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 2016  novembre 22 Martedì calendario

DOPO QUATTRO FALLIMENTI DISSE VENDERÒ ME STESSO


[Donald Trump]

SECONDA PUNTATA

La seconda vita di Donald Trump comincia a Natale del 1992 sulle piste di Aspen, Colorado, quando Ivana, moglie e madre dei suoi tre figli nonché sciatrice impeccabile, incrocia incidentalmente Marla Ann Maples, ex miss Georgia e da un paio d’anni amante neppure troppo clandestina di suo marito. E, bum! Le due signore se le dicono di santa ragione e, una volta tornate a valle, la valanga non si può più fermare. Ivana, dopo quindici anni di matrimonio, assolda il miglior avvocato divorzista sulla piazza consegnandosi alla storia come l’icona delle prime consorti combattive e vincenti: «Non prendetevela, prendetevi tutto», raccomanderà anni dopo in un memorabile cameo interpretato nel film Il club delle prime mogli. Marla, che per mamma Mary Trump, allora ancora in vita, era una «sfasciafamiglie», oltre che «la ragione per cui mi vergogno di mio figlio», può finalmente uscire allo scoperto.
Così il 19 dicembre del 1993 Marla e Donald, che hanno già una figlia di due mesi, Tiffany – e sì, il nome è un omaggio al celebre marchio della Fifth avenue che aveva concesso al magnate il “diritto d’aria” per costruire sopra la sua Trump Tower – si sposano al Plaza Hotel di New York. Un migliaio di invitati, una ventina di troupe televisive e almeno 90 paparazzi. Abito in satin bianco di Carolina Herrera e tiara di diamanti da 2 milioni di dollari prestata dal gioielliere Harry Winston per la sposa, tuxedo di Brioni per lo sposo.
Negli anni a venire Marla, che aveva trent’anni e di professione faceva l’attrice, iniziò a girare meno film e a presenziare a più eventi di charity, mentre il suo rampante consorte, che per tutti gli anni Ottanta aveva instancabilmente puntato altissimo tirando su grattacieli e palazzi per mezza Manhattan, si trovò a fare i conti con la crisi. La sua. Perché è vero che la Trump Tower sulla Fifth avenue o il Trump Plaza tra la 61esima e la Third avenue sono sempre lì a testimoniare del talento e della fortuna dello spregiudicato immobiliarista, ma in quegli anni sulle sue attività si allungano le ombre di procedure fallimentari che ne offuscano la fama di magnate delle costruzioni. Del tema controverso e delicato si è occupato la scorsa estate il New York Times, andando a scavare negli investimenti nei casinò di Atlantic City, New Jersey, a due ore d’auto da New York, che si rivelarono dei clamorosi fiaschi. A partire dal fiabesco Trump Taj Mahal, per il tycoon «l’ottava meraviglia del mondo». Solo che era costata quasi un miliardo di dollari, e l’inaugurazione da mille e una notte del 2 aprile 1990, ospite d’onore Michael Jackson, non era bastata a salvare la meraviglia dal flop finanziario, innescando la prima delle quattro bancarotte nel settore del gioco d’azzardo sulla East Coast. Più di 3 miliardi di dollari di debiti: crac causati dalla durissima crisi del settore, spiegò The Donald; prodotti dalla gestione spregiudicata volta a guadagnare milioni di dollari investendone ben pochi, ipotizza invece l’inchiesta pubblicata ora dal New York Times.
«Smettetela di dire che le mie imprese sono fallite. Non ho mai dichiarato fallimento, ma come molti grandi uomini d’affari ho usato le norme sulle aziende per trarne vantaggio. Abile, vero?», twittava nel 2015 Donald dal suo account personale: sì quello che il suo staff ha cercato di togliergli negli ultimi giorni della campagna elettorale per evitare scivoloni nel rush finale. C’è un punto però che mette tutti d’accordo, ed è: Trump se la cava meglio con il mattone piuttosto che con gli altri business. Acqua minerale, bevande energetiche, profumi, un vino della Virginia, vodka. Perfino le bistecche, che ancora oggi potete ordinare se vi sedete a mangiare nei ristoranti dei suoi hotel. Poi camicie e cravatte, un gioco da tavolo e una compagnia aerea, la Trump Airlines: 22 aerei acquistati dalla Eastern Airlines per 365 milioni di dollari che volavano da New York a Boston, Washington e Orlando con a bordo hostess che indossavano orecchini e perle. Ma durò poco, perché nel 1991 venne messa in liquidazione e gli aerei passarono alla Us Air. Pessimi business dal punto di vista dei fatturati e dell’espansione sul mercato, ma guardateli da un’altra prospettiva, quella del “marchio” Trump dipinto sulla carlinga di jet che solcano i cieli o che campeggia a caratteri cubitali dorati sugli edifici di mezza America. Perché più della metà delle 515 aziende con cui Trump ha qualcosa a che fare, infatti, portano il suo cognome, sostiene un documento presentato alla Commissione elettorale federale americana: il che non significa che appartengano al tycoon. Spesso si tratta semplicemente della concessione da parte del magnate allo sfruttamento del suo nome in progetti architettonici o per prodotti commerciali. Trump che vende Trump, insomma. Lungimirante strategia di marketing o maniacale esigenza di nutrire un ingombrante ego, poco importa, visto che l’immagine di The Donald, hanno calcolato gli esperti della rivista Forbes qualche anno fa, vale circa 200 milioni di dollari. Una cifra che ha fatto storcere il naso a Trump, che ritiene di valere decisamente di più: almeno tre miliardi di dollari. Prima di essere eletto leader del mondo libero, s’intende.
Di certo non ha contribuito ad alzare le sue quotazioni l’operazione condotta nel mondo del football professionistico, quando nel 1984 comprò i New Jersey Generals, una squadra che giocava in un campionato di football nascente, la United States Football League, le cui partite si giocavano in primavera dopo il Super Bowl: lui puntava a far assorbire il neonato campionato nella National Football League, il principale campionato di football americano, facendolo assurgere a ben altra importanza sportiva e dunque pubblicitaria. Ma le cose andarono diversamente e Trump restò con in mano un pugno di mosche. Magari ad alimentare il “Trumpismo” sono serviti di più i camei e le comparsate del 45° presidente degli Stati Uniti nel mondo del cinema. Trump è apparso in Willy, il principe di Bel-Air e in Due settimane per innamorarsi, a fianco di Hugh Grant e Sandra Bullock; in Zoolander e in Mamma ho perso l’aereo 2 dove dava indicazioni al piccolo protagonista all’interno di un albergo, naturalmente di sua proprietà.
Certo, non si è fatto mancare niente The Donald, neppure la Tv, dove è apparso citando se stesso in serie di grande successo come La Tata o Sex and the City. Ma soprattutto Donald Trump è dal 2004 la star di The Apprentice, il reality show in cui il tycoon incarna l’icona del successo americano, il boss duro ma giusto che decide chi tra i concorrenti ha la stoffa per farsi largo nel mondo dell’imprenditoria, ruolo affidato nella versione italiana a Flavio Briatore. Al programma non ha certo partecipato per soldi, ha spiegato, ma per «rafforzare il marchio Trump». E poterlo convertire in profitti, o in voti.
Rossana Linguini
(2-continua)