Isabella Mazzitelli, Vanity Fair 23/11/2016, 23 novembre 2016
Mi sentivo anche magro Primo problema. Mirko Frezza ha una faccia bellissima e lo sa, e reggere il suo sguardo azzurro è difficile
Mi sentivo anche magro Primo problema. Mirko Frezza ha una faccia bellissima e lo sa, e reggere il suo sguardo azzurro è difficile. Per fortuna ha un incisivo rotto, e questo difetto - che proprio dovrebbe correggere se come dice vuole fare l’attore e non il caratterista - pareggia un po’ il conto. Secondo problema. Si fa l’intervista da solo. Non aspetta le domande, dilaga, interrompe, divaga: torrenziale, divertente, intenso, autentico, ma totalmente ignaro o indifferente all’etichetta delle interviste. Terzo problema. È romano. Per una romana, intervistare un romano vernacolare è un vantaggio, si sa il contesto e il senso di ogni singola parola. E purtroppo, anche per chi non è local, anni di cinepanettoni, fiction teverine e romanzi criminali hanno svezzato alla rozza calata capitolina ogni italiano, chi irritandosi, chi divertendosi. Il fatto però è questo: che si fa, dovendo scrivere? Si spurga la grevezza, si adatta? O si lascia l’originale con sottotitoli? Tanto per cominciare, Mirko Frezza, che ha 44 anni, dai 19 ai 40 ha fatto «l’impicci». Di impicci a Roma vivono in tanti, dalle parti sue a Roma Est, quartiere La Rustica, sottoquartiere Casale Caletto - non borgate pasoliniane, sia chiaro, ma quartieri di proletari e borghesia minima costruiti nel nulla tra la campagna e il raccordo anulare e per decenni lasciati nel fango dalle amministrazioni. Gli impicci facilmente portano in galera, e Frezza non ha fatto eccezione. Criminale? Troppo. Delinquente? Sì. Per la legge, pregiudicato: niente che non si possa rimediare con alcuni anni di galera: 7, dentro e fuori. Non le rapine, non la droga, va detto, da quello è stato assolto. A un certo punto, con due figlie e un terzo in arrivo, Mirko Frezza ha deciso di farsi il più bel regalo della sua vita, darsi una possibilità, un piano B: uno vero, non quei sogni confortevoli che tutti noi vagheggiamo quando ci stufiamo di andare in ufficio. Un piano che ha richiesto uno sforzo titanico e poi una manutenzione molto attiva, attenta, quotidiana, condivisa dalla sua famiglia allargata, che comprende i suoi amici di sempre, i primi a fare l’impresa di stare dal lato illuminato della strada, a restarci, a portarci lui. È diventato attore: per caso, per una botta di fortuna, per alcuni angeli inconsapevoli, il primo dei quali - «Devo tutto a lui» - è Alessandro Borghi, che l’ha «capato» (scelto) a La Rustica e l’ha trascinato nel mondo di quelli come noi. Lo dice Frezza, sia inteso: «Adesso ho anche la commercialista. E all’avvocato gli telefono per gli auguri. E ce l’ho pure io l’iPhone come lei. Prima usavo cellulari e dopo 10 minuti li buttavo al secchio, pe’ strada». Prima, ai tempi degli impicci. In vista dei 40 anni la svolta: ha cominciato a bazzicare il Centro Sperimentale di Cinematografia, la sua faccia pericolosa e virile, e il fisico tatuato da orco buono - addominali rilassati ma pugni d’acciaio - si sono dimostrati perfetti per diversi esordi, spot, corti, comparsate, lavori da stuntman, fiction. Per il cinema, il primo ciak è in Cinque nel 2009 con Francesco Maria Dominedò, con il quale ora sta girando La banda dei tre. In Tv, è in onda su Raidue nella serie Rocco Schiavone. Il 24 novembre esce a Roma, e una settimana dopo nel resto d’Italia, Il più grande sogno, il film di cui è protagonista, presentato tra gli applausi alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti. Opera prima del regista romano Michele Vannucci, 28 anni di talento. Non è la decalcomania della sua storia, ma alla sua biografia è molto, molto