Matteo Persivale, Amica 11/2016, 18 novembre 2016
LO STILE MICHELLE
Quando alla convention democratica di luglio Michelle Obama ha fatto infuriare mezza America (quella che voterà Donald Trump) ricordando con tranquillità, in diretta tv, che la Casa Bianca è stata costruita con il lavoro degli schiavi, la first lady ha confermato una cosa abbastanza chiara a chiunque abbia studiato con una certa attenzione il rapporto che lega la coppia presidenziale: senza di lei, Barack Obama oggi sarebbe il professore più popolare dell’Università di Harvard, o un giudice molto stimato, non il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti, il primo afroamericano, il quarto vincitore del Nobel per la Pace (prima di lui, soltanto Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson e Jimmy Carter).
È divertente immaginare come sarebbe stata la vita di Barack senza Michelle, soprattutto perché si sono conosciuti davvero per caso. Dopo il primo anno alla facoltà di Giurisprudenza di Harvard, il giovane Barack – che aveva già dimostrato un talento giuridico straordinario anche per gli elevati standard della sua università – poteva scegliere, per uno stage estivo, tra centinaia di importanti studi legali: sarebbero stati tutti ugualmente felici di accogliere per tre mesi la matricola più brillante, che tre anni dopo, post laurea, sarebbe stata assediata dagli uffici del personale e dai cacciatori di teste. Barack quell’estate optò per Chicago, per lo studio Sidley Austin. E lì conobbe la giovane avvocatessa Michelle Robinson. Adesso che è una delle donne più famose e ammirate del mondo, Michelle racconta con tranquillità gli aneddoti privati che nel 2008, al suo debutto in una campagna nazionale, ripeteva con un certo imbarazzo. Per esempio, aveva sentito parlare di quella matricola con la media dei voti da record e il curriculum accademico inattaccabile, e aveva pensato subito: “Sarà uno sfigato, poverino”. Così decise che l’avrebbe trattato con educazione, per non farlo sentire emarginato dagli avvocati dello studio.
Quella del loro primo appuntamento – dopo un mese di lavoro fianco a fianco – è una storia tanto ripetuta ai media americani da essere diventata un film già uscito negli Stati Uniti (è stato presentato al Sundance Festival in gennaio), la commedia romantica Southside with You. La visita al museo, il pranzo in un caffè all’aperto, la lunga passeggiata a Michigan Avenue, una chiacchierata lunga ore, fino a sera, quando andarono a vedere Fa la cosa giusta dell’arrabbiato Spike Lee.
La personalità di Michelle è tanto forte da averla resa un caso unico: non la first lady che esercita la sua influenza dietro le quinte, come fece Nancy Reagan, né una sorta di co-presidente come fu Hillary Clinton per Bill, ma una presenza mediatica fondamentale per il marito. Con una linea politica che, dalle prime dichiarazioni del 2008, non è mai cambiata: Michelle Obama è la first lady che promuove l’assunzione di responsabilità personale, il rifiuto di accettare. Si presentò all’America otto anni fa, raccontando la sua scelta – dopo gli studi alle università di Princeton e di Harvard – di lasciare lo studio legale di lusso, che le avrebbe garantito una bella carriera e un ottimo reddito. Andò a lavorare per una no-profit: aiutava ragazzi e ragazze dei quartieri poveri di Chicago a trovare un’occupazione. “Barack e io abbiamo fatto un percorso identico: rifiutare un impiego in un’azienda per poter essere d’aiuto a chi ne ha bisogno. Quando lui chiede ai giovani di fare lo stesso, sa quello che dice: è stata la sua scelta di vita”.
Non è una first lady militante perché non ne ha bisogno: le sue campagne – contro l’obesità infantile, per esempio – sono tecnicamente apolitiche, ma le hanno comunque attirato dure critiche dai repubblicani (che, oltre alla libertà assoluta di comprare armi, sono favorevoli a mangiare qualunque cosa senza avere ingerenze dello Stato nella propria dieta). È la prima first lady dopo Eleanor Roosevelt ad aver creato un orto (biologico) nel grande giardino della Casa Bianca, ma la sua – scientificamente motivata – avversione per il fast food resta un bersaglio politico con il quale i suoi avversari “scaldano” la base (in uno dei momenti più bizzarri di questa bizzarrissima campagna presidenziale 2016, il repubblicano Ted Cruz, poi sconfitto da Donald Trump alle primarie, fece la promessa che, se fosse stato eletto, avrebbe riportato in auge i cibi fritti, aboliti da lei).
Michelle non prende mai posizione prima del marito: soltanto nel 2012 lui diede l’appoggio ai matrimoni gay, tema a lei molto caro da tempo ma sul quale era sempre stata attenta a non scavalcarlo a sinistra. Proprio questo pericolo, di superarlo mettendolo politicamente in difficoltà, è stato da una parte un freno per Michelle, ma dall’altra la sua fortuna. Libera di fare ospitate nazional-popolari ma efficacissime in tv da Oprah Winfrey e Ellen DeGeneres, di accogliere alla Casa Bianca per interviste esclusive siti Internet popolarissimi ma non esattamente giornalistici (come iVillage), di amplificare così, per esempio, la campagna del marito per l’espansione dell’assistenza sanitaria parlando, per l’appunto, di prevenzione dell’obesità, delle malattie cardiovascolari e del diabete. È difficile immaginare che lui sarebbe stato più efficace di lei nell’appello per le bambine nigeriane rapite da Boko Haram: tutto il mondo ha visto la foto twittata da Michelle, senza “comment”. La first lady con un’espressione di tristezza infinita sul volto e un cartello tra le mani con un semplice hashtag: #BringBackOurGirls.
Se l’accusano di essere troppo grintosa lei spiega senza cedere di un millimetro: “È importante che mio marito sia cresciuto con una donna molto forte come sua madre, mamma single, e poi con un’altra eccezionale, sua nonna. Oggi ha due figlie che esprimono con sincerità le loro opinioni, e ha me. Tutte queste figure femminili intorno a lui hanno fatto sì che attraverso gli anni, grazie a Dio, abbia tenuto i livelli di testosterone sotto controllo e abbia ascoltato con empatia. Lo aiuta a tenere i piedi per terra”. La domanda, ovvia, su che cosa farà Michelle tra qualche mese, dopo il trasloco dalla Casa Bianca e il ritorno a Chicago, almeno una risposta l’ha trovata. Non entrerà in politica, non sarà una nuova Hillary. I sondaggisti l’anno scorso, all’alba delle primarie, si erano divertiti a chiedere ai democratici se l’avrebbero votata (arrivò seconda dietro Hillary, davanti agli altri candidati del partito). Michelle prima, e suo marito subito dopo, avevano chiuso il discorso: nel 2020 la signora Obama non cercherà la presidenza. Certo è, però, che con due figlie ormai grandicelle (l’anno prossimo Malia compirà 19 anni e andrà al college, Sasha ne avrà 16) non potrà dire che deve fare solo la mamma. Potrebbe tornare al volontariato. O, magari, riattivare la licenza da avvocato, non rinnovata da tanti anni, e tornare in aula non più da giovane legale con una coscienza sociale molto sviluppata, ma nei panni di una delle donne più famose, ammirate e detestate del mondo.