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 2016  novembre 27 Domenica calendario

GIOVANNONA COSCIALUNGA ERA UN FILM PER EDUCANDE. OGGI LA VOLGARITÀ È INUTILE– [Sergio Martino] Idiosincrasie degli attori: “Milian aveva grandi angosce personali, era competitivo e lunatico

GIOVANNONA COSCIALUNGA ERA UN FILM PER EDUCANDE. OGGI LA VOLGARITÀ È INUTILE– [Sergio Martino] Idiosincrasie degli attori: “Milian aveva grandi angosce personali, era competitivo e lunatico. Un giorno ti amava e quello dopo ti odiava. Una sera a cena, Tomas inizia con il gioco della torre. ‘Chi getteresti tra me e la Fenech?’. Svicolo: ‘È la compagna di mio fratello Luciano, preferirei non rispondere’. Allora punta l’operatore Claudio Morabito: ‘Chi butteresti tra me e la Fenech?’. Claudio, serenamente, dice la sua: ‘Butterei te perché lei è un pezzo di fica’. Passa qualche ora, è notte e squilla il telefono. È Tomas, furibondo: “Devi cacciare quello stronzo di Morabito – urla – mi ha mancato di rispetto. Lo pretendo, altrimenti domani ti cerchi un altro attore. Morabito rimase, ma fu molto, molto dura”. Sergio Martino ha 78 anni e alla vita guarda ancora con ironia. Gialli, polizieschi, commedie, western. Strani vizi, servizi segreti, città tremanti, allenatori nel pallone, ragazze di nome Giovannona dalla coscia molto lunga e dall’onoratissimo disonore che somigliavano a Julia Roberts: “In effetti per Pretty Woman avrei potuto chiedere i diritti. Il titolo del film venne modellato su Mimì metallurgico ferito nell’onore e la frase pronunciata da Edwige Fenech, che ne giustificava il pretesto, messa solo in sede di missaggio. In fondo poteva essere ritenuto allusivo anche il titolo originario Un grosso affare per un piccolo industriale”. Accostato per paradosso allo spettacolo di trivio: “La vita è curiosa. Io che mostravo due seni ero volgare e il cinepanettone in cui si ride con le flatulenze, no” questo signore colto ed elegante che scoprì Nicole Kidman in Un’australiana a Roma: “Era giovane, preparatissima, non l’ho mai più incontrata”, ha firmato più di 70 film. Ad almeno il doppio, in qualunque veste, ha partecipato. Anche da attore: “Ero ne I ragazzi dei Parioli di Corbucci”. Nel lato nord di Roma, nella stessa casa a un passo dal Tevere in cui il nonno regista, Gennaro Righelli, si riuniva per scrivere con Monicelli, Martino vive un’età che a guardarlo non sembra appartenergli: “Spiavo di nascosto mio nonno durante le sessioni di sceneggiatura. Era un fumatore compulsivo che scopava ovunque, morì giovanissimo e al quale raccontavo delle storie. Un pomeriggio muovendomi maldestramente feci cadere una statuetta. Il rumore fece voltare tutti. Me la feci sotto dall’emozione”. Ha smesso di girare solo per questioni anagrafiche? Ho smesso perché non volevo che qualcuno mi dicesse ‘smetti’. Quando ero ragazzo, nel ’69, lavorai a La battaglia di El Alamein di Giorgio Ferroni, l’ex assistente di mio nonno. Ferroni era cresciuto durante il Ventennio. Pisciava in pubblico con le mani sui fianchi in posa da dominatore, amava mantenere un che di mussoliniano nell’atteggiamento e dai noi giovani era trattato alla stregua di un vecchio rincoglionito. Lo consideravamo un regista superato, uno che nonostante i mezzi avrebbe fatto ‘quadruccio’. Quadruccio? L’esercito ci aveva fornito 50 carrarmati e noi eravamo certi che Ferroni li avrebbe ripresi con una camera fissa, senza raddoppiare il punto di vista per far sì che quei 50, per lo spettatore diventassero 300. Per questo ho smesso veramente. Per