ispirato. Compresa la parte della «redenzione sociale»: l’impegno anima corpo e soldi - «27 mila euro, i soldi della mia brutta vita» - per creare assieme a Paola Da Grava l’associazione Casale Caletto, un centro che ha rivitalizzato il quartiere, un’alternativa alla strada per i ragazzi e un aiuto per tutti: «Distribuiamo vestiti, forniamo assistenza legale, diamo 1.650 pasti caldi al mese. C’era gente che non aveva mai mangiato una mozzarella o uno yogurt di marca». Vita intensa, la sua. «Da ragazzino volevo fare il poliziotto. Studiavo al Convitto Nazionale, scuola privata. Ho fatto domanda a 17 anni, ma per problemi legali di mio padre l’hanno respinta». Suo padre, nel film, è un tipaccio. «Ecco, quello è tutto inventato: il personaggio è l’insieme di 4 o 5 della zona un po’ sopra le righe. Mio padre è molto diverso. Però deve immaginare il contesto: anni ’70, La Rustica. Chi non ha fatto le cazzate? Nessuno. O bazzicavi la Banda della Magliana o i terroristi. So che non è normale, ma a Roma Est era così». Il film quindi non è la sua vita. «È ispirato alla mia vita. Romanzata. Mia madre c’è e fa la nonna. Mia figlia Michelle non è così ribelle e arrabbiata, ha 12 anni, fa la terza media, è bravissima a scuola, vuole fare il linguistico, la sera guardiamo la Tv abbracciati e sarà il bastone della mia vecchiaia». Suo padre, la figlia maggiore e sua moglie sono interpretati da attori, sua figlia Crystel invece recita. «Ha un talento, a 9 anni ha già un agente». Sua moglie la fa Milena Mancini. «Meravigliosa. Ci siamo raccontati un sacco di cose per entrare in sintonia, e si vede. Nella vita però io ho sposato Vittoria, 38 anni, casalinga a tempo pieno: Heather Parisi con la testa della Sora Lella». Cioè? «Bellissima, elicla faccio vedere sul telefono. E questo è Giampiero, due anni e mezzo. Mia moglie si dedica completamente ai figli, e a me: la vede questa panza? È il mio incubo. Se mi chiedessero: “Che voi dalla vita, i soldi?”, direi “No, damme gli addominali”». Ma come si fa? Torno a casa e so’ lasagne, cacio e pepe, cannelloni, ciambellone...». Alessandro Borghi interpreta il suo amico Boccione. «Lo vede questo tatuaggio sul polso? La B sta per Boccione, la T sta per Tito. Le mogli vanno e vengono - dico per dire -, gli amici sono per sempre. Brocchini Fabrizio si chiama, per davvero». Facciamo un passo indietro. Dopo la galera, prima del cinema. «Gli amici. Loro si sono messi a lavorare davvero, ad ammazzarsi di fatica. Io mi sono messo in scia. Ho cominciato a lavorare in una ditta di lavorazione carni. Maiali. Mi alzavo alle 4, resistevo per mia moglie, perché era tranquilla, e per gli amici che si facevano il culo. Poi mi occupavo anche di eventi per i raduni dei motociclisti, e di trovare location per il cinema. È così che è andata». Nel film dice che le avevano detto che sarebbe morto a 33 anni. «Sparato. È vero. Per due volte a distanza di anni mi hanno letto la mano. E da lì che ho cominciato a fare un po’ di svarioni. Ci avevo creduto. Non avevo paura di niente, mi sentivo Highlander, non pensavo di avere un futuro. Poi sono finito in galera. Poi ho conosciuto mia moglie». Il film è una storia criminale? «No. è un film sulla paternità. Sulla responsabilità. Sulle seconde occasioni. Su quello che ti cura». Sogni? «Mi piacerebbe una casa più grande, in Umbria. Voglio fare l’attore e un western, anche gratis. Ma sono molto molto felice già oggi. Sono stato a Venezia al festival con mia moglie. La prima volta in 13 anni che ho dormito quattro notti senza figli nel letto. Al Lido erano tutti stressati, io stavo una favola, tranquillissimo. Mi sentivo anche magro». Lei è stato in prigione. Che opinione ha della giustizia? «È lenta, ma arriva sempre. Nun la pijate per culo».