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 2016  novembre 29 Martedì calendario

TUTTI IMPRENDITORI CON LA SHARING ECONOMY



L’impatto sociale della sharing economy è dirompente, così come i problemi regolatori che genera in molti campi dell’economia tradizionale. Eppure, anche se prescinde dalla proprietà, questa tendenza ha poco ha che fare con il non profit: alimentata da imprese miliardarie, l’economia della condivisione promette di moltiplicare gli attori che facilitano l’incontro fra domanda e offerta sul mercato, rendendoci alla fine tutti capitalisti.

Un nuovo paradigma s’aggira per il mondo, questo mondo dal quale riemergono molti fantasmi del passato, dal protezionismo al nazionalismo negativo. Non è più la lotta di classe, anche se i conflitti sociali riemergono prepotenti: tra ricchi e poveri, tra vincitori e vinti nella lotta spenceriana per la supremazia sul mercato mondiale. Non è il socialismo né, tanto meno, il comunismo. anche se si possono trovare punti di contatto nel comunitarismo di chivuol condividere i beni, il consumo, i valori d’uso. Nonè la decrescita più o menofelice, anche se il nuovo che avanza si muove anch’esso dentro un orizzonte da stagnazione secolare, come sostiene Larry Summers. Il paradigma del quale parliamo si chiama economia condivisa, sharing economy. o consumo collaborativo, e ambisce a diventare un nuovo modo di vivere e di mettersi in relazione con gli altri.Ne è convinta Maria Eriksson di Uppsala (dove sorge la più antica e importante università svedese) la quale, però, s’è posta una domanda molto concreta: funziona? Si può vivere solo mettendo in comune qualsiasi cosa, uscendo dal meccanismo dominante di accumulazione e distribuzione? Così, ha deciso di trascorrere un anno intero immersa nel nuovo universo post-mercantile: mangiando, viaggiando, abitando, mettendo in comune le stanze della propria casa, persino la toilette, scambiando denaro e oggetti attraverso il commercio collaborativo e facendo ricorso all’antica arte del baratto risorta grazie al mondo web.Robinson Crusoe fu l’eroe del capitalismo individualista, Maria Eriksson sarà la bandiera della sharing economy? In attesa di sapere se il suo esperimento è riuscito, chiediamoci che cosa è oggi questa economia parallela, come è nata, quali processi mette in moto e quali valori genera. Anche perché c’è chi, al contrario di quel che si tende a credere, è convinto che non siamo di fronte a uno dei tanti tentativi, più o meno utopici, di fuoriuscita anarchico-democratica dal capitalismo delle grandi istituzioni, ma a un percorso che conduce piuttosto al capitalismo diffuso: non la società dove tutti cacciano e pescano mentre i robot fanno il lavoro sporco – variante tecnologica del paradiso terrestre evocato nell’ideologia tedesca da Karl Marx e Friedrich Engels — bensì un universo in cui in fondo tutti diventano capitalisti pur avendo rinunciato al possesso individuale dei beni di produzione e consumo. Potremmo chiamarlo, semmai, uno scenario post-borghese, se siamo d’accordo che la proprietà privata è all’origine della società borghese. Le ricadute, anche politiche, sono evidenti, perché, come ha scritto Crawford
B. McPherson, proprietà e libertà rappresentano il cardine inscindibile sul quale girano le porte del mondo dalla rivoluzione inglese del XVII secolo a oggi. Ma procediamo con ordine.TUTTO CAMBIA CON INTERNET. Il nome del fenomeno risale al 197» e fu coniato da Marcus Felson e Joe L. Spaeth nel l’articolo “Community structure and collaborative consumption: a routine activity approach” pubblicato nel American Behavioral Scienlist. In realtà, si tratta di una definizione-ombrello che copre sia nuovi comportamenti di consumo collegati a loro volta a problemi e preoccupazioni collettive di natura ecologica o sociali, sia certi sviluppi delle nuove tecnologie come l’open source o il peerto-peer. È una innovazione distruttiva che, a differenza dal modello schumpeteriano, non nasce dalla mente e dalle risorse di un solo imprenditore-innovatore, ma dalla cultura della Silicon Valley come sottolinea uno studio recente1, l’impatto delle nuove tecnologie è in effetti un punto chiave. Senza internet diffusa non sarebbe possibile nessuna sharing economy. Di per sé il modello di business non è strettamente innovativo. D’altronde, il vecchio B&B può essere considerato un antecedente di Airbnb. La differenza sta nei numeri e nella capillarità del servizio permessi dalla disintermediazione digitale, che ha fatto emergere una serie di transazioni un tempo semplicemente inimmaginabili. Quando sono in ritardo a un appuntamento, posso sapere tramite una applicazione se uno sconosciuto che passa per la via è disposto a darmi un passaggio, mentre un’altra può dirmi se qualcuno sulla superficie del globo desidera occupare il mio appartamento quando parto in vacanza.UN IMPATTO SOCIALE DIROMPENTE. I nuovi comportamenti si stanno diffondendo molto rapidamente e hanno un forte potere diffusivo: dai consumi ai servizi, dal trasferimento di proprietà alla moneta, già oggi attraversa un numero molto vasto di attività. Forbes ha stimato che “i redditi che fluiscono direttamente dalla sharing economy nei portafogli della gente sorpassano già i 3,5 miliardi di dollari con un lasso di crescita che supera il 25% annuo“, (di investitori guardano alla sharing economy come a un mega trend, investendo centinaia di milioni in sempre nuove start-up collegate. Inoltre, l’economia condivisa è destinata ad avere un impatto sociale maggiore, dunque attira l’interesse anche della politica.Uber o Blablacar per i trasporti automobilistici, Airbnb per una casa in vacanza, sono solo alcuni nomi diventati popolari, ma attenzione, ci sono almeno 131 piattaforme per affittare una casa, 60 per prendere in prestito qualsiasi cosa. 51 per acquistare beni usati. 