Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 25/11/2016, 25 novembre 2016
“A 66 ANNI MI SENTO DON CHISCIOTTE. COME LUI SO CHI SONO E COSA FARE” [Renato Zero] – Renato Zero cammina sotto le luci natalizie di Bologna e ricorda ancora i nomi dei locali in cui lo videro in Emilia proprio 40 anni fa: “A Formigine c’era Il Picchio rosso, a Carpi Il Picchio verde, a Lugo di Romagna il Baccara”
“A 66 ANNI MI SENTO DON CHISCIOTTE. COME LUI SO CHI SONO E COSA FARE” [Renato Zero] – Renato Zero cammina sotto le luci natalizie di Bologna e ricorda ancora i nomi dei locali in cui lo videro in Emilia proprio 40 anni fa: “A Formigine c’era Il Picchio rosso, a Carpi Il Picchio verde, a Lugo di Romagna il Baccara”. Sui palchi delle discoteche e nelle balere estive: “Ma arrivavano a contenere quasi tremila persone”, il signor Fiacchini usciva dal guscio della Montagnola per scalare la sua montagna: “Prendevo un cachet così basso che quando toglievi vitto, alloggio e benzina in tasca non ti rimaneva niente”. I gestori – non sempre lungimiranti – tentennavano: “E se poi non stacchiamo un biglietto?” e il suo impresario di allora rilanciava: “Si faceva firmare un accordo per 5 date e anticipava persino i soldi per farmi suonare: ‘Se non viene nessuno, ve li tenete. Se riempiamo la sala mi date il doppio’”. Per la diffidenza iniziale e per qualche franca dialettica con le prime file, oggi che è in vetta, Zero non serba rancori: “Non era colpa di nessuno, io desideravo una patente, i ragazzi avevano voglia di farsi due risate, ma certo, quando era il momento di tornare, rincasavo con i lividi dentro”. Mentre si prepara a superare l’inverno scaldandosi con trenta concerti fino a fine gennaio (oltre la metà già sold-out, dopo l’Emilia, tappe a Torino, Pesaro, Roma, Firenze, Padova, Milano, Bari, Acireale, Livorno ed Eboli) Zero non sente di portare alcuna croce e non ha intenzione di fermarsi: “Don Chisciotte era consapevole di essere Don Chisciotte e io credo di saper benissimo chi sono. So che non ho paura, so che ho ottimi anticorpi e so che non si cambia, neanche a 66 anni. Canto, proprio come ieri e come spero di fare domani. È così che affronto la vita ed è così che la combatto”. Sul palco, pezzi storici, canzoni nuove, luci, trovate e invenzioni da installazione permanente: “Non so se qualche artista per la scenografia si affidi all’Ikea, faticando meno e facendo anche più in fretta. Io mi sono sempre sentito un artigiano che per realizzare qualcosa di bello ha bisogno di tempo”. In prima fila, ad ascoltarlo, adolescenti e padri, fili generazionali cuciti sui decenni: “Se l’artista si allontana dal pubblico danneggia anche la canzone. E senza padre, la canzone si perde e non trova più la strada”. Zero è felice di darsi alla platea senza sosta per tre ore, ma è preoccupato per l’umore del pubblico: “Si canta bene e si avverte di meno il peso dell’età quando davanti a te si muove gente felice e oggi di persone felici ne vedo poche. I ragazzi, la cui unica colpa è avere vent’anni in un’epoca in cui è penoso averne anche 60, sono mentalmente stanchi e non hanno prospettive per sfuggire alla noia, alla disperazione o all’apatia. Neanche l’orizzonte di un jukebox o di un campetto brullo per tirare quattro calci a un pallone come facevamo noi”. Né santo, né vate, né taumaturgo si sente, Renato Zero: “Se la gente è malmenata da un sistema che l’ha portata allo stremo, posso far poco. L’incazzatura di un italiano ha l’amarissimo sapore dello stallo eterno. Io sento di avere un gran culo a poter essere ancora qui e forse me lo sono meritato, ma vedendo così poca serenità, non è che mi senta meglio”. Zero non vende fumo. Zero non ha formule magiche: “Non posso benedirli con l’acqua miracolosa o promettergli posti di lavoro perché canto soltanto