evitare che dessero del rincoglionito a me. Fino all’avvento degli effetti speciali dagli Usa, il cinema d’azione italiano reggeva il colpo più che degnamente. Facevamo saltare in aria auto pronte per il macero e in America delle macchine nuove di zecca, ma l’impatto sul pubblico era molto simile. Poi? Poi cambiò tutto. Per stare al passo dei Blade Runner sarebbero serviti investimenti sanguinosi, ma la politica fu sorda e da un giorno all’altro si inabissò un’intera industria. A mio fratello Luciano lo dicevo: ‘Ormai ci lasciano solo le briciole’. Con uno degli ultimi bei film che aveva prodotto, Song’e Napule, aveva guadagnato solo 40 mila euro. Le spese per l’ufficio, per la benzina e per qualche cena. Non ne valeva più la pena. Vedevo produttori americani stare al bar e guadagnare dai loro computer 20 milioni di dollari l’anno e poi vedevo Luciano che pur di non andare al bancomat, pigrissimo, si faceva cambiare dalla segretaria assegni da 50 euro. Era cambiato il mondo, ma lui si rifiutava di accettarlo. Avevate visto altro. Nel periodo di massimo agio comprammo una magione in via Cassia. Ci abitavamo con le nostre famiglie, ma Luciano, che si sentiva protagonista di tutto, agli amici non diceva mai: ‘Ti invito nella nostra villa’. E cosa diceva? ‘Ti invito nella mia’. Aveva grande charme e grande carisma. Sapeva riunire, allargare, includere. Tra noi due, quello buono e quello che stava simpatico a tutti era lui. Io ero il Mazzarino, l’eminenza grigia, quello che secondo la vulgata decideva le sorti di un attore o di un regista. Ed era vero? Figuriamoci, io non mi sono mai sentito importante in vita mia. Ci chiamavano i fratellini sexy della commedia all’italiana, ma quella definizione, come le altre, era soltanto uno slogan per semplificare. Non eravate tali? Ma voi l’avete mai visto Giovannona Coscialunga? È un film da educande. Al limite, indulgente al nudo lo sono stato nei film gialli perché lì l’atmosfera morbosa era prevista dal contratto. Poi c’era il titolo. Bisognava esagerare e sfiorare i limiti del buon gusto. I distributori li cambiavano in corsa. Quello di Interfilm vide il copione di I corpi non presentano tracce di violenza carnale e si girò di scatto minaccioso: ‘Come non presentano? Presentano, presentano, ve lo dico io, cambiate il titolo’. Nel cast c’era la tormentata Tina Aumont. Poverina, faceva tenerezza. Non stava bene. Farla star ferma per prendere il fuoco giusto era un’impresa. A Tagliacozzo, il proprietario dell’albergo perse la pazienza: ‘Venga a dire qualcosa a questa signora delle luci’, mi disse. Entrai nella stanza di Tina e vidi decine di lumini, quelli del cimitero. Lei fumava non so cosa sul letto guardando nel vuoto. L’albergatore temeva che incendiasse la struttura. Quel film è tra i preferiti di Tarantino. A Venezia le si buttò ai piedi chiamandola Maestro. Lenzi, Deodato, Castellari: Quentin si è gettato ai piedi di tutti. Oggi lo girerei con un’altra mano. L’ambizione era di riecheggiare Terrore Cieco o in una sequenza notturna nel parco, persino il Blow-Up di Antonioni. Il risultato diverso. Tarantino ha torto dunque? Tarantino conosce e ama quel cinema per averlo divorato ai tempi in cui lavorava in un negozio di videocassette. Fu una stagione molto divertente attraversata dall’incoscienza e dal rischio. Filmavamo in mezzo alle città, senza teatri di posa e senza cautele. In Milano trema: la polizia vuole giustizia dovevamo girare la scena di una rapina in banca lungo l’arco di due giorni. Sul set, era venerdì, mi