Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 26 Lunedì calendario

Discutendo di Cuba su un social network prevalentemente piddino, qualche tempo fa, mi ritrovai sbeffeggiata da una tizia che con l’aria ironica chiedeva, più o meno: “Ma davvero gli USA hanno cercato di impadronirsi di Cuba? E quando è successo? Non starai esagerando?” Era convinta di avere a che fare con qualche fanatica demonizzatrice di USA, una che esagera, magari distorce

Discutendo di Cuba su un social network prevalentemente piddino, qualche tempo fa, mi ritrovai sbeffeggiata da una tizia che con l’aria ironica chiedeva, più o meno: “Ma davvero gli USA hanno cercato di impadronirsi di Cuba? E quando è successo? Non starai esagerando?” Era convinta di avere a che fare con qualche fanatica demonizzatrice di USA, una che esagera, magari distorce. “Impadronirsi”, addirittura. Uno dei grandi paradossi su cui si basa l’opinione pubblica, nel cosiddetto Occidente, è che studiamo solo la nostra storia ma, nel contempo, pretendiamo di discutere di Cuba, America Latina, mondo arabo, paesi musulmani e via elencando. La ragazza del SN ignorava completamente la storia di Cuba (ma anche quella di USA, Spagna e America Latina in generale) e la sua ironia era integralmente figlia di una formazione che per sintesi definiremo liberal e che è ideologica quanto qualsiasi altra. La sua reazione istintiva di fronte a un dato storico che non coincideva con la sua visione del mondo (“Sì, gli USA hanno fatto degli errori ma non dimentichiamo che sono i buoni”) consisteva nel sospettare di ideologismo l’interlocutore. Ricordavo l’episodio leggendo la lezione di storia che Noam Chomsky impartisce al New Yorker, il quale commenta in questi termini l’apertura degli USA a Cuba: La pace con Cuba ci riporta momentaneamente indietro all’era dorata in cui gli Stati Uniti erano una nazione amata in tutto il mondo, quando era in carica un J.F.K. giovane e bello, prima del Vietnam, prima di Allende, prima dell’Iraq e di tutte le altre miserie, e ci consente di sentirci orgogliosi di noi stessi per aver finalmente fatto la cosa giusta. Le parole sono importanti, le prospettive storiche non ne parliamo. Non è un caso che uno dei grandi smascheratori delle narrazioni più o meno tossiche che ci arrivano dai media sia un linguista. L’articolo di Chomsky, storicamente impeccabile, è da leggere integralmente. E dimostra, una volta di più, quanto il pensiero dominante sia particolarmente insidioso quando viene spennellato di progressismo. In genere ne vediamo gli effetti riferiti a Israele, ma pure con Cuba non si scherza. la E quindi: no, JFK non è stato uno che faceva la cosa giusta: Una delle decisioni di maggior importanza di Kennedy fu nel 1962, quando egli cambiò efficacemente la missione dell’esercito latinoamericano dalla “difesa dell’emisfero” – un residuo della seconda guerra mondiale – alla “sicurezza interna”, un eufemismo per la guerra contro il nemico interno, la popolazione. I risultati sono stati descritti da Charles Maechling, che diresse la pianificazione statunitense della contro-insurrezione e della difesa interna dal 1961 al 1966. La decisione di Kennedy, ha scritto, ha modificato la politica USA dalla tolleranza “della rapacità e crudeltà dei militari latinoamericani” alla “complicità diretta” nei loro crimini, al sostegno statunitense ai “metodi delle squadre di sterminio di Heinrich Himmler”. E prima di JFK? La Dottrina Monroe si impone in America Latina col ‘900, ma potremmo andare ancora più indietro: la guerra tra USA e Messico è di metà ‘800. La politica del “grosso bastone” di T. Roosevelt è dell’inizio del secolo scorso. L’occupazione di Cuba da parte degli USA è sancita dall’emendamento Platt nel 1902. E poi l’occupazione di Haiti, le varie “guerre delle banane” che nel nostro immaginario sembrano addirittura una cosa