Gianni Riotta, Aspenia 9/2016, 23 novembre 2016
L’ULTIMO DEI REPUBBLICANI– In una campagna presidenziale storica, la nomination di Donald Trump pone il partito repubblicano di fronte a un esame di coscienza radicale
L’ULTIMO DEI REPUBBLICANI– In una campagna presidenziale storica, la nomination di Donald Trump pone il partito repubblicano di fronte a un esame di coscienza radicale. Il Grand Old Party capace un tempo di dominare il Sud degli Stati Uniti rischia di ridursi a sindacato dei bianchi che hanno perso status e salario. Tanto che George W. Bush si chiede se dopo di lui ci sarà un nuovo presidente repubblicano. La campagna presidenziale americana 2016 è già, dopo le convenzioni estive dei partiti, evento storico. A Filadelfia i democratici hanno, per la prima volta, nominato una donna come candidata alla Casa Bianca, Hillary Rodham Clinton. Altre donne ci avevano provato, dalla deputata afroamericana Shirley Chisholm nel 1972, alla vicepresidente candidata di Walter Mondale, Geraldine Ferraro, nel 1984; la storia ricorda Victoria Woodhull nel 1872, forse squalificata per non avere neppure i 35 anni di prammatica, o Belva Lockwood del 1884, che le contende il record di prima nominata, mentre la cronaca cita Jill Stein, nominata dai Verdi. Hillary Clinton si è disfatta del cognome paterno usato quando era First Lady dell’Arkansas con il marito Bill governatore e si chiamava, da femminista dell’Università di Yale, Hillary Rodham. Irritava troppo i conservatori, e dunque ottiene la prima nomination per un grande partito come Hillary Clinton. Ma anche poco più a est della Pennsylvania e di Filadelfia, alla convenzione repubblicana di Cleveland, Ohio, la storia si è data da fare. La nomination vinta dal magnate immobiliare di New York, Donald J. Trump, ha umiliato il venerabile Grand Old Party che fu di Lincoln e di Eisenhower, scagliandolo in un’avventura populista, isolazionista e protezionista che ne sconvolge la tradizione. Né va dimenticata – a fare del 2016 un anno unico – la carica del deputato socialista del Vermont Bernie Sanders, che ha aderito al partito democratico solo alla vigilia delle primarie, mettendo alle corde Hillary Clinton. La coalizione di Sanders ha costretto la centrista ex segretario di Stato, da sempre vicina insieme al marito alle posizioni moderate del Democratic Leadership Council (DLC), a smarcarsi perfino dall’area liberal, proclamandosi fieramente progressive, di sinistra, comunità in cui mai ha militato. Ancora nel 1988, a Lee Atwater e Roger Ailes – spiri doctors e consiglieri politici di George W. Bush – bastò mascherare lo sfidante democratico Mike Dukakis da liberal per battere il bravo governatore del Massachusetts, che aveva portato il suo stato a essere dodicesima economia del mondo. I liberal tax and spend (tasse e spesa pubblica), soft on crime (troppo buoni con i criminali), venivano additati dai repubblicani anche come mollaccioni in politica estera, in quel crepuscolo di guerra fredda. Atwater, che morì poco dopo scusandosi con i rivali politici per i trucchi sporchi, e Ailes, poi patrono della rete di destra Fox News ora in disgrazia per accuse di molestie sessuali, con astuzia giocarono la carta della spesa pubblica e del crimine contro i democratici, insinuando che il partito fosse ostaggio di afroamericani e minoranze. Uno spot celebre di Bush padre nel 1988 denuncia il caso Willie Horton, detenuto nero che, in licenza dal carcere in Massachusetts, aveva ancora rubato e stuprato, suggerendo agli elettori che i democratici erano una sorta di lobby dei neri. Poco importa che il programma di permessi fosse stato firmato dal repubblicano Sargent, non da Dukakis. Diciotto anni più tardi, i due candidati democratici alla Casa Bianca non solo non nascondono più l’etichetta di liberal. ma orgogliosamente dispiegano bandiere progressiste. Dopo una delle sue sorprendenti vittorie nelle primarie il senatore Sanders, diretta tv in prime time, ha cantato con la sua rauca voce, accento profondo di Brooklyn dove è cresciuto con i genitori ebrei, la ballata “This land is your land”, del cantautore comunista Woody Guthrie, padre del pacifista Arlo Guthrie, famoso per le note antiguerra in Vietnam di “Alice’s Restaurant”. UNA CHIAVE SUDISTA PER LA CASA BIANCA. Ho coperto ogni elezione americana da Reagan-Mondale nel 1984 in avanti, e mai avrei pensato di ascoltare un senatore socialista, in corsa con grande vigore per la Casa Bianca, festeggiare un successo con i versi di Guthrie che si vantava “Comunista io? Beh, rosso tutta la vita di certo!”