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 2016  novembre 26 Sabato calendario

MANFREDONIA: «LAZIO, JUVE, ROMA IL CUORE E LA SQUALIFICA. I MIEI 60 ANNI»

All’improvviso Fulvio Collovati. Quando gli occhi del paziente mettono a fuoco la sagoma del difensore, il «miracolo» si è già compiuto. Lionello Manfredonia ha 5 figli, 3 mogli (comprese le ex) e 2 compleanni. Domani spegne 60 candeline, ma la sua vita è divisa da una data: 30 dicembre 1989. C’è un Mondiale in arrivo e un campionato da finire presto. Si gioca spesso, anche sotto capodanno. A Bologna fa freddo, tanto freddo. La Roma cerca punti pesanti, ma la gara passa alla storia per un motivo molto più drammatico. Prima di un angolo, Manfredonia inizia a barcollare. Con le gambe tremolanti compie un paio di passi, poi va giù come un pugile suonato. Il cuore si è fermato, la morte aleggia nello stadio. A riportarlo in vita ci pensa prima il massaggiatore Rossi con la respirazione bocca a bocca, poi i dottori Alicicco e Naccarella con la defibrillazione: dopo tre scariche di solito ci si arrende, arrivano a quattro. All’ospedale il giocatore entra già in coma farmacologico. E resta così per alcuni giorni. Poi all’improvviso, Collovati. «Mi sveglio e riconosco Fulvio. Non so dove sono, quanti figli ho, che cosa è accaduto. Nulla di nulla». Tocca ai medici spiegarlo con parole dolci, ma dirette: «Qualcuno lassù le vuole bene. Il cuore si è bloccato senza un motivo apparente».

MAMMA Lo si può chiamare destino, fato, coincidenza o in mille altri modi. A Manfredonia piace pensare che ci sia davvero un angelo custode. Una fede non calcistica, ma in Dio. «Sono molto credente. Da piccolo mi hanno insegnato dei valori e ora cerco di trasferirli ai miei figli anche se forse sono fuori moda. Ero legatissimo a mamma, morì pochi mesi prima del mio problema. E credo che le cose siano legate: non avevo metabolizzato la perdita. Dovevo staccare la spina...». La memoria ha resettato il momento più brutto: striscia nera nei dintorni di quel 30 dicembre. «Non ho ricordi della partita. Tutto si ferma al nostro arrivo a Bologna in treno, poi c’è il blocco. Ho rivisto le immagini, non mi fanno nessun effetto. Mai avuto paura, dopo. Il mio cuore è sano, ho fatto tutti gli esami possibili. Nessuna patologia, nessun danno. Ho avuto un arresto cardiaco, non un infarto. Volevo continuare. Il fisico era integro, neppure un match saltato per infortunio. Dovevo andare in Inghilterra. I medici non firmarono l’idoneità. Ci rimasi male».

