Davide Mancino, Il Fatto Quotidiano 18/11/2016, 18 novembre 2016
I VERI NUMERI DEL LAVORO: IN ITALIA È CRESCIUTO SOLO QUELLO POVERO
Come va il lavoro in Italia? Non basta – come fa il governo o le opposizioni – contare i posti. Ci sono impieghi buoni e impieghi cattivi, accettati forse solo perché alternative non ce n’erano. Di che tipo, allora, sono quelli creati nella fragile ripresa italiana? Praticamente tutti a basso salario.
La risposta sconsolante arriva dal rapporto What do Europeans do at work? pubblicato di recente da Eurofound, un’agenzia dell’Unione europea che fornisce dati e analisi per contribuire a elaborare le politiche sociali. Gli autori hanno analizzato i lavori creati nel periodo che va da metà 2011 a metà 2015, scoprendo che in Italia la quasi totalità risulta in settori poveri. Secondo lo studio, infatti, i posti persi nelle fasce medie, medio-basse e medio-alte dei salari ammontano a oltre mezzo milione. Al contrario, quelli recuperati si trovano praticamente tutti nel 20% più povero, e sono circa 330 mila. Appena 9.300, invece, sono i posti creati nel 20% più ricco. E il saldo è comunque negativo per 212 mila unità.
Sono gli stessi autori dello studio a sottolineare che “nel periodo 2011-2015 Ungheria e Italia sono state soggette a un evidente declino occupazionale”. In ciascuno dei due Paesi “la crescita dell’occupazione è stata maggiore nei lavori a bassa paga e debole in quelli con salario più elevato”. La situazione appare migliore – ma non di molto – se consideriamo soltanto il periodo 2013-2015. In questo caso troviamo qualche segnale di vivacità nella classe media, ma comunque la fascia di salari più povera è quella cresciuta in misura maggiore: abbiamo perso 117 mila posti che già non navigavano nell’oro rimpiazzati da altri 157 mila nella fascia più bassa dei salari. In quanto a qualità il bilancio resta molto negativo.
Non risultano altre grandi nazioni europee in cui sia successo qualcosa di simile. In Francia, per esempio, durante gli stessi quattro anni l’effetto più evidente è quello di un generale rimescolamento in favore dei salari medi, con perdite nei posti a reddito medio-basso e medio-alto. In Spagna il bilancio totale resta ancora molto negativo, ma almeno dal 2013 la ripresa si è concentrata nella fascia media. Regno Unito e Germania fanno storia a parte: sono nazioni dove non solo cresce l’occupazione complessiva, ma lo fa molto anche nei lavori ben pagati. Certo in questi due Paesi la popolazione è aumentata in maniera rapida – al contrario che in Spagna – quindi se guardiamo soltanto al numero di posti è comprensibile che la crescita sia più rapida.
Si tratta di risultati non del tutto inaspettati. Secondo le rilevazioni Istat, infatti, nel 2015 il numero di precari in Italia, rispetto al totale dei lavoratori dipendenti, ha raggiunto un nuovo massimo storico: sono il 14%. E la crescita dell’occupazione a termine è stata ripidissima soprattutto fra i giovani, anche al di là della crisi: per dare un’idea, nel 2004 era precario circa il 35% dei dipendenti sotto i 25 anni, nel 2015 poco più del 57%. Tutti posti, difficile immaginare altrimenti, non proprio retribuiti con alti salari. Così nel tempo è aumentata la disuguaglianza e chi godeva di minori protezioni ha pagato il conto più salato della crisi. Per questo, anche se aumentano gli occupati in valore assoluto, con un’economia che cresce a ritmi bassissimi, i salari restano al palo. L’Istat indica quali sono i settori in sofferenza e quali invece vanno meglio. Dal 2008 al 2015, industria e costruzioni hanno perso circa mezzo milione di occupati ciascuno, mentre è nel settore dei servizi che si registra un discreto aumento – comunque non in grado di bilanciare il calo generale. In leggera crescita anche le persone che lavorano nella sanità o nell’istruzione, mentre gli occupati nell’amministrazione pubblica – a causa dei tagli e del blocco del turn over – risultano circa 140 mila in meno rispetto all’inizio della crisi.
I nuovi posti a basso reddito si concentrano proprio nei servizi. Secondo i calcoli di John Hurley, ricercatore che ha lavorato al rapporto, la fetta principale di questi impieghi riguarda mansioni come impiegati in imprese di pulizie, badanti, o venditori. Ma fra chi perde ci sono anche persone che fino a pochi anni fa non se la passavano poi così male, come i professionisti specializzati, per esempio.
Anche a guardare la quantità, piuttosto che la qualità, la ripresa dell’occupazione italiana resta lenta. Secondo i dati dell’Ocse restiamo un paese in cui a lavorare sono ancora in pochissimi. A metà 2016 aveva un impiego il 57,4% degli italiani tra i 15 e i 64 anni. La Spagna ci supera di un paio di punti – anche se con perdite dal 2008 molto più profonde, e non ancora rimarginate. La Francia si trova al 64,2% (poco dietro i valori pre-crisi), Nel Regno Unito e Germania, invece, il mercato del lavoro ha consentito di trovare un impiego al 73-74% delle persone. Parlare in termini di percentuali forse può non rendere l’idea: si tratta di una differenza che vale milioni di posti di lavori in più. O, nel caso dell’Italia, in meno.