. Come dunque si è arrivati a questa situazione? Come si sono tanto radicalizzate le posizioni in America, dai tempi in cui Bill Safire, ex speechwriter di Richard Nixon e poi per anni unico editorialista conservatore del New York Times, amava dire: “I repubblicani corrono a destra nelle primarie, e i democratici a sinistra, poi nelle elezioni generali tutti corrono al centro, perché senza moderati e indipendenti non si vince”? Per capirlo dobbiamo andare nel sud degli USA, la regione che gli europei sempre fraintendono, confusi tra Via col Vento, il bourbon, la guerra civile, Dixieland, il Ku Klux Klan, le marce del reverendo King a Selma, Alabama, le aziende elettroniche del Triangolo della Ricerca a Durham, North Carolina. Un vecchio proverbio politico locale recita: “There’s nothing in the middle of the road but yellow stripes and dead armadillos” (Al centro della strada non c’è nulla se non la striscia gialla e armadilli morti). Questa filosofia era così diffusa che il democratico Jim Hightower – fiero di definirsi “il populista numero uno d’America” – lo ha scelto per un suo pamphlet del 1999. L’idea è opposta al motto di Safire: la politica deve schierarsi, da una parte o dall’altra, non cercare di accontentare tutti. Esempio classico è lo storico duello del 1964 tra il democratico Lyndon B. Johnson, che voleva dare vita alla sua Great Society dei diritti e della spesa pubblica e Barry Goldwater, il senatore dell’Arizona che, invocando meno Stato e più libero mercato, pur sconfitto, apre la strada alla rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan nel 1980. Lo schierarsi sempre semina nel sud, per molte generazioni dopo la guerra civile, un risentimento profondo contro i repubblicani eredi di Lincoln e gli elettori si raccolgono intorno ai democratici. Con la grande emigrazione dei neri poveri dalle zone rurali del meridione verso le città industriali del nord, acuita dalla seconda guerra mondiale, lo scenario muta. Se, prima del maccartismo e la caccia alle streghe, il partito comunista americario aveva avuto migliaia di iscritti a Harlem – specie intorno alla campagna per liberare i nove ragazzi detti Scottsboro Boys, accusati in Alabama di aver stuprato una bianca – dopo la guerra, pian piano, i neri cominciano a votare per i democratici, grazie ad attivisti per i diritti civili e sindacalisti. Il processo è lento: ancora alla convenzione democratica del 1968 il militante afroamericano dei diritti civili Julian Bond, parlamentare in Georgia, deve fingere che alcuni studenti neri siano delegati, per evitare che in tv le delegazioni del suo stato appaiano solo bianche. La svolta pro diritti civili del presidente Kennedy, e soprattutto del suo ministro della Giustizia, Robert Kennedy, insieme ai due strategici provvedimenti del presidente Johnson – il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965 – cambiano infine l’allineamento della politica americana. I bianchi, ceto medio e classe operaia del sud, da sempre vicini ai democratici, si spostano sui repubblicani, creando quello che lo studioso Bill Schneider chiamerà electoral lock, il catenaccio del voto. Con il sud che va al GOP, il repubblicano Richard Nixon è eletto due volte; nel 1976 solo lo scandalo Watergate e un candidato perbene ma opaco, Gerald Ford, aprono la vittoria di Jimmy Carter. Il “catenaccio sudista” comunque, assicura ai repubblicani cinque vittorie su sei elezioni, fino a Reagan, 1980 e 1984, e Bush padre nel 1988. Dal 1968 al 1992, con la sola eccezione degli anni di Carter, il sud repubblicano, grazie a quelli che vengono chiamati “Reagan Democrats” (ex elettori democratici passati al GOP), domina la politica americana, la sua cultura, la Corte suprema e sembra relegare nell’irrilevanza i liberal. L’effetto formidabile della coalizione sudista