Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 23 Mercoledì calendario

UN MONDO PIÙ DISEGUALE, ANCHE QUANDO CRESCE– I divari di reddito tra paesi si attenuano rapidamente mentre crescono i divari di reddito all’interno dei paesi, con una vistosa contrazione della classe media e una vera disgregazione sociale

UN MONDO PIÙ DISEGUALE, ANCHE QUANDO CRESCE– I divari di reddito tra paesi si attenuano rapidamente mentre crescono i divari di reddito all’interno dei paesi, con una vistosa contrazione della classe media e una vera disgregazione sociale. Quest’evoluzione è legata ai modi di produzione: le tecnologie dividono i lavoratori tra “creativi” e “ripetitivi” (più esposti alla precarietà). I rimedi vanno cercati in istruzione permanente e reddito minimo collegato all’accettazione di offerte di lavoro adeguate. Nel Duemila, il prodotto lordo cinese per abitante – misurato in dollari costanti del 2010, secondo le statistiche della Banca mondiale – era pari ad appena un quinto del valore medio mondiale; quindici anni più tardi si collocava a oltre il 60%. Nello stesso periodo, l’India era passata da meno del 10% al 18%, la Nigeria da meno del 4% al 16% del reddito medio mondiale. Sulla lista di 218 paesi che compongono l’economia del pianeta secondo la Banca mondiale, quelli appartenenti alla sottocategoria del “basso reddito”, inferiore a 1.016 dollari per abitante, sono ormai soltanto 31, con meno di 650 milioni complessivi di abitanti, pari a meno del 9% della popolazione mondiale. I dati sull’Africa subsahariana mostrano che la popolazione sotto la soglia della povertà assoluta è scesa dal picco del 60,9% del 1993 a un valore provvisorio del 40% nel 2015. Ciò non significa che il problema sia stato risolto ma piuttosto che si è spostato al livello appena superiore alla “povertà assoluta” (tra 1,25 e 2,5 dollari al giorno) che mostra una diminuzione percentuale molto più lenta – in taluni casi addirittura un aumento – ma quanto meno si può dire che siamo sulla buona strada. Va inoltre notato che la crisi iniziata nel 2007-2008 ha frenato soprattutto le economie avanzate e ha così ridotto le distanze tra i paesi emergenti e i paesi ricchi, dando l’impressione di un mondo meno diseguale. LA DINAMICA DELL’IMPOVERIMENTO GLOBALE. L’impressione, appunto. Un’impressione contraddetta dalla realtà. Per quanto possa sembrare paradossale, si è ridotta fortemente la diseguaglianza dei redditi tra il cinese medio e l’americano medio; ma, rispetto al recente passato, questi due ipotetici personaggi sono assai meno rappresentativi dei loro concittadini. Milioni di americani e cinesi si sono infatti allontanati dalla media verso l’alto, mentre decine di milioni (centinaia nel caso dei cinesi) si sono allontanati dalla media verso il basso, ottenendo sì aumenti di reddito, ma in misura inferiore alla media stessa. In entrambi i casi, attorno alla media la popolazione si è diradata. Specie nei paesi avanzati, al disotto del reddito medio è scivolata una parte considerevole di quella che normalmente si chiama “classe media , all’incirca il 10-15% della popolazione complessiva, mentre una parte (1-5%) ha “preso il volo” verso redditi molto elevati. Per questo, dietro la parvenza di un mondo più eguale si cela la realtà di paesi più diseguali. La crescita della diseguaglianza dei redditi è stata spesso posta in relazione con la riduzione dei vincoli al funzionamento dei mercati. Lo ha fatto, tra gli altri, papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre del 2013, denunciando in termini durissimi (par. 54) l’organizzazione delle società umane basata su mercati incontrollati e le cosiddette teorie della “ricaduta favorevole” (trickle down effect) secondo le quali da questi mercati derivano comunque effetti positivi di carattere generale: la ricchezza dovrebbe essere prima creata (e accumulata) da pochi e successivamente si spanderebbe in maniera “automatica”, grazie ai meccanismi dell’economia di mercato, tra la popolazione nel suo complesso. In questo modo, scrive papa Francesco: “Si esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza”. Quasi un anno più tardi, Janet Yellen, la governatrice della Fed, la banca centrale americana, si dichiara “molto preoccupata” da statistiche che mostrano come in anni recenti si sia verificato il più rapido e importante aumento della diseguaglianza negli Stati Uniti dal XIX secolo: tra gli americani il 5% più “ricco”, ossia