esplode quando, senza utili e con percentuali altissime di accantonamenti, anche il capitale delle banche, che nei bilanci fa da diga ai prestiti andati a male, si sbriciola. Ed è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi.

Cerchiamo anche di capire meglio come si copre un credito deteriorato. Dicevamo che queste posizioni in perdita devono essere integralmente coperte dalle aziende di credito, come? Possono essere risolte direttamente rivalendosi su una garanzia reale (come nel caso dell’ipoteca per i mutui) o personale (come nel caso dei prestiti assistiti da garanti). Altrimenti, se non sono presenti garanzie, facendo con il debitore un compromesso per avere indietro almeno una parte del prestito (come il saldo e stralcio). Oppure infine, in mancanza di tutto ciò, accettando di perdere tutta l’esposizione rimasta. In quest’ultimo caso, e in quelli precedenti per la differenza tra ciò che si è ottenuto e ciò che si doveva avere, si registra una perdita. Che può essere coperta dagli accontonamenti (se erano stati fatti), dagli utili (se ci saranno) o dal proprio capitale (se ne è rimasto).

C’è anche un’altra possibilità: che il credito deteriorato possa venir ceduto a prezzi di saldo, solitamente in lotti numerosi, a fronte di pagamenti cash, a società che ne diventano proprietarie e si ingegnano per recuperare dai debitori almeno qualcosa in più rispetto al prezzo a cui l’hanno comprato dalle banche (le modalità di riscossione, sicuramente più aggressive, di questi istituti specializzati rischieranno di guastare il sonno a parecchi debitori insolventi, che fin qui hanno goduto di un atteggiamento più tollerante da parte delle banche). I prezzi a cui poter vendere gli npl variano ovviamente dal tipo di npl: se è un mutuo c’è un’ipoteca, per cui si dovrebbe riuscire a riprendere qualcosa, e allora il prezzo a cui la banca lo cede sarà senz’altro più alto rispetto a quanto riuscirebbe a ricavare dalla vendita di un prestito fatto senza garanzie a una srl che sta portando i libri in tribunale.

Le quasi 700 banche italiane non sono state a guardare e ogni anno hanno messo da parte quattrini per affrontare la botta. Vediamo i numeri nel dettaglio. Soffermandoci solo sui 200 miliardi di sofferenze attuali, più della metà sono assistite da coperture, cioè le banche hanno già messo da parte i soldi necessari per cancellarli dal bilancio una volta che saranno definitivamente dichiarati inesigibili. Senza nessuna copertura ne rimangono 85 miliardi. Detta in un’altra maniera, i 200 miliardi di sofferenze hanno coperture medie per il 57,5%. È dunque il restante 32,5%, gli 85 miliardi, il vero buco nero del nostro sistema creditizio. Questa è la cifra da tenere a mente. Una cifra che, per dare un metro di paragone, corrisponde a circa cinque Finanziarie (adesso si chiamano Legge di Stabilità), ovvero cinque anni di politica economica dello stato italiano.

Il problema è emerso drammaticamente quando da Francoforte la Bce ha chiesto ai nostri istituti (e non ha iniziato la frase con «per favore») di fare pulizia velocemente, cioè di coprire in fretta anche i restanti 85 miliardi. Solo che questa richiesta è arrivata dopo anni di sanguinosi accantonamenti e in un periodo in cui la redditività delle banche, lo abbiamo detto tante volte, a causa della crisi, dei tassi a zero e soptattutto delle gestioni allegre di tanti consigli di amministrazione, è praticamente azzerata. Come si fa dunque a mettere quattrini senza averli? A tutti è venuta in mente la medesima idea: vendiamo le sofferenze. Ci sono delle società,che fanno questo di mestiere, lo abbiamo appena detto. Ma come sempre l’urgenza costa cara.

Il mercato, conoscendo la burocrazia italiana e i tempi delle cause civili e dei contenziosi in materia fallimentare, si è guardato bene da correre in massa a comprare le sofferenze italiane e soprattutto si è detto disposto a pagarle non più del 20% del loro valore nominale. Quindi anche ammettendo che le banche riescano a vendere sul mercato tutte le sofferenze che hanno in bilancio (ipotesi remota) questo comunque non basterebbe a tappare il buco. I calcoli sono semplici: il 20% di 200 sono 40 miliardi. Per cui resterebbero 45 miliardi (85-40) che a questo punto diventerebbero immediatamente perdita nel conto economico. Adesso, possono le banche italiane sopportare un rosso di 45 miliardi? No. È roba da libri in tribunale: né le più grandi, né le più piccole hanno le risorse per fare fronte così velocemente a una pulizia di bilancio. Dunque il dettaglio non insignificante è che se le banche prendessero davvero atto di questa montagna di sofferenze, dovrebbero radere al suolo il loro capitale da un giorno all’altro, e dunque andare a gambe all’aria.