addormenta l’energia intellettuale dei repubblicani, che pensano basti pigiare sui tasti della razza, della sicurezza, dell’ordine pubblico, dell’aborto e del patriottismo per essere rieletti. Il meccanismo si incrina nel 1992, quando Pat Buchanan, estremista di destra che aveva collaborato con Nixon, Ford e Reagan, sfida alle primarie il popolare presidente Bush padre, reduce dalla vittoria nella prima guerra del Golfo. Buchanan corre su una piattaforma conservatrice, non tanto di opposizione politica ma culturale, anticipando i temi odierni di Donald Trump: l’America è in declino e a rovinarla sono multiculturalismo, internazionalismo, cosmopolitismo, omosessuali, atei, Wall Street; insomma tutti coloro che cancellano il vecchio modello sociale conformista, mentre servono meno tasse, meno spesa, più patrioti. Alle primarie del New Hampshire Buchanan, a sorpresa, vince il 38% dei voti e alla convenzione estiva, a Houston proclama che in America si combatte un Kulturkampf, una “guerra culturale, tra il manifesto dei liberal alla Clinton, che vuole imporci aborto libero, diritti ai gay, bando per la religione nelle scuole, donne nell’esercito, e la nostra nazione”. La moglie del vicepresidente Dan Quayle, Marilyn, e il reverendo Pat Robertson echeggiano questi temi foschi, e il moderato Bush padre è travolto. Solitario, saggio, inascoltato, in un messaggio che sarà il suo ultimo al partito prima della malattia e della morte, Ronald Reagan ammonisce: “Ricordatevi, io mi sono sempre appellato a quel che di meglio c’è nell’animo degli americani, mai ai loro peggiori istinti”. Troppo tardi. Il giovane Bill Clinton guida il partito democratico fuori dalle secche del liberalismo radicale, con i moderati del DLC. Il paese cambia, al sud le classi metropolitane si fanno più aperte, la tecnologia offre a ceti prima relegati in campagna l’accesso a comunità non segregate. Comunque sia, dal 1948 con Harry Truman, al 2008 con Barack Obama, per sessant’anni i democratici hanno eletto solo presidenti del sud profondo, Carter dalla Georgia, Clinton dall’Arkansas. I nordisti non passano. LA SPINTA POPULISTA E IL BISOGNO DI RINNOVAMENTO. La corsa ad appellarsi ai peggiori istinti, contro il monito di Reagan, porta alla nascita dei Tea Party, movimento anti-tasse che nei comizi fa sfilare sempre e solo facce bianche. Ancora nel 2004, anche grazie al calore nazionale dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, il consigliere di George W. Bush riesce a salvare il partito repubblicano, mentre già gli exit poll annunciano la vittoria del democratico John Kerry. Dal suo cappello Rove estrae 3-4 milioni di elettori evangelici, mobilitati con bravura ed esterni a ogni campione statistico, e vince ancora. Oggi il presidente George W. Bush, dopo avere visto l’umiliazione del fratello Jeb, ex governatore della Florida da parte di Trump, chiede malinconico a chi lo incontra nel ranch di Crawford, in Texas: “E se fossi stato io l’ultimo presidente repubblicano?”. La demografia, e il deserto lasciato dalla battaglia culturale, da Buchanan a Trump, rendono duro per i repubblicani eleggere un presidente. “Alle nostre primarie 2016 Reagan sarebbe considerato di sinistra”, lamenta un vecchio analista del GOP. A Hillary Clinton basta infatti ottenere il 40% del voto dei bianchi e il 60% del voto delle minoranze, gruppo sociale in costante espansione, per battere Trump. Tra i giovani e le donne i democratici sono in vantaggio; i maschi bianchi, soprattutto se senza laurea, restano l’ultima roccaforte repubblicana. Nel 2012 il candidato del GOP, Mitt Romney, ottenne ben il 59% del voto bianco, umiliando Barack Obama, ma non gli bastò a vincere. Romney prevalse tra i bianchi in California, Texas e New York, trionfando in 46 stati su 50, record schiacciante. Se avessero votato, come un tempo, solo i bianchi, Obama avrebbe conquistato appena quattro stati: New Hampshire, Connecticut, Massachusetts, Iowa. Ma, con il calare della percentuale di bianchi alle urne, ormai, se anche Trump salisse al 65% o anche al 70% tra gli uomini bianchi, la sua impopolarità tra donne e minoranze rende il successo arduo. La sola strada per la vittoria resta