con i redditi medi più alti, ha visto tali redditi aumentare del 38% tra il 1989 e il 2013, mentre il reddito medio degli altri cittadini è aumentato di meno del 10% nello stesso periodo. “Una spesa inattesa di appena 400 dollari – disse Yellen in un discorso il 18 settembre 2014 – indurrebbe la maggioranza delle famiglie americane a chiedere denaro in prestito, vendere qualcosa o semplicemente non pagare”. Oxfam, una nota organizzazione non governativa inglese, ha mostrato che, nel 2013, sette persone su dieci vivevano in paesi nei quali la diseguaglianza economica era aumentata negli ultimi trent’anni; inoltre l’1% della popolazione mondiale disporrebbe di un capitale superiore a quello del restante (si fa per dire) 99%. Nel gennaio del 2015, nella sua ormai tradizionale riunione di Davos, in Svizzera, il World Economic Forum – un’associazione molto influente di banchieri, finanzieri e politici – ha chiesto “politiche più concrete” per affrontare questo problema. IL DECLINO DELLA “CLASSE MEDIA” NEI PAESI RICCHI. Dall’analisi delle cifre occorre passare all’esame delle società che stanno dietro le cifre. I dati di pressoché tutti i paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, mostrano una decisa riduzione dei cittadini ufficialmente “di classe media” i quali, secondo la definizione dell’OCSE, dispongono di un reddito compreso tra il 75 e il 125% di quello mediano. Prima della crisi iniziata nel 2007-08 il 51% degli americani apparteneva alla classe media. Nel 2014-15 la classe media risultava ridotta di 10 punti percentuali, ossia pari al 41%. Andamenti del tutto analoghi si riscontrano per la quasi totalità dei paesi avanzati, Italia compresa. Siamo in presenza di un processo di “polarizzazione” che comporta la crescita delle due “code” della distribuzione dei redditi. Secondo i dati americani del 2013, i poveri sono circa 45 milioni, pari al 14,5% della popolazione nazionale, due punti in più rispetto a prima della crisi. Parallelamente, l’l% più ricco detiene oltre un terzo della ricchezza nazionale mentre la classe media è intorno al 15% e il 40% della popolazione degli Stati Uniti con i redditi più bassi praticamente non detiene nulla (0,4%). Tutto ciò parrebbe in contrasto con le statistiche del lavoro: alla fine del 2015 negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è rientrato da oltre il 10% a meno del 5%. Inoltre, 16 milioni di americani hanno finalmente un’assicurazione sanitaria e sono usciti dall’incubo del rischio di povertà connesso alla perdita delle condizioni di salute. Per quanto rassicuranti, però, questi numeri brillano meno di quanto sembri. Una definizione più realistica di disoccupazione, che includa i lavoratori marginali e i lavoratori involontariamente part time, collocherebbe la disoccupazione ancora al 9,7%, quasi il doppio di quella della statistica ufficiale. Inoltre, in tutti i paesi avanzati si registra una contrazione della forza lavoro che, oltre che da motivi demografici, è determinata dalla rinuncia a trovare un’occupazione che il più delle volte non c’è. Negli anni Novanta, quasi 67 americani su 100 lavoravano oppure cercavano lavoro; ora sono solo 62 su 100. Osserviamo intanto che torna a salire l’indebitamento delle famiglie americane, le auto vengono acquistate con rate sempre più lunghe mentre è aumentato il numero di giovani che hanno bisogno di un prestito per andare all’università. Dietro la retorica della riduzione degli sprechi alimentari e di altro genere, il “new normal”, in quanto modello di vita e consumi proposto – soprattutto agli americani – nel momento in cui la crisi “mordeva” di più, nasconde il semplice fatto che certi consumi la famiglia americana di classe media (e così quella italiana, quella tedesca e quella di quasi lutti i paesi ricchi) non se li può più permettere. La campagna di Michelle Obama per la diffusione dell’autoproduzione di frutta e verdura va sicuramente nel senso di migliorare l’alimentazione ma sottintende che, per molte famiglie, questo è l’unico modo di consumare frutta e verdura che altrimenti non sarebbero in grado di acquistare. In Europa, l’“ombrello” dello Stato assistenziale è più esteso e più solido, pur con i tagli dei bilanci della sanità degli anni più recenti. Comincia però a diventare molto rilevante, e in taluni casi minacciosa, l’espansione dello “zoccolo duro” della povertà pur in presenza di una società meno individualista e presumibilmente più