59 per donazioni, 59 per scambi alla pari, e sono solo alcune stime approssimative perché è difficile tenere dietro al pullulare di iniziative che partono per lo più dal basso, nascono e muoiono. Airbnb con il suo milione e mezzo di camere è la piti grande catena alberghiera del mondo, l’ultima novità è la baby sitter. In Europa al primo posto c’è la Norvegia: addirittura il 41% dei genitori trova naturale condividere con altre famiglie chi tiene a bada i bambini la sera, risultando il paese più incline ad aderire alla formula. In Finlandia e Danimarca la percentuale si mantiene allo stesso modo alta (37,50%). Al terzo posto tro-
viamo l’Italia: addirittura il 34% sarebbe disposto a pagare leggermente di più, lasciando spazio alla possibilità di prendere in considerazione formule più vantaggiose quali il baby sitter sharing.GRANDI PROBLEMI REGOLATORI. Poiché in teoria tutto può essere condiviso, i tradizionali fornitori di beni e servizi si vedono già sommersi da questa economia flessibile, fluida, che avanza come una marea, e cercano di innalzare dighe. Sono note le proteste dei tassisti di mezza Europa – più violente a Parigi – contro UberPop, l’applicazione dell’azienda californiana che consente di dare passaggi in auto in cambio di un rimborso, già messa al bando in Italia, Germania, Francia e Belgio. Mentre in Cina per sopravvivere Uber è dovuta scendere a patti con la concorrente locale: Didi Chuxing si compera il brand e il servizio, la società americana diventa azionista della compagnia cinese (nasce così un colosso da 35 miliardi di dollari). Protestano gli entusiasti della condivisione a pagamento che vedono l’occasione per porre line al monopolio delle licenze per i taxi.A beneficiarne sarebbero non solo i consumatori ma la società tutta giacché la libera concorrenza è il pungolo dell’innovazione. Ciò vale anche per Airbnb, la piattaforma online che consente di affittare camere o appartamenti a prezzi più abbordabili rispetto ai listini degli alberghi tradizionali. Perché scegliere l’hotel quando si può risparmiare optando per proprietà altrui che resterebbero, altrimenti, oziosamente sottoutilizzate? Che la domanda sia retorica lo dimostrano le cifre vantate da Airbnb la quale, col suo milione e mezzo di camere, si pone de facto come il più grande albergo del mondo. Un’espansione che fa gioire viaggiatori seriali e occasionali, ma ha suscitato diversi interrogativi. Il New York Times, in un articolo intitolato ‘Il lato oscuro della sharing econorny”, ha sottolineato le potenziali conseguenze sul mercato immobiliare della Grande Mela dove l’impennata di affitti turistici a breve termine rischia di restringere l’offerta per i residenti locali con conseguente rialzo dei prezzi.Gli effetti economici e sociali, dunque, sono dirompenti a tutti i livelli e ciò pone un serio problema regolatone. Fino a dove spingersi? Qual è il punto di equilibrio che non soffochi l’innovazione, ma ne controlli l’impatto sociale o anche legale? La questione più sofisticata riguarda il fatto che i servizi condivisi a vario livello fanno capo a degli hub separati dai loro utilizzatori: fino a che punto i singoli operatori sono responsabili? E dove entra in gioco la responsabilità di chi controlla il servizio e di chi possiede la compagnia?UN TENTATIVO DI ARMONIZZAZIONE. L’Unione Europea ha discusso cinque linee guida. Vediamole:Armonizzare le regole dei paesi t K. Alcuni servizi, come Uber, vengono vessati in molti paesi (in Francia gli amministratori della società sono finiti in tribunale con il rischio di cinque anni di carcere e multe salatissime). Serve, dunque, armonizzare le normative nazionali, e le linee guida sono pensate per assolvere questa funzione. Una direttiva coerente in tutta l’UE potrebbe essere una spinta per l’economia, facilitando le aziende che non dovranno più barcamenarsi tra 28 diversi leggi nazionali.Ridurre al minimo i divieti a servizi come Airbnb. Bruxelles critica alcune misure come quelle pensate da Berlino che ha proibito ai cittadini di offrire in affitto l’intera casa su Airbnb o servizi simili, senza un’autorizzazione preventiva da parte delLammidistrazione cittadina (fino a 100.000 euro di multa per i trasgressori). I berlinesi possono affittare camere, ma per l’intera casa ci vuole una licenza che di fatto equipara la proprietà a un regolare bed&breakfast. Soluzioni di questo tipo sono difficili da giustificare e andrebbero adottate solo come ultima spiaggia – come ha scritto recentemente il Financial Times.
