Marco Maroni, Il Fatto Quotidiano 23/11/2016, 23 novembre 2016
“BANCA SOLIDA”, 21 MESI DI GOVERNO PER RIDURRE IL MONTEPASCHI IN AGONIA
Fondato nel 1472 il Monte dei Paschi è sopravvissuto a guerre, pestilenze e carestie. Ma sono bastati 21 mesi di governo Renzi per portare la banca più antica del mondo a un passo dal collasso. Domani a Siena si terrà l’assemblea sociale, se sarà raggiunto il quorum del 20% del capitale (sembra di sì) i soci dovranno approvare una complessa operazione finanziaria che prevede la conversione in azioni delle obbligazioni subordinate, un aumento di capitale fino a 5 miliardi e la cessione di crediti in sofferenza per 27,6 miliardi. Il tentativo di messa in sicurezza in accordo con gli azionisti e i titolari delle obbligazioni, per evitare i meccanismi di risoluzione europea, è fatto in un clima di allarme, con i risparmiatori in fuga e la vigilanza europea poco disponibile a compromessi per aggiustare le cose. Una situazione a cui hanno contribuito una serie di passi falsi e una gestione quanto meno approssimativa da parte del governo.
Lo spettro bail-in e l’ombra di Jp Morgan
Le cose cominciano a mettersi male alla fine del 2015, quando il fallimento delle quattro banche locali di Etruria, Marche, Chieti e Ferrara, viene fatto pagare, secondo le nuove regole europee, a circa 140 mila risparmiatori di quegli istituti. Il timore è che possa finire in bail-in anche Mps, che ha 47 miliardi di crediti deteriorati. A gennaio 2016 la speculazione si accanisce. Nei giorni peggiori il premier Matteo Renzi e il suo amico e finanziere (oltre che finanziatore) Davide Serra se ne escono con frasi come: “La banca è solida” e “conviene investire”. La credibilità del premier ne uscirà malconcia. Il 4 luglio i giornali rivelano che la Bce chiede di smaltire le sofferenze a un ritmo più serrato di quanto la banca non stia facendo. Da quando Renzi ha parlato, l’azione è a meno 60% in Borsa. In realtà Mps non è in dissesto, ha un patrimonio netto positivo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola l’ha riportata in utile. Ma la fiducia nel settore del credito è tutto e risparmiatori e correntisti ormai se la danno a gambe.
Nonostante ci siano fior di precedenti, con la Germania che ha salvato le sua banche dalla crisi con quasi 260 miliardi di euro, per la terza banca italiana non viene preso in considerazione l’aiuto pubblico, permesso dalla norme europee nel caso di rischi “sistemici”.
Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan a luglio affidano la ristrutturazione a Jp Morgan, banca con il cui capo, Jamie Dimon (ora voluto da Donald Trump come segretario al Tesoro) Renzi ha rapporti personali da tempo. La banca Usa, per cui l’amicizia conta ma gli affari ancora di più, mette a punto, insieme a Mediobanca, un piano che costerà oltre 500 milioni di commissioni, circa quanto vale tutta la banca in Borsa. Un piano alternativo, presentato dall’ex ministro Corrado Passera, che ha risanato le Poste e ristrutturato Banca Intesa, non viene neanche preso in considerazione.
Gli americani, non si impegnano a mettere un solo dollaro in Mps, ma chiedono di mandare via Viola. Il duo Renzi-Padoan esegue, e a settembre Viola viene defenestrato. Al suo posto va Marco Morelli. È un ex manager Mps che ha preso una multa da Bankitalia per aver partecipato alle manovre finanziarie finalizzate allo scriteriato acquisto nel 2009 di Antonveneta, pagata quasi il doppio del suo valore. Via Nazionale ha scritto che il comportamento di Morelli “risulta di particolare gravità, considerato che egli ha partecipato a tutte le fasi dell’operazione”.
Intanto per sbolognare le sofferenze si è pensato a una garanzia pubblica e ad Atlante, il fondo privato – pubblico che ha salvato la popolare di Vicenza e Veneto Banca. Solo che le risorse che ha ancora in cassa Atlante non bastano. Renzi e Padoan convocano quindi il presidente dell’associazione delle Casse di Previdenza. Annunciano che il problema è risolto. Ma commercialisti, architetti e ingegneri, fatti due conti, si tirano indietro. Tanto che ancora oggi non si sa se Atlante avrà fondi sufficienti per rilevare la sua parte di crediti deteriorati.
Una pistola puntata alla tempia
Passano i mesi ma Morelli, che ha visitato 300 potenziali investitori, non trova nessuno disposto a mettere soldi nella banca. A metà ottobre allora si fa di nuovo avanti Passera. Avrebbe con sè investitori disposti a mettere subito 2,5 miliardi. La Borsa esulta, Jp Morgan e Mediobanca no. Gli impediscono perfino di guardare nelle passività di Mps. Il cda di Montepaschi se ne esce invece con la richiesta agli obbligazionisti subordinati di scambiare i loro titoli con azioni. Un ricatto, perché si annuncia che se la conversione non va a buon fine salta tutto. Mentre Mps tenta la manovra della conversione Renzi, visto il successo di Trump nelle elezioni Usa, decide di fare il bullo con l’Europa: minacce roboanti (“non votiamo il bilancio”) e via la bandiera Ue dal suo ufficio. L’effetto è che, in barba a ogni prudenza di ruolo Elke Koenig, capo dell’organismo europeo che si occupa delle crisi bancarie, a mercati aperti, mercoledì scorso, afferma che se l’operazione privata non riesce, per Mps “ci sono diverse strade, ma normalmente non possono prescindere dal bail in”. Risultato: fuga dai subordinati. Ieri il titolo con scadenza 2018, il più diffuso tra i piccoli risparmiatori, è arrivato a quotare 60, significa che c’è chi ha preferito prendersi il 40% di perdita piuttosto che vedersi trasformare il titolo in azioni. Domani l’assemblea.