IL TRIANGOLO SI’ Carriera finita. Carriera ruotata su tre squadre non proprio «amiche»: Lazio, Juve e Roma. E in più il capitolo (con rimpianto) Nazionale. «L’Olimpico lo vedevo da Monte Mario: giocavo in oratorio. Entrare nella Lazio è stato come toccare il cielo con un dito anche se tifavo Milan: avevo la stanza tappezzata dai poster di Rivera. Ho avuto la fortuna di crescere accanto alla squadra di Maestrelli, quella dello scudetto: un gruppo di matti. Allenamenti quasi tutti col pallone, ore di partitelle e botte vere. Fino al sabato volavano insulti e parole forti, ma la domenica diventavano invincibili. Ho esordito in A col Bologna (poche ore dopo l’omicidio di Pasolini, ndr) strana coincidenza: la prima e l’ultima gara le ho giocate contro di loro». Manfredonia è un predestinato. Difensore, ma può ricoprire più ruoli. Il c.t. Bearzot lo fa debuttare in azzurro proprio all’Olimpico a 21 anni compiuti da qualche giorno. «Sei mesi dopo mi ritrovo nella rosa che vola in Argentina per il Mondiale. Sapevo di essere una riserva, parto controvoglia. Avevo rinviato le nozze. Ero giovane, strafottente e guadagnavo bene. Insomma, avevo troppo. E Roma non aiuta: esci la sera, ci sono i locali, le donne, il ponentino. Quando Capello o Spalletti dicono che non è semplice allenare nella capitale, li capisco. Butto a mare la maglia azzurra nel momento in cui vado da Bearzot e dico “Non mi fa giocare neppure con Bellugi fuori, allora potevo stare a casa...”. Addio Italia». Lite o non lite, il Mondiale 1982 Manfredonia lo salta per il calcioscommesse: squalificato 3 anni e 6 mesi. «E’ stata una mia grande sciocchezza, pagata carissima. Meritavo l’omessa denuncia: non feci i nomi dei colleghi coinvolti. Era impensabile fare la spia. Un errore pure questo. A mio figlio, gioca nel Vicenza dove vivo, e ai ragazzi del Brescia, dove sono responsabile del settore giovanile, spiego che invece bisogna parlare. Sempre. Lo stop mi è servito per capire tante cose: per due anni mi sono allenato da solo. Sono rientrato dopo il condono in B con la Lazio: avevo un debito da saldare. La promozione in A è il ricordo più bello di tutta la carriera, persino dello scudetto con la Juve».
RICORDI Già la Juve. Approdo a Torino nel 1985. «Potevo andare ovunque: Milan, Inter, Napoli. Scelsi la Juve perché volevo respirare l’aria di quello spogliatoio. Lì capisci come si costruiscono i successi. Altro che locali, ponentino, diversivi o alibi per gli insuccessi. I silenzi di Scirea erano una lezione unica. E poi Platini: il giocatore più forte che ho avuto come compagno. Al secondo posto Giordano: con le difese attuali farebbe 30 gol a stagione. A Torino vinsi scudetto e Intercontinentale. M’immaginavo chissà che festa per il tricolore e invece semplice brindisi nello spogliatoio e testa già rivolta all’anno dopo. L’avvocato Agnelli? Mi chiamò all’alba per farmi i complimenti il giorno dopo la vittoria nel derby con mio gol. Vado via dalla Juve perché Boniperti mi offrì un rinnovo annuale. La Roma aveva perso Ancelotti e Viola mise sul tavolo un triennale a cifre importanti. Dissi di sì anche se ero ex laziale». Gli ultrà giallorossi non la prendono bene. «Vengono da me “te ne devi andare”. Gli faccio “fischiatemi pure, ma resto”. In campo ho sempre dato il massimo. Alla Roma trovo Liedholm: uno spettacolo. Ho avuti altri maestri come Trapattoni e Radice, ma se devo scegliere dico Clagluna e soprattutto Vinicio: era maniacale nella preparazione atletica, ho ancora gli incubi se ripenso all’allenamento del mercoledì. Quanto si correva...». Manfredonia e il futuro: «Ho 60 anni, forse 27. Sono stato fortunato, non come il povero Morosini: ho visto la sua morte in diretta tv con mio figlio. Nella vita non mi sono mai tirato indietro: da d.s. ho iniziato in B col Cosenza. Il calcio mi ha dato tanto. Ancora oggi mi dà a Brescia. Certo, molte cose sono cambiate e forse era meglio ai miei tempi. I procuratori hanno troppo potere e a livello giovanile c’è il problema genitori: parecchi sono invasati. Bisognerebbe fargli il provino prima di farli entrare a vedere i figli. Io ne ho 5: Andrea, Greta e Ludovica nati dal secondo matrimonio, poi Matteo e Matilde con l’attuale moglie, Morgana. Sa quando festeggia il compleanno? Il 30 dicembre...».