Limiti per gli affitti di case. La Commissione è favorevole a misure .so//, come l’introduzione di limiti al numero di giorni in cui è possibile dare in affìtto un proprio appartamento o una stanza su siti di condivisione. Limitazioni che dovrebbero aiutare a combattere al rialzo incontrollato degli affitti di cui è accusata la piattaforma e il recupero dell’indotto da parte degli attori tradizionali. A Berlino dal 2009 al 2014 gli affìtti sono cresciuti del 56% e sono 6,1 milioni i pernottamenti l’anno “persi” dalle catene alberghiere.
Qualificare gli autisti. Gli autisti di Uber vanno considerati come dipendenti? Questo è il punto che di più spaventa la Silicon Valley e i principali attori della sharing economy, Bruxelles spiega che non è compito dell’azienda stabilire le tariffe. In caso contrario i collaboratori diventerebbero veri e propri dipendenti e sarebbe necessario siglare con loro un contratto di lavoro, con tutti i costi aggiuntivi che questo comporterebbe a carico dell’azienda. Una linea che, se confermata, vedrebbe soprattutto l’opposizione di Uber che ha sempre sostenuto la tesi che gli autisti di cui si serve per il servizio non sono suoi dipendenti.Aumentare la fiducia dei clienti. La Commissione europea si esprime a favore sul tema del rating, il meccanismo che molte piattaforme usano per aumentare la fiducia dei clienti. L Io stesso usato da Uber per gli autisti: più sono votati dai clienti, più sono affidabili e più salgono nel ranking. Ber molti detrattori è un meccanismo pericoloso per il consumatore nel quale non si misura la reale affidabilità dell’autista, la Commissione è di parere contrario.ALTRO CHE NON PROFIT. In ogni caso, nel discutere di et •onomia condivisa non si può sottovalutare la sua carica ideologica. Se prendiamo, ad esempio, la condivisione di informazioni digitali possiamo notare quanto sia forte, anzi prevalente, la scala di valori che anima le diverse comunità, È il caso dei Pirati che hanno dei loro partiti, organizzano dei raduni, fanno lobbying. Questo è vero anche in altre attività persino mercantili e finanziarie (il rilancio del baratto o persino Bitcoin). In Italia un’organizzazione politica come il Movimento 5 Stelle è permeata, più o meno strumentalmente, dalle ideologie che circolano sul web, tanto che la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e quella di Torino, Chiara Appendino, parlano di incentivare il baratto.Libertà e proprietà si separano, dunque, però attenzione: l’economia condivisa non ha nulla a che fare con la carità, il dono, il non profit. Anche se per molti aspetti il confine si fa sottile, stiamo parlando di imprese miliardarie, vere e proprie multinazionali che fanno profitti a palate e intendono continuare su questa strada. Tutto bello, tutto così a portata di consumatore, cosi social, così unificante in un mondo caotico e dispersivo. Ma, visto che c’è dietro un’attività economica generatrice di utili, la condivisione riguarda solo l’uso dei servizi, non la loro generazione. I protagonisti della sharing economy sono attori di mercato i quali, dietro un compenso più o meno modesto, facilitano l’incontro tra domanda e offerta, rendendo produttive e lucrative proprietà altrimenti sottoutilizzate. L’automobile, lo scooter, il proprio appartamento, si trasformano in mezzo di produzione, o meglio in capitale dotato di un immediato valore di scambio e non solo d’uso. Insomma, per una di quelle eterogenesi dei fini tanto frequenti nella storia degli uomini, sarà la condivisione a rendere tutti capitalisti-imprenditori? Così, Maria Eriksson diventerà non l’antagonista, ma l’ultima discendente di Robinson Crusoe.1 Julio Amari, Mimmi Sjoeklint, Anni Ukkonen, ‘The sharing economy”, Journal oj lite Associationfor Information Science and Technology, luglio 2015.