venne in mente che i banditi in fuga avrebbero potuto far saltare la macchina della Polizia. Così parlai con il maestro d’armi e quello mi rassicurò: ‘Nun se preoccupi dottò’. Esagerò con la polvere da sparo e il boato dell’auto ruppe i vetri dei palazzi circostanti. Per fortuna era festa e c’era poca gente, altrimenti avremmo provocato un guaio serio. Ne Lo strano vizio della signora Wardh, proprio come nei gialli successivi, dalle bambole alla mano dell’assassino, lei lascia sul terreno tante tracce poi riprese da Dario Argento. Copiavamo tutti e quindi anche lui. Gli ultimi non mi hanno entusiasmato, ma i primi film di Dario erano straordinari. E i suoi gialli invece? C’erano delle intuizioni di regia e delle leggende metropolitane: si diceva che il titolo Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave venisse da Freud. Io lasciavo fare, ma che fosse una stronzata lo sapevo. Erano set ricchi? Dipendeva dal finanziatore. A volte giravi a Corcolle o a Manziana fingendo che fosse Messico e altre potevi scialare. Con Ponti avevi 7 settimane e stavi più sereno. Ma tranquillo no, tranquillo di fronte al produttore non eri mai. C’era Mario Cecchi Gori che durante la proiezione, come mi raccontava Benigni, rimaneva impassibile e in silenzio e c’erano quelli come Goffredo Lombardo che senza emozione dicevano soltanto: ‘Taglia questo’. Nei suoi film poteva capitare di incontrare Glenn Ford. I monumenti del cinema americano nella loro fase discendente venivano a far marchette in Italia. Ford era dolce ed educato. A suo dire, ancora innamoratissimo di Rita Hayworth. Alla Medusa di allora dominavano le invenzioni di Colaiacomo e Poccioni. Felice Colaiacomo è morto 15 giorni fa. Aveva un entusiasmo contagioso, per lui i film erano tutti fantastici e meravigliosi: ‘Fatte pagà de più da tu fratello’, diceva. Ed erano fantastici e meravigliosi o erano film da serie B? La definizione B movie tutto sommato era giusta e io mi sentivo come il Sassuolo. Combattevo con la Juventus. Perdere era nelle cose, ma vincere, quando accadeva, restituiva soddisfazioni impensabili. I suoi film hanno incassato molti soldi. A quel tempo si era succubi della critica, ‘dura e pura’ regolarmente di sinistra e molto ostile. C’era una critica feroce del Paese Sera che a ogni film mi massacrava. Di cognome si chiamava Santuari, ma non era ecumenica per niente. Per lei avevo fatto i soldi e quindi rappresentavo il male a prescindere. Era sola? In nutrita compagnia. Nei salottini intellettuali mi guardavano come si guarda la merda. Cos’è la volgarità per lei? Qualcosa di cui si abusa senza ragione e che ha smesso di essere incisiva da anni. Mi ricordo che allo stadio era tutto un tripudio di ‘arbitro, sei un gran fijo de ‘na mignotta’. Quando un giorno si alzò un signore per urlare: ‘Arbitro, lei è un gran maleducato’, venne guardato con sorpresa ammirazione. I suoi film, ci ha detto, non erano volgari. Ho visto Massimo Boldi cagare nelle piramidi e posso dirvi che a quei livelli non sono mai arrivato. Ne La moglie in vacanza, l’amante in città, c’era Banfi, un cameriere che faceva finta di esser frocio, un personaggio delizioso e c’era Montagnani. Renzo assumeva pillole rigeneranti per non fallire con l’amante e invece di quella specie di Viagra trangugiava per errore il Guttalax. Non proprio di grana fine. Ma era una pochade leggera. La casa esplodeva al ritmo dei peti di Montagnani, sì. Ma non si vede niente. E chissà perché le prime sono commedie degne e le mie monnezza. Di Milian – nomen