Marina Abramovic, Vanity Fair 23/11/2016, 23 novembre 2016
La mia adolescenza fu disperatamente goffa e infelice. Nella mia testa ero la ragazza più brutta della scuola, di una bruttezza incredibile
La mia adolescenza fu disperatamente goffa e infelice. Nella mia testa ero la ragazza più brutta della scuola, di una bruttezza incredibile. Ero alta e magra, e i ragazzi mi chiamavano la Giraffa. Ero così alta che dovevo stare in fondo, ma non riuscivo a vedere la lavagna, e così pigliavo brutti voti. Alla fine capirono che avevo bisogno di occhiali. Non stiamo parlando di occhiali normali, ma di quelli orrendi che potevano esserci in un Paese comunista, con lenti spesse e montature pesanti. Così cercavo di romperli mettendoli sulla sedia e sedendomici sopra. O li lasciavo sul bordo della finestra e facevo finta di chiuderla per sbaglio. Mia madre non mi prendeva mai i vestiti che avevano le altre ragazze. Per esempio ci fu un periodo in cui andavano di moda le sottogonne. Mi sarei svenata per averne una. Ovviamente mia madre me la negò. E non perché i miei genitori fossero poveri. Di soldi ne avevano. In quanto partigiani e comunisti, ne avevano più di chiunque altro: erano la «borghesia rossa». Così per fingere di avere una sottogonna mi infilavo sei o sette gonne una sopra l’altra. Ma l’effetto non era mai quello giusto: si vedevano i vari strati, oppure una delle gonne cadeva. E poi c’erano le scarpe ortopediche. Avendo i piedi piatti, dovevo indossare calzature correttive speciali – e anche queste non erano calzature normali, ma orribili prodotti socialisti, di spessa pelle gialla, che arrivavano fino alle caviglie. E non bastava che fossero brutte e pesanti: mia madre andò dal calzolaio e gli fece applicare due pezzi di metallo alle suole – come gli zoccoli di un cavallo – per evitare che si consumassero troppo in fretta. Cosi quando camminavo facevo clop clop. Mi sentivano ovunque con quelle scarpe. Avevo paura anche solo a camminare per strada. Se c’era qualcuno alle mie spalle mi fermavo in un androne per farlo passare, tanto mi vergognavo. Ricordo in particolare una parata del 1 ° maggio in cui la nostra scuola aveva il grande onore di sfilare davanti a Tito in persona. La nostra formazione di marcia doveva essere perfetta e per questo avevamo fatto un mese di prove nel cortile della scuola. La mattina del 1 ° maggio ci trovammo per partecipare alla parata ma, poco dopo avere cominciato a marciare, una delle mie suole di metallo si staccò, impedendomi di procedere a tempo. Mi allontanarono immediatamente. E mi misi a piangere dalla vergogna e dalla rabbia. Con due gambe magre, scarpe ortopediche e occhiali orrendi, potete immaginare come mi potessi sentire. Come non bastasse, mia madre mi tagliava i capelli sopra le orecchie, li teneva all’indietro con un fermaglio e mi faceva indossare vestiti di lana pesante. Avevo una faccia infantile con un nasone inverosimile. Quest’ultimo era cresciuto ma la faccia no. Mi sentivo orrenda. Spesso chiedevo a mia madre se potessi farmi una plastica al naso, e ogni volta mi beccavo un ceffone come risposta. Allora escogitai un piano segreto. Erano gli anni in cui Brigitte Bardot era una grande star, e per me era l’ideale di bellezza e di sex appeal. Pensavo che, se solo avessi avuto un nasino alla Brigitte Bardot, avrei risolto ogni problema. Così architettai quella che per me era la soluzione perfetta. Ritagliai foto della Bardot che mostravano il suo bel naso da ogni angolatura: di fronte, girata verso destra, girata verso sinistra. E me le infilai in tasca. Mia madre e mio padre condividevano un enorme letto matrimoniale di legno. Una mattina rimasi sola in casa: mio padre era andato a giocare a scacchi in centro, come faceva spesso, mentre mia madre era uscita a prendere un caffè con le amiche. Andai nella loro camera da letto e cominciai a roteare su me stessa più veloce che potevo. Volevo cadere contro il telaio del letto e rompermi il naso per finire all’ospedale. Con le foto di Brigitte Bardot in tasca, pensavo che per i medici sarebbe stato uno scherzo rifarmi il naso secondo quel modello, già che ero lì. Per come la vedevo io, il mio ragionamento non faceva una grinza. Così mi misi a girare fino a sfracellarmi contro il letto, ma anziché battere il naso mi feci un brutto taglio su una guancia. Per un bel po’ rimasi a sanguinare sul pavimento. Alla fine tornò mia madre. Con sguardo severo ricostruì quello che era successo, buttò le fotografie nel gabinetto e mi diede un ceffone. Con il senno di poi, sono felice di non essere riuscita a rompermi il naso. Penso che con un naso alla Brigitte Bardot la mia faccia sarebbe stata un disastro.