canzoni”. Quelle vecchie, qui a Bologna, in un tripudio di accendini e telefoni puntati in direzione di chi agita da sempre coscienze e sentimenti, le cantano tutti a memoria: “Le interpreto per dire a chi mi ascolta: ‘Non dimenticatevi che eravate così’. E quelle canzoni piacciono non perché chi le sente riconosca loro un maggior valore artistico rispetto a quelle di oggi, ma perché sono loro stessi, i fan, a sentire che erano più felici in passato che in questi anni bui”. Tra Equitalia: “Mi pare che abbiano cambiato il nome, no?” e i bilanci personali, il conto in attivo, dice Zero, è un’utopia: “Ma non credo neanche alla felicità derivante dai conti in banca. Prenda i nuovi ricchi, i ricchi veri. Avidi e rampanti, abbronzati e un po’ stanchi tra un biturbo e un jet, gente così greve da riuscire a rimettere in discussione il valore di un doppiopetto. Indossato da loro stona. Perché se nasci cafone, puoi ripulirti finché vuoi, ma cafone resti”. Pausa: “Per tacere dell’origine della ricchezza. Se hai accumulato così tanto in così poco tempo, significa che qualcuno hai fatto piagne e fa piagne non è mai una cosa bella”. Rimpianti e nostalgie, per un artista che ha sempre scelto di guardare avanti, sono relative. “Per creare un ponte tra la nostra scuola, il presente e il futuro sognavo di fondare Fonopoli. Ci sono stato dietro per anni e poi, capito che la schiatta dei costruttori e quella che abita il Transatlantico di Montecitorio aveva altri piani, mi sono arreso. Mi avevano proposto uno spazio che avrebbe previsto 27 mila metri cubi di commerciale di fronte ai 5 mila metri concessi alla parte artistica. Se avessi accettato questa indecenza non avrei potuto guardarmi in faccia”. Renato, viene da altre “schiatte” e a guardarsi in faccia, ci tiene: “In famiglia avevo persone umili che lavoravano per i grandi casati nobiliari, dagli Odescalchi ai Torlonia, senza mai invidiare le fortune altrui. Zio Armando, tappezziere o Nonno Vincenzo, ebanista che intarsiando il legno creava figure meravigliose, sgobbavano considerando il proprio lavoro come il massimo della ventura”. Si è perso il contatto umano sostiene Zero: “Le multinazionali e le grandi distribuzioni hanno assassinato il ruolo delle vecchie botteghe uccidendo in una botta sola un confidente, uno psicanalista e un ottimo salumiere portando poi gli introiti altrove e facendosi rigorosamente i cazzi propri” e il contatto umano, giura, non può essere sostituito da nient’altro. Quando Zero parlava di umanità mentre altri indossavano l’eskimo, pioveva puntuale l’accusa di qualunquismo: “Quante volte mi hanno detto qualunquista? Tante. Ma era un modo per anestetizzarmi, per cancellarmi, per dirmi ‘zitto tu’.” Zitto, Zero non è mai stato e mentre pensa che le piazze “stiano per ripopolarsi perché al Paese serve una riossigenazione”, sogna una politica in mano a professionisti e tecnici e non crede che Donald Trump sia una boccata d’aria nuova: “Macché. È una camera a gas travestita da circo Barnum. Che su centinaia di milioni di americani non si sia trovato niente di meglio dei due sfidanti la dice lunga. Chi ha qualità non vuole governare. Governare oggi equivale a girare a vuoto. Sembra l’ora di ricreazione: andavi in giro, andavi in giro e poi suonava la campanella e tu capivi che non avevi combinato niente”. Questione di altruismo. O di ambizione. O di egoismo: “Da ragazzo, per sopravvivere, un po’ egoista dovetti essere per forza. Se non mi fossi amato io, chi mi avrebbe amato all’epoca? Oggi gli esempi li cerco altrove, nella grandezza di una ragazza come Bebe Vio ad esempio. Una persona che è partita da una menomazione per rialzarsi. Leggendo la sua storia ho riflettuto. C’è tanta gente che ha tutto al posto giusto e non riesce comunque a far funzionare niente”.