Vie di scampo? Il governo e il sistema bancario italiano ne hanno messe in campo due. Il Fondo Atlante che dovrà occuparsi di comprare le sofferenze a valori più alti di quelli di mercato e le Gacs (Garanzie cartolarizzazione sofferenze), strumento messo a disposizione dal Tesoro e non considerato aiuto di stato per aiutare le cartolarizzazioni. Senza entrare in tecnicismi, cerchiamo di capirli entrambi facendo il caso più importante in cui, se tutto va bene, saranno coinvolti a breve: la cessione delle sofferenze di Mps. La banca senese ha in programma di cedere tutte le sue sofferenze all’interno di un piano di aumento di capitale da 5 miliardi. Il portafoglio, dal valore nominale di circa 28 miliardi, sarà ceduto a una cifra intorno ai 9-10 miliardi al Fondo Atlante (circa il 33% del loro valore nominale, molto di più del 20% che era disposto a pagare il mercato), il veicolo salva-banche gestito dalla Quaestio Capital Management di Alessandro Penati, che ha scelto come consulente Credito Fondiario (Fonspa), una banca specializzata nell’acquisto e gestione di crediti in sofferenza di proprietà, in parte, del fondo speculativo Elliott.

Fonspa provvederà a impacchettare i prestiti in una cartolarizzazione, dividendola poi in tre tranche, praticamente tre emissioni obbligazionarie. La più sicura verrà coperta da una garanzia statale (Gacs) che la renderà sicura come un titolo di Stato quindi molto appetibile sul mercato. Il mezzanino sarà tenuto dallo stesso Fondo Atlante, mentre la porzione più rischiosa, la tranche junior verrà distribuita agli azionisti. Chi comprasse queste obbligazioni avrebbe la garanzia sul capitale investito sono con la tranche senior (quella con la Gacs). Mentre gli utili saranno legati alla capacità di recupero dei crediti sottostanti (impacchettati per costruire l’obbligazione). Gli investitori, nelle cartolarizzazioni, ricevono infatti pagamenti esclusivamente sulla base del denaro recuperato. Per farlo, Quaestio si affiderà a ditte specializzate che agiranno da “servicer”, gestendo le pratiche con i debitori.

Un’altra manovra su cui sono puntati gli occhi del settore riguarda Unicredit. La banca guidata da Jean-Pierre Mustier è in procinto di varare un aumento di capitale che potrebbe arrivare a 13 miliardi (cifra non ancora confermata). Una parte importante di questo progetto riguarda lo scorporo di un portafoglio di crediti deteriorati, del valore nominale di circa 20 miliardi. A queste due operazioni monstre se ne affiancano una serie di più piccole. Tra le più interessanti c’è quella che Carige ha condotto nelle scorse settimane, cedendo a Prelios un portafoglio da 900 milioni. L’intenzione del gruppo è quella di replicare uno schema già utilizzato con la Banca Popolare di Bari che già fa ampio uso della Gacs. La banca pugliese ha venduto un pacchetto di oltre 21.000 crediti deteriorati a un prezzo di 150 milioni, a fronte di un valore nominale di 500 milioni. Il portafoglio, una volta cartolarizzato, è stato diviso in una tranche senior da 126 milioni, un mezzanino di 14 milioni e un segmento junior di 10 milioni. La banca ha poi deciso di riacquistare la parte più sicura che, grazie alla Gacs è considerata senza rischio e non consuma pertanto capitale.

Questo schema ingegnoso ha permesso alla banca di vendere i suoi crediti a un prezzo (31%) sensibilmente più alto rispetto a quello che era stato offerto prima della creazione della garanzia. Allo stesso tempo, l’operazione ha consentito alla banca di tenere praticamente gli stessi asset a libro, spostando tuttavia parte del rischio sul contribuente. Un attimo però, stop. Riavvolgiamo l’ultima parte del nastro.
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Prende corpo, così, la gigantesca discarica pubblica per la spazzatura delle banche.




