Martino Sacchi, Airone, 25 novembre 2016
REFERENDUM. QUELLO MODERNO LO INVENTÒ NAPOLEONE
Il referendum è un istituto giuridico con cui si chiede direttamente al popolo di decidere in merito a una determinata questione.
Il suo “nonno” è stato il plebiscito, anche se tra le due formule ci sono notevoli differenze. Quest’ultimo, che in origine era una istituzione politica della repubblica romana poi abbandonato per secoli, è stato usato per la prima volta in epoca moderna da Napoleone.
Nei primi mesi dell’anno 1800, infatti, il futuro imperatore dei francesi, dopo aver preso il potere con il colpo di stato del 18 Brumaio (9 novembre 1799) ed essersi autonominato primo console, aveva varato assieme agli altri due consoli (Seyes e Ducos) la cosiddetta Costituzione dell’anno VIII. Pur essendo già la persona più potente della Francia non si sentiva abbastanza sicuro e volle una sorta di consacrazione da parte del popolo: sottopose così la Costituzione a una votazione popolare tramite appunto un plebiscito (anche se la parola sembra essere stata usata per la prima volta solo nel maggio 1805 dal ministro degli esteri Talleyrand: prima si usava la formula “liberi voti”). L’esito fu favorevole a Napoleone in modo schiacciante, anche perché solo una piccola quota dei francesi aveva il diritto di votare. In realtà, per i votanti non si trattava affatto di esprimere liberamente la propria volontà, quanto piuttosto di riconoscere e confermare, a cose fatte, l’iniziativa politica di chi era già il detentore del potere. Avendo trovato questa comoda strada per legittimare le sue decisioni più importanti, Napoleone vi ricorse ancora nel 1802, quando si trattò di confermare la sua trasformazione da primo console a console a vita, e poi ancora due anni dopo, quando volle apporre un sigillo “popolare” alla sua proclamazione a imperatore: andarono però a votare solo poche centinaia di migliaia di persone, tutte appartenenti alla borghesia.
Nel 1851 anche suo nipote Napoleone III usò lo strumento del plebiscito per dichiarare che la sua scalata al potere era voluta dai francesi. La verità era che le votazioni erano controllate dalla polizia e gli esiti non solo erano scontati, ma addirittura favorevoli in modo schiacciante alle proposte governative. Nella seconda metà dell’Ottocento il concetto di plebiscito cominciò a cambiare: non venne più usato per una conferma a posteriori di una scelta politica particolare, ma per suggellare un cambiamento importante nella storia di un popolo.
Così fu fatta l’Italia
Furono plebisciti quelli che sancirono l’annessione al Regno di Piemonte della Lombardia, della Toscana e delle altre regioni dell’Italia centrale e infine del Regno delle Due Sicilie, portando alla nascita del Regno d’Italia il 17 marzo 1861. In tutte queste circostanze si votò con il suffragio universale, che però riguardava solo i maschi adulti sopra i 21 anni (le donne quindi erano escluse). L’esercizio del diritto di voto era sentito come prendere parte a un rito collettivo speciale: la celebrazione dell’identità nazionale ritrovato. A Catania, in occasione del plebiscito per l’Unità, dei «sì colossali eran tracciati sui muri, sugli usci, per terra» racconta lo scrittore Federico De Roberto ne I Viceré, dove aggiunge che «al portone del palazzo il duca ne aveva fatto scrivere uno gigantesco, col gesso; e il domani, in città, nelle campagne, frotte di persone li portavano al cappello, stampati su cartellini di ogni grandezza e d’ogni colore».
Monarchia o repubblica?
Il primo vero referendum della storia nazionale però è stato quello del 2 giugno 1946, quando quasi 25 milioni di italiani andarono alle urne per scegliere se il nostro Paese doveva restare una monarchia o trasformarsi in una repubblica.
I voti a favore di quest’ultima furono 12.717.923, pari al 54,3 per cento dei votanti, mentre gli elettori che si espressero per la monarchia furono 10.719.284, ossia il 45,7 per cento. Secondo alcuni studiosi, proprio per la sua eccezionalità e unicità, il voto del 2 giugno di diritto dovrebbe essere assimilato a un plebiscito piuttosto che a un normale referendum. In ogni caso, il 1° gennaio 1948 entrava in vigore l’attuale Costituzione della Repubblica, che introduceva esplicitamente l’istituto del referendum. Secondo la Costituzione, il referendum è essenzialmente abrogativo, cioè serve a cancellare una legge che è già stata approvata dal Parlamento: per questo, chi vota “sì” dichiara di essere contro la legge in esame, mentre chi vota “no” desidera che sia mantenuta. Quasi tutti i referendum che si sono tenuti dal 1946 a oggi sono di tipo abrogativo: la Costituzione italiana del 1948 non ammette infatti referendum propositivi, tali cioè da introdurre in modo autonomo una nuova legge dello stato italiano. La validità del referendum abrogativo dipende dal quorum, ossia dalla percentuale dei votanti: per essere valida, cioè, la consultazione referendaria deve vedere la partecipazione del 50 per cento più uno degli aventi diritto. Alcune leggi sono sottratte alla possibilità di essere sottoposte a referendum: le leggi di bilancio (per esempio la legge di stabilità o quelle sulle tasse), le amnistie e gli indulti, i trattati internazionali. Tuttavia dal 1970 esiste anche il referendum costituzionale o confermativo (fino a quel momento infatti non c’era una legge che ne stabilisse le modalità): con questo tipo di consultazione il popolo viene chiamato a decidere se confermare o meno una legge di riforma costituzionale già approvata dal Parlamento, ma senza la maggioranza qualificata dei due terzi. È questo il caso del referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento il 12 aprile 2016, reso necessario dal fatto che la riforma è stata approvata con meno di due terzi dei votanti di ciascun ramo del Parlamento.