buffa e che dureranno fino a metà degli anni ’30. E poi la terrificante tragedia del Guatemala, a partire dagli anni ’50. E poi il terrorismo contro Cuba, a base di bombe, attentati e disastri aerei provocati, e infine quella che Chomsky chiama la “vaccinazione” del resto dell’America Latina contro le influenze cubane: i colpi di Stato, le dittature militari, l’addestramento dei torturatori, i desaparecidos, le invasioni militari di reaganiana memoria. Io non so cosa avessero in mente al New Yorker, citando i loro bei vecchi tempi immaginari. So che la storia dell’America Latina è un incubo dettato dagli USA e che non dai un passo, in certi paesi, senza rendertene molto dolorosamente conto. Chomsky ricorda un episodio che mi ha fatto venire i brividi: l’assassinio di sei eminenti intellettuali latinoamericani, sacerdoti gesuiti, da un battaglione salvadoregno d’élite, fresco di un addestramento aggiornato presso la Scuola Speciale di Guerra JFK a Fort Bragg, eseguendo gli ordini dell’Alto Comando di assassinarli con tutti i testimoni, la loro governante e sua figlia. Il venticinquesimo anniversario dell’assassinio è appena trascorso, commemorato dal consueto silenzio, considerato appropriato per i nostri crimini. Ci sono stata l’estate scorsa, in quello struggente inferno in terra che è il Salvador. Un posto dove il turismo lo fai tra le tombe, dai gesuiti a Romero ai murales colmi di nomi di gente sterminata, sotto gli occhi di un esercito che ancora si vanta delle sue vittime. Intanto si è fatto il 2015 e gli USA si sono aperti a Cuba. Ne sono sinceramente felice, non sono tra quelli che si atteggiano a duri e puri sulla pelle degli altri popoli. E’ una buona notizia per i cubani. E, soprattutto a livello di principio, è la vittoria di un’isola che ha sofferto 50 anni di embargo senza piegarsi. Trovo però che abbia ragione Chomsky quando afferma che, a livello più ampio e sostanziale, la vittoria è stata degli USA: Il modo per affrontare un virus che potrebbe diffondere un contagio consiste nell’uccidere il virus e nel vaccinare le vittime potenziali. Tale politica sensata è esattamente quella che Washington ha perseguito e, in termini dei suoi obiettivi primari, tale politica è stata molto riuscita. Cuba è sopravvissuta, ma senza la capacità di conseguire il temuto potenziale. E la regione è stata “vaccinata” con dittature militari malvage per impedire il contagio. Noi non sapremo mai cosa sarebbe stata Cuba se non l’avessero soffocata per mezzo secolo. Vediamo i miracoli che l’isola è ruscita a fare nonostante l’embargo, e vediamo che comunque a Cuba si è sofferto molto e ancora si soffre. Possiamo dividerci in schieramenti e urlarci contro che la colpa è degli USA o che, niente affatto, è di Fidel. Ma il fatto è che non abbiamo la controprova: se Cuba non fosse stata strangolata da una punizione lunga cinquanta anni, cosa sarebbe oggi? Neanche il futuro si accompagna a grandi certezze. A Cuba c’è un sacco da fare. Certo, riempirla di complessi turistici è un attimo, mentre rimettere in piedi tutti gli aspetti della realtà cubana che hanno bisogno di intervento senza, nel contempo, smantellare il molto che funziona, è impresa più complessa. Io credo, ed è anche una speranza, che il cambiamento sarà lento, graduale. L’idea è migliorarsi la vita, non vendersi l’anima. Non più di quanto sia fisiologico, con o senza aperture USA. La mia sensazione è che il paese tiene, è solido. Inguaiato eppure saldo. E i cubani non mi sembrano minimamente intenzionati a rinunciare a tutto ciò che li distingue dai paesi affini: al loro stato sociale, alla sicurezza delle sue città libere dal narcotraffico e i suoi effetti, ai loro bambini che non lavorano ma studiano. Io dico che ce la fanno: è da tanto tempo che mostrano al mondo di cosa sono capaci. Però non è che sia tanto brava nelle profezie, io.