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Perché la stampa internazionale, le agenzie di rating, i burocrati europei, i capi di governo di mezzo mondo considerano la vittoria del No al referendum del 4 dicembre un pericolo per l’Italia? Non certo perché sono dei seguaci del renzismo: la loro preoccupazione, tanto per cambiare, sono le nostre banche. Cosa c’entrano con il referendum? Lasciamo parlare Standard & Poor’s, per esempio. L’agenzia di rating americana spiega che, «se il piano di riforme non ottenesse il via libera dal voto dei cittadini», «probabilmente rallenterebbe» lo scioglimento del nodo crediti deteriorati, «perché l’attenzione si sposterebbe sulle questioni politiche più che su quelle finanziarie».

TRABALLANTI In pancia alle banche italiane ci sono circa 350 miliardi di prestiti traballanti, tecnicamente crediti deteriorati che da qualche tempo abbiamo cominciato a chiamare npl (dall’inglese non performing loans, prestiti non performanti). Per capire verso quali scenari ci stanno portando è necessario sapere come sono arrivati. Npl sono tutti quei finanziamenti (crediti per le banche, debiti per gli altri) la cui riscossione è incerta. Si classificano in varie categorie, le principali sono gli incagli e le sofferenze. Le sofferenze sono quei soldi prestati a soggetti che si trovano più o meno in stato d’insolvenza. Gli incagli sono quelle esposizioni nei confronti di soggetti in difficoltà obiettiva ma temporanea. In Italia le sofferenze sono circa 200 miliardi e circa 150 miliardi sono gli incagli e le altre categorie.

PROBLEMI Una banca deve coprire di tasca propria tutte le posizioni che per qualche motivo, parzialmente o in toto, non sono più rientrate. Se è stata previdente e ha accantonato i soldi nel fondo rischi non ci sono problemi, fa parte del mestiere. Il problema nasce quando cominciano a deteriorarsi una percentuale sempre più alta dei prestiti erogati. Peggio ancora se questo succede quando gli utili sono scarsi. La bomba infine esplode quando, senza utili e con percentuali altissime di accantonamenti, anche il capitale, che nei bilanci fa da diga ai prestiti andati a male, si sbriciola. Ed è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi.

COPERTURE Cerchiamo di capire meglio come le banche possono coprire le perdite che le sofferenze determinano nei loro bilanci. Prima si usano gli accontonamenti (se sono stati fatti), poi gli utili (se ci saranno) e in ultima istanza il capitale (se ne è rimasto). C’è anche un’altra possibilità: i crediti deteriorati possono essere venduti in saldo a società che ne diventano proprietarie e che si ingegnano per recuperare dai debitori qualcosa in più rispetto al prezzo a cui l’hanno comprato. In questi anni, per affrontare la botta, le 700 banche italiane si sono frugate in tasca parecchie volte. Dei 200 miliardi di sofferenze attuali, oggi più della metà sono assistiti da coperture. Senza ne rimangono 85 miliardi. Detta in un’altra maniera, i 200 miliardi di sofferenze hanno coperture medie per il 57,5%. È dunque il restante 42,5%, gli 85 miliardi, il vero buco nero del nostro sistema creditizio. Questa è la cifra da tenere a mente. Cifra che, per dare un metro di paragone, corrisponde a circa cinque Finanziarie (adesso si chiamano Legge di Stabilità), ovvero cinque anni di politica economica dello stato italiano.

PULIZIA Il problema è emerso drammaticamente quando la Bce ha chiesto ai nostri istituti (e non ha iniziato la frase con «per favore») di fare pulizia velocemente, cioè di coprire in fretta anche i restanti 85 miliardi. Solo che questa richiesta è arrivata dopo anni di sanguinosi accantonamenti e in un periodo in cui la redditività delle banche, lo abbiamo detto tante volte, è praticamente azzerata. Come si fa dunque a mettere quattrini senza averli? Rimane una sola via: vendere le sofferenze. Ci sono delle società che fanno questo di mestiere, lo abbiamo detto. Ma come sempre l’urgenza costa cara.

ROSSO Il mercato, conoscendo i tempi delle cause civili e dei contenziosi in materia fallimentare, si è guardato bene da correre in massa a comprare le nostre sofferenze, e soprattutto si è detto disposto a pagarle non più del 20% del loro valore nominale. Quindi, anche ammettendo che le banche riescano a vendere tutte le sofferenze che hanno in bilancio, non basterebbe a tappare il buco. I calcoli sono semplici: il 20% di 200 sono 40 miliardi. Per cui resterebbero 45 miliardi (85-40) che a questo punto diventerebbero immediatamente perdita nel conto economico. Possono le banche italiane sopportare un rosso di 45 miliardi? No. Né le più grandi, né le più piccole hanno risorse per fare fronte così velocemente a una pulizia di bilancio. Dunque il dettaglio non insignificante è che se le banche dovessero prendere atto di questa montagna di sofferenze andrebbero a gambe all’aria da un giorno all’altro.

