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 2016  novembre 18 Venerdì calendario

IL TESORO NELLA MAGLIA

Ogni annuncio che arriva dall’estero provoca un misto di invidia e rassegnazione. L’ultimo è di mercoledì: il presidente del Barcellona Josep Maria Bartomeu si è fatto fotografare assieme al 214° uomo più ricco del mondo, Hiroshi Mikitani, esibendo la maglia blaugrana col nuovo main sponsor Rakuten, che dalla prossima stagione garantirà 55 milioni l’anno più bonus. Un balzo in avanti dai 34 milioni che elargiva Qatar Airways, ancora sulle casacche di Messi e soci fino a giugno.

CLASSIFICA Il Barcellona ha così guadagnato il secondo posto nella speciale classifica degli incassi da sponsorizzazioni di maglia (fornitori tecnici esclusi), dopo il colpo del Chelsea, capace di convincere l’azienda di pneumatici Yokohama a staccare un assegno da 47 milioni di euro a stagione. In testa c’è il Manchester United che quattro anni fa strabiliò il mondo firmando con Chevrolet un accordo da 559 milioni di dollari per sette anni, dal 2014 al 2021: al cambio attuale, tolti i gettoni d’ingresso, si tratta di 70 milioni annui. Qualche dubbio resta su quell’operazione apparentemente fuori mercato, tanto da portare al licenziamento del manager della casa automobilistica che l’aveva approvata. A ogni modo, parliamo di cifre fuori portata per le italiane. A parte l’anomalia del Sassuolo, che ottiene dalla controllante Mapei un corrispettivo di 18 milioni per la sponsorizzazione della maglia, la pietra di paragone è rappresentata dalle tre storiche big. Bene, la Juventus incassa 17 milioni da Jeep, il Milan 14 da Emirates e l’Inter 12 da Pirelli, considerando i compensi base. La distanza con i club esteri è abissale.

GAP Le cosiddette jersey sponsorship, cioè quei contratti che consentono alle aziende di veicolare il proprio nome attraverso le divise da gara con il logo ben impresso sul petto, costituiscono tipicamente la voce principale dei ricavi commerciali di una squadra. Ecco perché sono lo specchio del gap tra il meglio dell’Europa e l’Italia. L’allarme sulla mancata crescita, o meglio sulla crescita a scartamento ridotto rispetto ai concorrenti, era stato già lanciato. Il guaio è che non ci sono segnali incoraggianti all’orizzonte. Anzi, la tendenza è di una continua e inesorabile dilatazione della forbice. Questo perché nel calcio si sta assistendo a una forte polarizzazione. Ci sono squadre che, in questi anni, si sono trasformate in marchi globali e ora raccolgono i frutti: le fantastiche quattro Manchester United, Real Madrid, Barcellona e Bayern e le altre di Premier League. «I grossi investimenti – spiega Marco Nazzari, amministratore delegato di Nielsen Sport Italia – stanno convergendo sulle property premium, che nel caso del calcio sono i club in grado di avere una diffusione su scala globale e di superare i confini territoriali. L’Italia non annovera nessuna property premium ed i ricavi delle sponsorizzazioni ne risentono. Ma il problema non riguarda solo la Serie A: le società in grado di attrarre queste cifre sono al massimo una decina in tutto il mondo. Il Barcellona è un brand globale, puoi mettertelo sul tuo biglietto da visita».

FATTORE BARçA Rakuten, marchio fondato da Mikitani, ha scelto i catalani per crescere su scala internazionale: in Giappone è un gigante dell’e-commerce ma in Europa è quasi sconosciuto. Il primo contatto col Barcellona avvenne un anno e mezzo fa. Il difensore Piqué, amico di Mikitani, propiziò una cena negli Stati Uniti con Bartomeu. Poi la lunga e complessa negoziazione portata avanti dai dirigenti del Barça, che inizialmente hanno trattato il rinnovo con Qatar Airways ma poi si sono resi conto che il cambiamento avrebbe portato maggiori benefici. «Rakuten è un’azienda che vuole avere visibilità globale, il Barcellona rappresenta il veicolo ideale», dice Francesco Calvo, direttore commerciale del club blaugrana. Grazie a questo accordo e al rinnovo con Nike, il Barcellona nel 2018 toccherà gli 800 milioni di fatturato, nella marcia verso il miliardo, come da obiettivo del nuovo corso. Sono livelli inavvicinabili per le nostre.

DIFFERENZE Calvo, che ha lavorato alla Juventus e conosce bene le differenze, racconta: «Quando ero a Torino e dovevo parlare con Gatorade mi rivolgevo all’ufficio italiano, qui a Barcellona parlo direttamente col quartier generale di Chicago. L’Italia è un mercato locale, la Serie A è una lega domestica che non riscuote grande interesse fuori dal confine. La mancata diffusione globale è la vera chiave per spiegare il ritardo del movimento italiano». Poi conta anche quello che si fa, o che non si fa. Nel 2013 la Liga aveva un solo ufficio all’estero, ora ne annovera nove e sta per aprirne altri tre. La Lega? Nemmeno uno.