Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano 27/11/2016, 27 novembre 2016
SIEMPRE FÍDEL. ADDIO ALL’ICONA DELLA REVOLUCIÓN
Eccolo Fidel Castro, che tutti a quel tempo chiamano “il comandante”, un po’ Zorro, un po’ Garibaldi, più giovane di quel che ti immagini (poco più di 30 anni) con un saluto allegro che non è da rivoluzionario e neppure da vanto del vincitore. È l’umore che per forza provoca le battute e le risate dei ragazzi immortali che hanno resistito in prigione, hanno combattuto sulla Sierra e sono scesi all’Avana e all’Hotel Nacional in tempo per il Capodanno del 1959. Fidel Castro, vestito da Sierra (ma con camicia bianca appena stirata) apre la portiera della limousine, forse appartenuta a Fulgencio Batista, forse non più così lucida, per far scendere Simone de Beauvoir, Françoise Sagan, Jean-Paul Sartre. Sono i miei compagni di viaggio incontrati sul volo peruviano Lima-L’Avana 421, la vigilia di Capodanno del 1961, loro venuti da Parigi su invito del Comandante per celebrare il primo anno della Rivoluzione, io imbarcato nella “sosta tecnica” di Miami con visto scritto a mano, a matita, sul passaporto da Raulito Castro (figlio di Raul), buon amico al club dei giornalisti dell’Onu, allora un luogo molto simile al leggendario caffè di Casablanca.
Fídel (era già iniziato il culto universale di quel primo nome) vede che, prima di scendere, sto riposizionando la tendina che Sartre aveva quasi strappato per guardar fuori (in auto ci faceva da guida Che Guevara, allora scettico e non felice governatore della ‘Banca centrale’, venuto a nome del governo), nota con divertimento il tentativo (lui che tra poco ci porterà nel suo ufficio) e commenta: “Quando arrivi da me, non ti avvicinare al mio tavolo”.
La giornata si divide nell’arrivo del gruppo all’Hotel Nacional, dove tutto sembra intatto dalla notte dell’anno prima, compreso il lungo tavolone nell’atrio, con tante tovaglie d’oro, dove gli invitati avrebbero ritirato il biglietto con l’assegnazione (se Fidel, Raul e il Che non fossero arrivati un po’ prima) di una grande stanza che nessuno ha rivisitato da quella notte e in un secondo giro all’Avana (questa volta in jeep) mentre Che Guevara mi spiegava un sistema di distribuzione dei prodotti agricoli che lui chiamava Tiendas del Pueblo. E, verso sera, la festa sul tetto dell’Hotel Hilton, abbandonato dai gestori americani e occupato come sede della gioventù cubana. Alla balconata dell’ultimo piano c’erano tutti i compagni-compagni di lotta di Fidel. Il gruppo di ospiti di cui facevo parte (sembra impossibile, ma non ho mai parlato con Sartre, salvo i saluti), Che Guevara ci presentava andando su e già per la fila, e un anziano si accompagnava con la fisarmonica per ripetere una sua canzone di brevi strofe che finivano sempre con la frase “Yankee go home”. Dall’alto si vedeva una folla che si diramava lungo tutte le strade fin dove giungeva lo sguardo, e sarà la stessa, tante generazioni dopo, che vedremo alla cerimonia alla fine di questi giorni di veglia e lutto. Quella sera Fídel è arrivato per ultimo e ha parlato subito, a lungo. Era al vertice ma non parte del governo.
In quel tempo, prima del comunismo, aveva un’idea pannelliana del leader: garantire, non comandare. Quando il presidente Dorticos, uno scrupoloso giurista democratico, ha firmato una legge per multare o arrestare le prostitute, il dissenso di Fídel ha costretto il presidente a lasciare. Ma le minacce continue di Nixon, allora vicepresidente Usa e candidato alle elezioni del 1960, scurivano il cielo. L’invasione di esuli cubani di destra nella mai dimenticata operazione “Baia dei Porci” (preparata a sorpresa da Nixon, fatta esplodere mentre governa Kennedy, fermata all’ultimo istante dallo storico Arthur Schlesinger nella veste di consigliere politico con delega a prevalere sui militari) è una spinta brutale che Kennedy non può fermare. Fídel va verso l’Unione Sovietica e proprio lui, così diverso, così naturalmente liberal e culturalmente americano, non vuole e non può tornare indietro. E così Fídel, che ha saputo dare dignità alla sua rivoluzione, cade nella trappola come voleva la destra, accetta il rischio pauroso dei missili sovietici a Cuba, e di nuovo sono i Kennedy a salvare Usa, Cuba e il mondo dallo scontro atomico.
Da allora, Fidel resta un grande simbolo di quel glorioso giorno in cui ha occupato l’Hotel Nacional e arrestato o esiliato tutti i padroni del potere e della ricchezza del Paese. Ma non più un simbolo di libertà, che era stato il senso della sua rivoluzione. Molti anni dopo, e prima del cauto governo del fratello Raul, le sue carceri troppo piene, isolate dalle richieste di un mondo da cui aveva avuto sostegno, hanno ridotto la sua straordinaria immagine di Zorro rivoluzionario che arriva in tempo e che lascia il segno. Due papi e Obama gli hanno cambiato la scena, spostandola verso un dignitoso tipo di pace. Era la sola via d’uscita per un uomo che si era dato come compito di restituire dignità al suo Paese. Nonostante tutto si deve dire che in gran parte ci è riuscito.