FUGA Vie di fuga? Governo e sistema bancario ne stanno mettendo in campo due. Il Fondo Atlante, che dovrà occuparsi di comprare le sofferenze a valori più alti di quelli di mercato e organizzarne la cartolarizzazione, e le Gacs (Garanzie cartolarizzazione sofferenze), un’assicurazione messa a disposizione dal Tesoro per aiutare il collocamento delle sofferenze sul mercato. Senza entrare in tecnicismi, prendiamo a esempio un caso in cui entrambi saranno coinvolti a breve: la cessione delle sofferenze di Mps. La banca senese venderà l’intero portafoglio sofferenze (28 miliardi nominali) al Fondo Atlante in cambio di 9-10 miliardi cash (il 33% del nominale, rispetto al 20% che offriva il mercato). Atlante impacchetterà i prestiti in una cartolarizzazione, dividendola poi in tre tranche. La più sicura verrà coperta dalla garanzia statale (Gacs), il mezzanino sarà tenuto dallo stesso Fondo Atlante, mentre la porzione più rischiosa, la tranche junior, verrà distribuita agli azionisti Mps. Sul mercato sarà collocata solo la tranche senior (quella con la Gacs), e chi la comprerà si ritroverà un’obbligazione a tasso fisso con la garanzia dello Stato, in definitiva un Btp.

MANOVRE Un’altra manovra su cui sono puntati gli occhi del settore riguarda Unicredit. La banca è in procinto di varare un aumento di capitale che potrebbe arrivare a 13 miliardi. Una parte importante del progetto riguarda lo scorporo di un portafoglio di sofferenze del valore nominale di 20 miliardi. Anche qui l’intenzione è di usare, per la tranche senior, la garanzia statale. A queste due operazioni se ne affiancano una serie di più piccole. Tra le più interessanti quella condotta dalla Banca Popolare di Bari che ha già fatto ampio uso della Gacs (e che sta per essere replicata da Carige). La banca pugliese ha venduto un pacchetto di crediti deteriorati dal valore nominale di 500 milioni a un prezzo di 150 milioni (31%). Il portafoglio, una volta cartolarizzato, è stato diviso nelle solite tre tranche: una senior da 126 milioni, un mezzanino di 14 milioni e un segmento junior di 10 milioni. La banca ha poi deciso di riacquistare in toto la parte senior che, grazie alla Gacs, abbiamo visto, è considerata senza rischio e non consuma pertanto capitale.

RICORDI In pratica la garanzia statale ha permesso alla banca pugliese di vendere le sue sofferenze a un prezzo sensibilmente più alto rispetto a quello che era stato offerto prima della creazione delle Gacs. Allo stesso tempo, l’ingegnoso schema di ricomprare la tranche senior, gli ha consentito di tenere praticamente gli stessi asset a libro, spostando tuttavia gran parte del rischio sullo Stato. Un attimo. Abbiamo capito bene? Le banche stanno facendo pulizia di bilancio rivendendo le sofferenze a se stesse e scaricando il rischio sui cittadini? Cioè si prendono dei crediti andati a male, si impacchettano dentro delle obbligazioni e si fanno diventare buone grazie a una garanzia statale. Non c’è neanche bisogno di un mercato: l’operazione va in porto perché è la banca stessa a ricomprarle. Praticamente con i (troppi) soldi incassati vendendo spazzatura ricompra dei sicurissimi Btp. La pratica non ricorda forse qualcosa che inizia con sub e finisce con prime? Staremo a vedere. Intanto la gigantesca discarica pubblica per la spazzatura delle banche ha ufficialmente aperto i battenti.



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NPL
Nella pancia delle banche italiane ci sono circa 350 miliardi di prestiti traballanti. Le sofferenze sono 200 miliardi e circa 150 miliardi sono gli incagli.

BUCO
Le sofferenze hanno coperture medie per il 57,5% del loro valore nominale. Il restante 42,5%, 85 miliardi, è il buco nero del nostro sistema creditizio.

VENDITA
La vendita sul mercato delle sofferenze porterebbe in cassa 40 miliardi. Resterebbe un rosso da 45 miliardi. Quanto basta per far collassere le banche.

VIE DI FUGA
Governo e sistema bancario stanno mettendo in campo due soluzioni. Il Fondo Atlante e le Gacs. C’è chi ne sta approfittando (forse un po’ troppo).