Massimo Onofri, Avvenire 19/11/2016, 19 novembre 2016
DELEDDA, LA GRANDE MADRE DEL ROMANZO SARDO
Sarà il rintocco degli ottant’anni dalla morte, accompagnato da qualche scoperta filologica, ma Grazia Deledda, soprattutto in termini di critica biografica, sta conoscendo un momento felice. Penso innanzitutto, pubblicato ora da Delfino, a Grazia Deledda. Una vita per il Nobel, libro di Maria Elvira Ciusa allestito su una notevole mole documentaria, compresi carteggi inediti e la testimonianza diretta del secondogenito della scrittrice, Franz Madesani.
Di grande interesse, annunciato da Avagliano per l’ultima settimana di novembre, anche il volume di Rossana Dedola Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere, con lettere e cartoline postali inedite ritrovate in biblioteche europee (Zurigo, Weimar, Vienna), che ci restituisce la scrittrice entro una rete di rapporti spesso importanti: il giovanile innamoramento per Stanis Manca e quello, più maturo, di Emilio Cecchi; il matrimonio con Palmiro Madesani che sarà per lei, oltre che un marito premuroso, anche una specie di agente letterario, ferocemente irriso in Suo marito, romanzo dell’antagonista Pirandello; l’amicizia con Marino Moretti. E poi: il traduttore francese Hèrelle, Giovanni Cena e Sibilla Aleramo, De Pisis, Balla, Boccioni e molti altri.
Lo stesso contesto che indaga il cagliaritano Luciano Marrocu, storico di professione ma anche scrittore in proprio, che ha congedato per Donzelli un libro lieve e delizioso, scritto con elegante passo narrativo: Deledda. Una vita come un romanzo, che ha il merito di essere stato congegnato su due tavoli, quello dell’approfondimento storico-critico in vista del ritratto e l’altro, non meno importante, che riguarda – diciamola così – l’autobiografia dell’ombra di Marrocu, proprio in quanto scrittore isolano che, come tale, si confronta con la grande madre.
C’è, nel libro di Marrocu, un passaggio assai significativo quando, ricordando gli esordi di Grazia nel romanzo a nemmeno vent’anni, e cioè Stella d’oriente (1890) e Fior di Sardegna (1891), si osserva: «Col genere ’romanzo sardo’, che di lì a poco inventerà, non ha ancora saldato i conti». C’è solo da aggiungere, prima di farci qualche domanda, che la Deledda già nel 1888 aveva pubblicato sulla rivista «Ultima Moda» una novella di tinte fosche, da feuilleton, dal titolo paradigmatico: Sangue sardo.
Ecco: esiste il «romanzo sardo»? E di cosa si tratta? E poi: è stata davvero la Deledda a inventarlo? E ancora: si può parlare, oggi, di «romanzo sardo»? Comincio dalla fine: per dire che, almeno su un piano merceologico – cito a caso, a prescindere dal diversissimo valore letterario: Salvatore Niffoi e Milena Agus, Marcello Fois e Michela Murgia, Flavio Soriga e Gesuino Némus –, il «romanzo sardo» esiste e vende benissimo. Che cosa sia è presto detto: un tipo di narrazione fondata sul recupero dei codici d’una civiltà agro-pastorale. Aggiungendo che la Deledda, se non l’ha inventato (ma forse anche sì), l’ha di sicuro consacrato e reso inconfondibile in tutto il mondo, anche favorita dalla vittoria del Nobel.
Mi verrebbe da scrivere subito, in termini chiari, che la Deledda è stata la prima e l’ultima scrittrice che ha potuto plausibilmente raccontare storie, inventare personaggi, secondo una sintassi – linguistica, antropologica – espressiva di quella civiltà, la quale oggi resiste soprattutto nel folclore e nell’autorappresentazione, cui indugia certo sardismo non solo politico, non di rado con toni da leggenda.
In effetti, con l’apparizione d’un capolavoro di respiro europeo come Il giorno del giudizio (1977) di Salvatore Satta, quei codici, e quell’antica civiltà, sono implosi dentro una specie di apocalisse: in un libro scritto dal punto di vista della morte e del nulla, di radicale nullificazione di tutte le Sardegne del passato, del presente e del futuro. Consapevolezza che ha mosso sin da subito il principale narratore sardo vivente, e cioè Salvatore Mannuzzu: il quale infatti, gauchista cattolico, sciascianamente ossessionato dal Potere, e, come Natalia Ginzburg che lo scoprì, attratto dalla famiglia e dai suoi misteri, di identità sarda non ha mai voluto sapere.
Eppure tale identità resiste, non solo in certi scrittori che ce ne hanno consegnato l’involontaria e regressiva parodia, come per esempio Niffoi, caricando la propria semplicistica pagina di simboli ancestrali, esotici e pittoreschi, promuovendo un’improbabile araldica dell’onore e vagheggiando un fantomatico matriarcato. Ma anche in altri, che invece ne hanno fatto un uso problematico: magari impegnando la propria scrittura in una ricerca antropologica, al modo di Sergio Atzeni, precocemente scomparso, almeno a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, complicando e valorizzando, in chiave affabulatoria, le stratificazioni d’un mondo arcaico solo di favola, per coniugarlo alle suggestioni d’una cultura, soprattutto giovanile, già globalizzata.
O come continua a fare Marcello Fois, che ha saputo rivitalizzare quell’abbecedario antropologico barbaricino, in parte decostruendolo, in parte portando alle estreme conseguenze biologiche la disperazione deleddiana, facendo così di Nuoro e della Barbagia l’ennesimo teatro per inscenare i drammi dell’uomo solo contemporaneo. Senza dire di Michela Murgia, la quale, al di là della figura misteriosa e inquietante dell’accabadora, la portatrice di morte secondo una tradizione più favoleggiata che reale, ha molto riflettuto nei suoi romanzi sulla «fill’e anima», la figlia d’anima, ovvero una figlia adottata da nuovi genitori col consenso di quelli naturali, senza però perdere i rapporti con la famiglia originaria. «Romanzo sardo», dunque? Indubitabilmente, persino con effetti da ironia post- moderna, se è vero che per Einaudi, alla fine di novembre, Fois pubblicherà, sulla grande madre, un «romanzo in forma di teatro», Quasi grazia, che sarà messo in scena nelle vesti di attrice da Michela Murgia. Poteva essere altrimenti?