omen – ci ha già detto. Potrei scrivere un libro su Tomas. Un po’ di spocchia attoriale ce l’aveva. In 40 gradi all’ombra del lenzuolo, Edwige Fenech era la ragazza più bella di Faenza. Dovevamo girare una sequenza in cui passava di fronte al barbiere e Tomas, sopraffatto dal desiderio, si lasciava cadere sul lavandino battendo la testa. Dovevo cambiare rapidamente i fuochi e intuendo che avremmo fatto più di un ciak, misi la gommapiuma sul punto di impatto per proteggerlo. Lui rifiutò sdegnato: ‘Vengo dall’Actors studio io, non recito, vivo!’. Concluse la giornata con la testa rossa e tumefatta, ma il peggio venne dopo. Quando tagliai la scena non me lo perdonò. Per lui era fondamentale. Gli attori sono così. In 40 gradi all’ombra del lenzuolo il copione è firmato da Tonino Guerra, già sceneggiatore per Antonioni, De Sica, Fellini, Petri e Monicelli. Tonino era un signore. Aveva scritto un episodio troppo antonioniano e glielo cambiai in corsa. ‘Hai fatto bene’, disse. Un’anomalia: i suoi colleghi se la sarebbero legata al dito. Lei lavorò anche con Luc Merenda e Maurizio Merli. Luc oggi fa l’antiquario in Francia. A me era simpatico, a Tomas un po’ meno. Maurizio era una brava persona, mai creduto alle voci che lo volevano reazionario come il poliziotto che metteva in scena. Di politica non parlavamo mai. Io votavo repubblicano ed ero tenuamente progressista. E i polizieschi o poliziotteschi che dir si voglia erano film di destra? Erano in linea con lo spirito di un tempo agitato. A sdoganare la polizia italiana furono il Germi di Un maledetto imbroglio e dopo di lui, Steno con La polizia ringrazia. Fino ad allora lo stereotipo dominante era il tradizionale carabiniere con il baffone siciliano. L’allenatore nel pallone con Lino Banfi ebbe un grandissimo esito. Dopo la vittoria nel Mundial spagnolo pensammo di fare un film sul calcio ispirandoci all’allenatore Oronzo Pugliese. Purtroppo, 25 anni dopo, feci anche il sequel. È sempre un errore. All’epoca Lino era già più Nonno Libero che Oronzo Canà. Lei nella sua carriera non si è solo divertito. Sul set di Vendetta dal futuro vide morire Claudio Cassinelli. Uno dei dolori più grandi della mia vita. Claudio, amico fraterno, non lavorava da un po’ e mi aveva chiesto di poter avere una parte. Eravamo a Page, in Arizona e dovevamo girare il passaggio di un elicottero sotto al ponte. Tra l’acqua gelida del fiume e il caldo torrido in quota, si verificavano tremende correnti ascensionali. Era pericoloso. Claudio voleva salire a ogni costo su quell’elicottero per raccontare l’esperienza a suo figlio: ‘Che ci vai a fare? Neanche ti inquadro’, gli dissi. Oltretutto il nostro bravissimo pilota stava male e al suo posto quel giorno c’era un sostituto mai visto. Claudio insistette, io non mi opposi e da lontano vidi l’elicottero toccare il ponte e precipitare a terra come un pezzo di carta. Svenni. La bobina dell’incidente l’ho avuta per anni. Ora l’ho buttata. Per cancellare quel momento? Non so. Con Irene, la sua compagna, eravamo in rapporti strettissimi. Da quel giorno si raffreddarono. Inconsciamente, forse mi attribuiva una responsabilità. Non riesco a darle torto. Quel sì a Claudio non me lo sono perdonato per anni. Come vorrebbe essere ricordato? Ogni tanto mi immagino la scena: ‘Sai che è morto quello stronzo di Martino?’, ‘No, ma veramente?’, ‘Sì, ma il cestino come lo vuoi? Rosso o bianco? Pasta al sugo o pasta al burro?’. Ecco cos’è il cinema. Un affare cinico in cui sono tutti importanti e nessuno indispensabile.