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 2016  novembre 24 Giovedì calendario

COCCODRILLO VITTORIO SERMONTI PER LA VERITA’


di Bernardo Fanti

Da una quindicina d’anni raccoglieva aforismi attorno all’idea della morte. «Mi scoccia un po’ il morire, ma non provo angoscia. Nella mia vita ho perso anche una figlia, e questo ha creato un rapporto più soffice con il dopo», aveva confessato tre anni fa ad Antonio Gnoli in una lunga intervista. Vittorio Sermonti si stava forse preparando all’appuntamento: se n’è andato mercoledì sera all’ospedale Sandro Pertini di Roma, a 87 anni.
Nato nella capitale il 26 settembre 1929, sesto di sette tra fratelli e sorelle, allievo di Natalino Sapegno, nella vita era stato giornalista, insegnante al liceo e all’Accademia di arte drammatica, consulente editoriale, regista radiofonico, romanziere. Dal primo matrimonio con Samaritana Rattazzi sono nati Maria, Pietro e Anna. Dal 1992 era sposato con la scrittrice e poetessa Ludovica Ripa di Meana. Per più di 60 anni ha dedicato la sua esistenza a Dante Alighieri. Una buona parte li ha impiegati a prestare la sua voce avvolgente, profonda ma non baritonale, al divino poeta. Prima alla radio, poi in giro per l’Italia e per il mondo. Tutto iniziò tra le mura di casa, grazie al padre avvocato: «Mi leggeva Dante quando avevo dieci anni». Il suo padrino di nascita era stato Vittorio Emanuele Orlando.
Da ragazzo aveva sperato nella musica, suonava il pianoforte, ma senza talento. La svolta avvenne quando incontrò il grande critico letterario Gianfranco Contini: «Lessi il suo celebre saggio sulla trasformazione in personaggio dell’autore di un’opera. E mi prese un irrefrenabile desiderio. Era la metà degli anni Sessanta. Lavoravo alla Feltrinelli, ma quell’articolo mi rivelò una cosa alla quale avevo sempre confusamente pensato: Dante personaggio della Commedia». Sermonti decise così di licenziarsi e andò a insegnare al Liceo Tasso di Roma. «Un’esperienza trascinante» confiderà poi. «Ho imparato moltissimo dall’intelligenza e dalla refrattarietà dei miei alunni. Apprezzavo l’aspetto concavo della loro ignoranza, che era molto simile alla mia. L’ignoranza convessa è invece tipica dei grandi e dei fessi».
La sua lunga avventura e il successo come divulgatore della Commedia si deve anche e soprattutto al lavoro preparatorio – e a tratti maniacale – a cui fu sottoposto da Contini. In un colloquio con Francesco Erbani, nel 2001, raccontò: «Quando proposi alla Rai di leggere Dante andai a trovare Contini. Stava un po’ sulle sue e mi disse: “Mi foni’. Parlava così, voleva dire “Mi faccia sentire”. Gli declamai il V dell’Inferno. E lui: “Il solfeggio è perfetto, ma ora me lo legga”. Alla fine fu d’accordo. E io cominciai. Si arrampicava sulle scalette della biblioteca, tirava giù pile di libri. Mi metteva in cucina e mi ingiungeva di leggere. Per la parola zanca, che vuol dire “polpaccio”, nel XIX dell’Inferno, mi tenne chiuso quattro ore a compulsare testi in portoghese. Mi ha accompagnato per l’Inferno e fino al XXVII del Purgatorio, esattamente quando Virgilio lascia Dante».
Del suo Dante non si è mai stancato, nonostante i tanti anni passati a lavorarci sopra, anche perché l’ha spesso alternato con altri lavori. Solo per citare i più recenti, nel 2007 si è dedicato a una sua traduzione dell’Eneide e nel 2014 a quella delle Metamorfosi di Ovidio, entrambe per Rizzoli. L’ultimo romanzo Se avessero (Garzanti), finalista al Premio Strega, è un racconto autobiografico di settant’anni di storia pubblica e privata, dall’adesione giovanile al fascismo al «metacomunismo tragico» degli anni Cinquanta.
Ma l’opera in cui diceva – scherzando ma non troppo – di aver riversato tutta la sua dottrina filologica era un libro sui mondiali di calcio dell’82 (Dov’è la vittoria?, Bompiani, 2004). Juventino sfegatato, avrebbe sicuramente saltato una sua lettura per una partita di Champions, perché amava «le cose popolari. La tv induce a bisogni popolari, ma in sé non è popolare; la pornografia non è popolare, anche se piace a tutti. Dante è veramente popolare. In certi secoli non piaceva ai dotti ma il popolo lo sapeva a memoria. Il calcio – cristo! – era veramente popolare prima che lo televisionassero». A riprova del suo amore bianconero, quando il figlio Pietro era ancora giovinetto lo portò in pellegrinaggio alla casa natale di Michel Platini: «Voleva mirare anche lui alla sarcinesca contro cui Platini aveva tirato i primi calci. Fece gol. Anche perché un portiere non c’era...».