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 2016  novembre 23 Mercoledì calendario

Roberto Saviano non vuole fare l’eroe, «perché gli eroi sono tutti morti»

Roberto Saviano per molti è l’uomo che ha fatto del suo martirio un’industria, l’icona del politicamente corretto, così corretto da risultare falso, un noioso Solone radical chic. Chi lo guarda da un diverso punto di vista vede invece uno scrittore coraggioso, un eroe, la voce della coscienza di un Paese nel quale i Lucignoli hanno sempre più potere. Gli uni e gli altri hanno le loro ragioni. Però quando arriva trafelato e sorridente, dopo aver fatto di corsa quattro piani di scale, felice per aver trasformato la cautela di evitare gli ascensori in un momento di divertimento, si fatica a riconoscere quello che per qualcuno è un mito e per altri è un bersaglio: davanti agli occhi si ha solo una persona gentile, che cerca in ogni occasione una piccola fuga dalla sua vita blindata. Il suo nuovo romanzo, già in cima alle classifiche di vendita, si intitola La paranza dei bambini (Feltrinelli): racconta l’ascesa di una piccola banda di ragazzini in una Napoli fuori controllo, dove l’unico ordine è quello imposto dalla criminalità. Che differenze ci sono tra i suoi ragazzini e quelli del pasoliniano Ragazzi di vita? «Quelli di Pasolini erano dei reietti, dei sottoproletari che magari sognavano una vita normale: una casa, il frigorifero in cucina, le chiavi della Seicento sul comò. I miei sono figli di famiglie piccolo borghesi collassate sotto il peso dei mutui e delle rate. Non nascono in un ambiente degradato, diventano criminali per scelta. La vita normale ce l’hanno già, ma va loro stretta. Quindi scelgono di prendersi donne, soldi e droga, il più velocemente possibile, con una pistola in mano, costi quel che costi. I pochi, tra quelli che mi hanno ispirato il romanzo, che oggi non sono morti, ma in carcere, non hanno alcun rimpianto». Descrive una realtà in cui non c’è più un patto tra generazioni o un contratto sociale. «Tenga conto che la rottura del contratto sociale coinvolge tutto l’Occidente: in qualche maniera la vittoria di Trump, i nuovi nazionalismi europei o l’ascesa di queste bande di ragazzini, per le quali il riscatto è impossibile, sono collegate. Però a Napoli questo fenomeno ha un tratto drammatico: sotto il Vesuvio, l’unica organizzazione che crede nei giovani, ed è meritocratica è la camorra. Il mio protagonista è un giovane pieno di talento, intelligente e coraggioso come lo era Emanuele Sibilio, che a soli 16 anni già gestiva una piazza di spaccio, aveva un blog, a scuola era brillante. L’hanno ucciso a Forcella prima di compiere 20 anni». Lei è stato contestato, proprio a Napoli. La accusano di gettare fango sulla città. «Rispondo raccontando un dettaglio che mi ha colpito. Facendo le ricerche per questo romanzo, ho saputo che tra i ragazzi delle paranze, le bande di quartiere, va di moda uno scooterone, lo Yamaha Tmax. Lo usavano i killer della faida di Scampia, e quindi fa paura, incute rispetto, è un “cavallo di morte”. Bene, ragazzini giovanissimi hanno cominciato a usarlo per sfrecciare in città, senza avere né la patente né l’età per guidarlo. Un tempo, un fenomeno come questo sarebbe stato represso. Oggi si lascia correre». Eppure i giornali parlano di una rinascita di Napoli. «De Magistris ha il merito di aver fatto passare un’immagine chiara: “Non sono un sindaco mafioso”. Vero. Però, diversamente da quanto pensa il sindaco, questo non basta. A Napoli ormai non c’è più nessun tipo di controllo sul territorio. Le autorità hanno abdicato a molte delle loro funzioni. La città funziona male, disorganizzazione e assenza sono il terreno di coltura per le dinamiche economiche della criminalità. È un concetto ovvio, ma quando qualcuno solleva il problema la risposta è sempre la stessa, identitaria: se tu parli di camorra, invece delle cose belle di Napoli, sei un nemico della città». Il romanzo si apre con un atto di bullismo. Lei a scuola è stato vittima dei camorristi in erba che descrive? «Nella mia scuola il bullismo era diffuso, era una sorta di addestramento: chiedevano soldi, ti minacciavano. Io ero una delle vittime. Un ragazzino in particolare, si chiamava Ciro, mi prendeva in giro per la mia testa tonda. Mi chiamava “Limò”, cioè limone, e mi ha massacrato di botte. Era grosso e forte: mi metteva la testa sotto il braccio e poi mi riempiva di pugni. Una volta, non sapendo come salvarmi, ho finto di svenire. Lui è scappato, convinto di avermi ucciso. Dalle mie parti si rischiava di venire picchiati selvaggiamente per aver difeso la propria ragazza, come avvenne in una rissa di fronte alla discoteca Pata Pata, durante la festa dei 100 giorni dalla maturità». Passano gli anni e lei diventa celebre, all’improvviso. In quel momento ha fatto qualche errore? «Sinceramente credo di averli fatti tutti. Ma quello fondamentale è stato espormi troppo, senza alcuna cautela: appena ho pubblicato Gomorra sono andato in piazza, ho affrontato i boss, sono andato in tv. Fu uno choc quando alcuni amici carabinieri mi dissero: “Sparisci in Islanda, là ti potrai nascondere”. Oggi non starei zitto, sarei più attento: non partirei a razzo. Però sono anche stato bravo a non farmi tentare. Volevo scrivere e questo ho fatto, rifiutando sempre l’offerta di fare il ministro, che mi ha fatto quasi ogni governo. Entrerei solo in un governo degli Stati Uniti d’Europa, ma mi sembra sia un sogno lontano da realizzarsi». Confessare di essere stati troppo coraggiosi è come attribuirsi il difetto di essere troppo fascinosi... «Gliene dico un altro. La celebrità ti rende attraente e io sono diventato diffidente. Quando mi si avvicina qualcuno cerco di capire cosa vuole ottenere. Un atteggiamento col quale ho allontanato anche amici veri, che poi ho cercato di recuperare. Umanamente la fama non mi ha reso migliore, ma peggiore. Ho ferito molte persone». È la cosa che le pesa di più? «No, questo è solo un dispiacere. Il vero peso è che sono condannato a deludere le aspettative di chi mi segue. Nel mio caso l’aspettativa è il martirio. Se tu sei l’eroe, devi morire. Gli eroi vivi non esistono». Andrea Greco