solidale. In Italia, secondo un’indagine ISTAT resa nota nel 2016, si stima che, nel 2015, le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta – ossia in grado di acquistare un “paniere di beni e servizi” considerati indispensabili per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile – siano pari a oltre un milione e mezzo, per un totale che supera i quattro milioni e mezzo di persone. Tale cifra si colloca sui livelli massimi degli ultimi anni. Contemporaneamente, in Italia come altrove, aumentano i segnali di ricchezza vistosa. LE ORIGINI DELLA NUOVA DISEGUAGLIANZA. Da dove nasce questo problema globale che mina alle radici le credenziali del capitalismo come migliore organizzazione possibile della società, affermate con forza da un numero crescente di scienziati sociali a partire dagli anni Ottanta? La risposta intuitiva è che il problema è collegato con il venir meno dei posti di lavoro che garantiscono un reddito medio e stabile: tanto per fare un esempio, i bancari – un tempo simbolo di lavoratori dai redditi medio-alti, con un’estrema sicurezza del posto di lavoro – hanno visto i loro ranghi falcidiati dalle innovazioni del sistema dei pagamenti che consente a tutti di trasferire elettronicamente denaro con estrema facilità. Lo stesso vale per buona parte dei lavori impiegatizi nelle grandi organizzazioni, industriali o del terziario. Perché le “nuove tecnologie” basate sull’elettronica riducono questi posti di lavoro? Perché stanno “spiazzando” in tempi rapidissimi i lavoratori in possesso delle nozioni e delle tecniche lavorative legate alle tecnologie precedenti: a un tempo risultano meno costose, e forniscono prodotti più precisi, spesso personalizzati, che si tratti di un profilato di acciaio oppure di una pratica amministrativa, riducendo fortemente il tasso di errore. Sviluppi in corso di introduzione, come l’Industria 4.0 e la stampante 3D sono destinati a ridurre ancora, in maniera sensibile, questo tipo di occupazione. Anche l’organizzazione aziendale ne è fortemente influenzata. L’introduzione massiccia dell’elettronica riduce il bisogno di controlli, nonché di livelli gerarchici e decisionali; al posto di queste demarcazioni, spesso accompagnate da elementi simbolici (solo il “capo” aveva tradizionalmente diritto a un vaso di fiori nel suo studio o a una poltrona foderata in pelle) si insinuano però altre e più importanti distinzioni di potere aziendale. In estrema sintesi, si può distinguere tra chi è indispensabile al funzionamento dell’azienda e chi non lo è. Gli appartenenti alla seconda categoria potranno anche essere molto bravi e molto ben pagati ma rimangono “esterni” (consulenti, lavoratori a progetto e simili) con un grado notevole di autonomia e di licenziabilità. Non hanno più davanti a sé una “carriera”, fatta di professionalità acquisite ed esercitate all’interno di una struttura produttiva, bensì una serie di “occasioni di lavoro”, senza una chiara progressione da lavori semplici a lavori complicati, senza un chiaro aumento di professionalità ma con professionalità diverse. Tutto ciò è uno dei semi della crescente diseguaglianza dei redditi. La precarietà diventa una dimensione della vita di questo secondo gruppo di lavoratori: l’immagine dei dipendenti di alcune grandi società finanziarie americane, licenziati dalla sera alla mattina nel momento più acuto della crisi (con in mano una scatola di cartone nella quale deporre gli oggetti personali delle loro scrivanie, da sgombrare immediatamente), ha fortemente segnato la coscienza collettiva. In fondo, la classe media si reggeva anche per lo “spirito di corpo” dei lavoratori medi delle grandi organizzazioni; questo spirito di corpo è largamente diminuito; il neoprecario, grazie ai progressi dell’elettronica, installa il proprio ufficio entro le mura domestiche, non partecipa più a numerosi processi collettivi, contribuisce a una disgregazione sociale che va al di là della diseguaglianza redditi. Alle diseguaglianze dei redditi e della ricchezza si aggiunge infatti la diseguaglianza delle aspettative, mentre proprio una certa eguaglianza delle aspettative è sempre stato il grande fattore di democrazia, soprattutto negli Stati Uniti. A fronte di questi lavoratori fluttuanti sta il nucleo centrale dell’azienda: un numero ristretto di persone ricche a un tempo di capitale umano, capacità di lavoro e, spesso, anche di capitale finanziario (o della possibilità di