mobilitare dall’astensionismo generazioni di elettori che mancano da tempo al voto, troppo arrabbiati con il sistema per partecipare al rito democratico. Ma con loro servono i peggiori toni di Trump, le accuse alla mamma del capitano eroe di guerra caduto in Iraq nel 2004, l’idea balzana che il padre del senatore Cruz fosse complice di Oswald nel delitto Kennedy, o le battute contro le donne (mestruate), gli handicappati (ridicoli), i messicani (stupratori), per titillare il razzismo e l’odio nascosti. E il rischio è di alienare invece i moderati. Comunque vada il voto 2016, il Grand Old Party deve fare un esame di coscienza radicale. Tanti leader hanno provato a prendere le distanze da Trump, da Romney ai Bush al senatore McCain. Ted Cruz lo ha sfidato dalla convenzione, chiedendo di votare in libertà. Il partito deve decidere se ridursi a minoranza, sindacato dei bianchi che hanno perso status e salario nella crisi di globalizzazione e automazione, o aprirsi all’America odierna, multirazziale, multireligiosa, multietnica, multiculturale, in cui un nero può diventare presidente e un musulmano eroe la cui tomba è visitata ogni giorno al cimitero militare di Arlington. Ispanici repubblicani come Cruz e Marco Rubio ne sono consapevoli. I grandi partiti – ben lo sappiamo noi italiani ma pensate anche ai liberali inglesi – declinano, una volta che la loro funzione storica, politica e culturale si inaridisce in tempi cui non sanno adattarsi. DC, PCI, PSI, PRI, PLI, PSDI, MSI, anime politiche della prima repubblica, sono un’insalata di lettere insignificante per un ragazzo italiano di oggi. La loro sorte – scomparire – toccherà anche ai repubblicani? Aver creduto che il centro sia solo per armadilli morti li ha isolati per sempre? Vedremo come, dopo il voto di novembre, reagiranno i repubblicani, se daranno ragione al timore di Bush, “ultimo dei repubblicani”, o si rinnoveranno. Ma, attenzione, neppure i democratici – malgrado intravedano il traguardo di tre vittorie consecutive, che li elude dal 1948, con i cinque successi Roosevelt-Truman – sono immuni da guai. L’insorgenza sanderista è un grido di protesta che condivide temi e ceti sociali con Truinp: impiegati, lavoratori, agricoltori e studenti impoveriti dalla crisi si ribellano a Wall Street e alla sua influenza sulla politica. L’opposizione ai negoziati commerciali tipo TTIP e TPP, sui versanti Atlantico e Pacifico, unifica la base di Trump a quella di Sanders, al di là delle divergenze culturali, così come lo scetticismo sulla forza militare americana e un forte desiderio di disimpegnarsi dalle alleanze militari, in Europa e in Asia. Basta con gli Stati Uniti superpotenza e garanti del mondo occidentale e dei liberi commerci, meglio uno Zio Sam ripiegato su se stesso e intento a una crescita domestica. Stavolta il carisma di Obama e la macchina elettorale dei Clinton hanno fermato il canuto senatore socialista Sanders, ma una abrasiva presidenza Trump, o una ignava presidenza Clinton, possono scatenare nel 2020 una nuova offensiva di sinistra, stavolta vincente. L’America fronteggia, come l’Europa, l’ondata populista, scatenata dalle correnti profonde seguite alla crisi finanziaria del 2008. Una intera generazione teme di non avere più il benessere di nonni e genitori e si mobilita furiosa con Jeremy Corbyn, a sinistra, a Londra o con Marine Le Pen, a destra, a Parigi. Studiosi come Moïses Naim, Ian Bremmer, Alec Ross e Robert Gordon ripetono da tempo di guardare alla mutata natura della nostra società, non più di massa ma individuale, atomizzata, dove lo sviluppo non premia intere classi, ma solo le persone capaci di apprendere nuovi saperi, relegando dunque partiti e sindacati nell’oblio. La dialettica destra-sinistra del Novecento lascia campo a connesso-disconnesso nel XXI secolo e i partiti diventano una app, che, se collegata ai Big Data crea comunità, altrimenti declina. Vedremo a novembre chi ci riuscirà meglio tra i due dinosauri partiti, superstiti della vecchia politica americana, e quanto a lungo. Il centro non è più una riga gialla brillante, ma un wifi, un luogo digitale senza dimensione concreta su cui sintonizzarsi ogni momento in modo diverso.