Andrea Valdambrini, Il Fatto Quotidiano 28/11/2016, 28 novembre 2016
IL SANGUE E LE ETNIE DEL FRAGILE MYANMAR
Si cammina in salita sotto il sole con un’umidità da serra che ti toglie il respiro. Le due guide locali vanno avanti, come se per tutta la vita non avessero percorso che quel sentiero arrampicato sulle montagne. A valle, verdissimi, i campi di riso, inondati di acqua. Più in alto, man mano che si sale, spuntano arbusti alti anche un metro e mezzo, dalle foglie scure. “È tè”, mi spiegano.
Gli indigeni dello Shan tra tè nero e granate
Stato Shan, Myanmar settentrionale. Chi vuole conoscere le popolazioni indigene deve farlo per forza a piedi, zaino in spalla. A quota 1400 si cominciano a vedere, tra alture ammantate di vegetazione tropicale, i villaggi dell’etnia palaung. Modeste case di legno, senza corrente elettrica che non sia quella dei generatori, bestiame e fango compongono il paesaggio. “Devi restare sempre accanto a noi”, dice in inglese il più esperto dei due accompagnatori -, “qui un visitatore non può girare da solo. Ci sono ragioni di sicurezza imposte dal governo”. Poco dopo il passo tra i versanti della montagna, una ventina di chilometri dal villaggio, un gruppo di militari dell’esercito regolare è seduto all’aperto intorno a un tavolo di un posto di ristoro a bere tè nero: mimetica, fucili e granate.
Il Myanmar di oggi è un Paese in transizione da un regime militare ad una giovane, ancora fragile, democrazia. La dittatura è durata dal 1962 al 2010, almeno formalmente. A partire dalle elezioni di un anno fa (8 novembre 2015) che hanno consegnato una vittoria schiacciante alla National League for Democracy (Nld) guidata da Aun San Suu Kyi, il governo attuale non è più in mano all’esercito. I militari mantengono il 25% di seggi in Parlamento, come anche il controllo di diversi ministeri chiave. Eppure, nonostante la vittoria elettorale netta della leader simbolo della lotta democratica, la strada verso la normalità è ancora tutta in salita.
Una delle ragioni per cui il Myanmar è lontano dalla democrazia compiuta risiede nella frammentazione etnica che ha portato ad una estenuante e non ancora conclusa guerra interna. Da quando nel 1948 è nata come nazione indipendente dal dominio coloniale britannico, questa terra è attraversata da una costellazione di conflitti armati regionali. Le oltre cento minoranze reclamano indipendenza e rispetto dei diritti umani che i militari violano sistematicamente, come documentano diversi rapporti di Ong.
La repressione nello Stato di Rakhine
Il 31 agosto si è aperta a Naypyidaw, la nuova capitale amministrativa del Paese, la conferenza di pace sotto gli auspici della stessa Aung San Suu Kyi, da sempre impegnata per il cessate il fuoco generale. Ma proprio i ribelli dello Stato Shan, riuniti sotto la sigla di Esercito di liberazione nazionale Ta’alang, sono uno dei tre gruppi rimasti in guerra a rifiutare quello che definiscono un “disarmo senza garanzie”.
Non c’è dunque solo il caso dei Rohingya, minoranza non solo etnica ma soprattutto religiosa costituita da circa 800.000 persone entro i soli confini birmani. Certo è questo il più scottante e noto a livello internazionale. Basti ricordare i violenti scontri del 2012 in cui è esplosa la violenza anti-islamica come vendetta per l’uccisione di un giovane buddista dello Stato Rakhine. Quando di recente l’ex segretario dell’Onu Kofi Annan è arrivato in quella regione, è stato accolto in aeroporto dai fischi e dalle urla dei manifestanti, che hanno scandito un No incondizionato alla possibile commissione d’inchiesta sui crimini contro la minoranza islamica. Ancora all’inizio di ottobre, in risposta all’uccisione di 9 guardie di frontiera, l’esercito birmano ha compiuto oltre cento esecuzioni sommarie tra la popolazione Rohingya. Secondo l’Onu è in corso una vera e propria pulizia etnica.
Possiamo almeno dire che la vittoria dell’opposizione nelle prime elezioni libere in 55 anni, rappresenta un cambiamento reale? “Abbiamo per la prima volta un governo civile, non militare: già questo è un positivo per sperare ci sia meno violenza. I prigionieri politici sono stati finalmente liberati”, risponde con sorprendente schiettezza Oo, un ex monaco buddista di 45 anni oggi agricoltore nelle campagne vicino a Mandalay. In cosa il nuovo corso sta cambiando concretamente la sua vita? Replica senza sbilanciarsi: “Nld è da pochi mesi al governo. Vediamo…”. Così il Myanmar vive l’inizio di una transizione democratica che contiene la sfida della convivenza pacifica tra la maggioranza birmana (il 69% della popolazione) e le numerose minoranze etniche – ciascuna con la propria identità culturale – e tra la schiacciante maggioranza buddista (oltre il 90%) e la minoranza musulmana.
L’ennesima sfida: la modernità
Dalle remote montagne di Hisipaw si scende con un treno a binario unico verso il cuore birmano del Paese: Mandalay. I vagoni di un trenino dall’aspetto coloniale hanno ondeggiato orizzontalmente per oltre 10 ore tagliando la vegetazione delle colline del Nord. Dopo un’altra ora e mezza di aereo si approda a Yangon, 4,5 milioni di abitanti e già capitale del Paese prima che i militari nel 2005 spostassero Parlamento e ministeri nella vuota e ridondante Naypyidaw, a 320 di chilometri di distanza.
Pur essendo la classica e caotica megalopoli asiatica, Yangon rimane una città a sé. Niente a che vedere con i bagliori ipertecnologici della thailandese Bangkok, con la propulsione neocapitalista della vietnamita Saigon. Pochi i grattacieli, assenti per le strade i grandi marchi di moda o di ristorazione europei e americani. Tra i palazzi fatiscenti di epoca coloniale e nei mercati di strada stracolmi di cibo i birmani vestono ancora il tradizionale longyi – una sorta di gonna portata sia dagli uomini che dalle donne -, ampiamente preferito all’abbigliamento occidentale. Un segno chiaro, ordinario e quotidiano della loro distinzione. Ma quanto durerà l’isolamento? Entro quanti anni o forse mesi il Myanmar si omologherà alle altre roboanti economie del Sud Est asiatico? Per ora resiste, nel bene o nel male, agli assalti della globalizzazione. Ancora troppo concentrato sui suoi tanti fronti interni.