accedervi). Anche per loro l’orizzonte si è fatto più rischioso ma è un rischio in parte controllabile, mentre per la categoria precedente più che di rischio è opportuno parlare di incertezza. Oltre a innegabili qualità di iniziativa, il gruppo più dinamico è dotato di una speciale aggressività che fa parte degli “spiriti animali” del capitalismo. Quest’aggressività contribuisce sicuramente a spostare in suo favore la distribuzione del reddito creato dall’impresa: i dati storici americani mostrano una discesa costante del rapporto tra salari e dividendi. E porta in maniera sempre più frequente le imprese a sfidare gli stati: è noto il caso del rifiuto di una multinazionale americana di far accedere l’FBI ai codici del telefonino di un sospettato di terrorismo, così come sono noti i disinvolti slalom fiscali di molte, innovative imprese americane. Tradizionalmente, specie nel pensiero economico e sociologico americano, le più forti disparità di reddito degli Stati Uniti rispetto all’Europa venivano giustificate con la maggiore mobilità sociale. Certo, a New York e a Chicago i poveri possono trovarsi in condizioni di povertà impensabili in Europa ma hanno anche la possibilità di uscire rapidamente da tale situazione. Secondo una metafora spesso usata, l’“ascensore sociale” – che rendeva accettabile la diseguaglianza dei redditi grazie alla mobilità sociale – spesso non funziona più: o si ha volontà, successo e una buona dose di fortuna e si diventa imprenditori (anche solo “imprenditori di se stessi”) con una fortissima propensione al rischio, oppure si è condannati a restare ai piani bassi. A sua volta, la maggiore rischiosità dei redditi dei piani bassi può indurre a un diverso e più attento comportamento di consumo e quindi riflettersi in un divario tra dinamiche dei redditi e dinamiche dei consumi. Ed è precisamente questa debolezza della domanda di beni di consumi, in carenza di certezze per il futuro, che ha finora reso zoppa la ripresa americana e ancora più claudicanti le riprese dell’Europa continentale e del Giappone. COME USCIRNE? Non ci sono soluzioni rapide a questa modificazione strutturale. Intanto la contrazione della classe media porta generalmente con sé una frantumazione del quadro politico tradizionale, con la comparsa di forze nuove, spesso espressione di proteste e istanze ma scarsamente dotate di programmi. La precarietà di vita di una parte consistente della popolazione si trasforma parallelamente in debolezza dei consumi globali e in maggiore domanda di spesa pubblica (con Stati e altri enti pubblici sempre più indebitati). Le conseguenze negative sul debito pubblico e sulle possibilità del suo finanziamento e del suo rimborso sono ancora largamente inesplorate ma non appaiono trascurabili. La maggioranza dei paesi ricchi ha visto un deterioramento del proprio debito pubblico; eppure le soluzioni adottabili difficilmente potranno prescindere da un ulteriore aumento di questo debito. Un grande coordinamento internazionale, per quanto auspicabile, appare molto arduo nell’attuale situazione di forte competitività e di rapporti non idilliaci tra le diverse banche centrali e i diversi governi. Tuttavia, questo nodo finanziario dovrà essere superato, pena una crescente conflittualità economica internazionale e un clima economico-sociale interno sempre più teso. In ogni caso, è chiaro che qualsiasi governo dotato di effettivi poteri di politica economica dovrà effettuare una redistribuzione di redditi su scala massiccia dai profitti ai salari e ai trasferimenti sociali, non più limitati alle pensioni. Per i profitti, tale azione deve avere dimensione mondiale perché mondiali (ancora) sono i flussi finanziari: le autorità fiscali dei singoli paesi devono poter disporre di un quadro complessivo dei capitali e dei redditi dei loro contribuenti, il che richiede, appunto, un forte grado di collaborazione intergovernativa, per ora inesistente. La redistribuzione dovrà probabilmente portare a una qualche forma di reddito di cittadinanza o reddito minimo; non si deve trattare di una mera disposizione assistenziale ma piuttosto di una formula che permetta la riduzione della precarietà; dovrà anche richiedere, perché le prestazioni vengano continuate, un atteggiamento “collaborativo” del cittadino, consistente nel consenso a seguire programmi di apprendimento e nell’accettazione di offerte di lavoro adeguate sia nel contenuto che nella localizzazione geografica.