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 2016  novembre 18 Venerdì calendario

POLITICA, STRATEGIE, GIOIE E DOLORI… VITA SEGRETA DEL “DIBBA”


[Alessandro Di Battista]

Shantaram vuol dire uomo di pace, in lingua marathi. Ed è il titolo del libro preferito da Alessandro Di Battista, scritto dall’australiano Gregory David Roberts. Perché questa è l’immagine che vorrebbe dare di sé: un uomo in pace che non si preoccupa di compiacere il prossimo.
Ma questa è solo la prima contraddizione dell’apparente linearità di Alessandro Di Battista, meglio noto come “Dibba”, trentotto anni, ex cooperante in Africa e Sudamerica. A fasi alterne contende, a Luigi Di Maio, il ruolo di leader del Movimento Cinque Stelle, ma anche in questo caso smentisce che vi sia una reale competizione: «Siamo amici. Metterci l’uno contro l’altro è una forzatura».

È un uomo che si sa controllare, Di Battista. Un control freak, direbbero i manuali di psicologia. Misura le parole, l’intonazione, i sorrisi, come se fosse allenato da sempre a farlo, con la prudenza a cui, si sa, è meglio ispirarsi con i giornalisti. Soprattutto quelli che mettono in discussione la strategia del Movimento e la Rete. «Noi non odiamo i giornalisti, al contrario: è un eccesso di amore. Perché io riconosco l’utilità sociale del vostro lavoro, come quello di un chirurgo». Vorrà forse sottolineare il fatto che il chirurgo brandisce un bisturi? Comunque, nel suo libro nero degli «illeggibili», elenca «Francesco Merlo, Giuliano Ferrara», e si capisce che la lista è ben più lunga. Però non vuole spiegare il perché: «Ho imparato, col tempo, a ignorarli. Se non leggo qualcuno, quel qualcuno non esiste». Strano atteggiamento per un politico.
Non tradisce incertezze, si rilassa solo quando parla dei suoi viaggi «attraverso il mondo degli ultimi» da cui dice di essere partito e da cui, prima o poi, immagina di tornare. Altri politici, di altri partiti, lo hanno dichiarato molte volte senza averlo mai fatto. Si accende, comunque, quando parla del suo tour estivo a cavallo della sua motocicletta: un palese riferimento al mito giovanile di Che Guevara.

È proprio con il tour “Costituzione Coast To Coast” per sostenere il No al referendum, che diventa il personaggio politico più raccontato dell’estate, immortalato in felpa, t-shirt con tanto di contemporaneo hashtag e casco in mano, a bordo di uno scooter, poi messo all’asta per raccogliere fondi destinati ai terremotati del 24 agosto. Il tour aveva come obiettivo, oltre ad attrarre consenso fra i giovani, di dimostrare che la Rete è più influente della tv e che il cittadino, se si dà una mossa, vince sulla politica tradizionale. «Quest’estate ho volato alto. Se a me concedono 45 secondi di fila in televisione e a Renzi 6 minuti, vuol dire che qualcosa non sta funzionando nelle regole della democrazia. Se invece io, in un mese, incontro in strada, con una spesa inferiore a 1.800 euro, 150 mila persone, e in più coinvolgo milioni di cittadini in Rete, sono accolto in casa degli italiani generosi – che spesso mi preparavano anche una tisana dopo i comizi –, allora questo Paese comincia a funzionare, e la politica dimostra di essere a misura d’uomo».
Per farlo “smollare” bisogna farlo parlare della sua famiglia. «Mio padre non esercitava la sua autorità, diceva “fai quel che ti piace”; mia madre Maria Grazia, casalinga, era invece più inflessibile». È nato in una clinica ai Parioli, cresciuto a Roma nord, in una famiglia in cui si parlava di politica, si commentava la guerra in Afghanistan e la parola “democrazia” rimbalzava spesso. «Mio padre, di cui si è detto tanto e troppo a sproposito, oltre a essere un piccolo imprenditore, era un attivista. Detestava la Dc, ma aveva anche molti amici comunisti. Si sa che era di destra, ma io ho sempre votato a sinistra. Però se non fosse nato il Movimento avrei smesso di votare».
Dunque, il suo guizzo di ribellione giovanile lo ha consumato sbattendo in faccia al padre fascista un voto a sinistra. Ma quando in tv Daria Bignardi gli chiese: «È in imbarazzo per le dichiarazioni di suo padre?», lui rispose: «Mio padre è mio padre, io sono io. Sono fiero di essere figlio di mio padre». Quel che pensa il genitore, chiude così il discorso, è di scarso interesse «per il mio percorso».

In guerra con il Pd. È la mamma, invece, il suo coach. Gli ha insegnato ad abbinare con cura i colori degli abiti. Gli diceva: «Sei troppo duro», quando lo vedeva in tv alle prime apparizioni, e oggi ribadisce: «Sei troppo poco duro». È lei la prima persona a cui ha mandato un sms quando ha varcato l’Aula la prima volta: «Ovvio, crede in me e ha sempre pensato che avrei fatto grandi cose».
In realtà Dibba sognava di fare il critico letterario. Al liceo non era una cima, poi ha ripreso fiato e si è laureato al Dams con 110 e lode e una tesi sui formalisti russi.
Nel Movimento è entrato come un convertito sulla via di Damasco: «Si era spalancata una porta per i cittadini trattati come stalker dalle istituzioni». Lo notano Casaleggio prima e Grillo poi: «Gianroberto mi stimava. Mi ha permesso di scrivere un libro a cui tengo molto: Sicari a 5 euro. Vittime e morte in Centroamerica. Si fidava di me. Beppe è un amico. Non ho mai trovato un solo elemento di disaccordo». Beato lui. Però i disaccordi, con il Dibba, li hanno trovati altri: abile oratore per alcuni, populista per tutti gli altri; una rock star sui palchi italiani, una bolla di sapone da bucare con uno spillo. A lui, comunque, ora non importa più nulla: «All’inizio le pativo, le critiche. Poi ho imparato a rendermi impermeabile, tanto diranno sempre di tutto. Hanno inventato che il mio primo discorso era stato scritto da Travaglio. Quando andai da Santoro dissero che leggevo gli appunti, dalla Bignardi che avevo un consulente che si occupa della programmazione neuro linguistica. Incredibile. Non conoscevo nemmeno il significato di questa parola. E che io studio molto, mi preparo. L’unico motivatore che ho è il Pd».

Più Facebook che Twitter. Mentre si racconta, viene spontaneo chiedersi: Dibba, ci sei o ci fai? Anche se è chiaro che non ci troviamo di fronte un robot, non ha auricolari, non ha richiesto registrazioni né la presenza dell’ufficio stampa. Camminiamo insieme fra tassisti e sostenitori romani (che saluta rassicurante) e annuisce con quel suo sorriso quando gli dicono: «Falli neri» (quelli del Pd, s’intende).
Per il mondo che bilancia l’influenza della Rete con il consenso reale, i suoi sono grandi numeri: 1.260.849 seguaci su Facebook, secondo a Matteo Salvini con i suoi 1.618.310. Seguono Di Maio, con i più modesti 949.854, e il premier Matteo Renzi ancora più sotto con 919.312, che però lo sbaraglia su Twitter: 2,71 milioni contro la “manciata” di 148mila di Di Battista.

Nel social però, si sa, le immagini contano più delle parole, e qui i risultati non sono esaltanti: 44,8 mila su Instagram. Eppure di fotografie ne condivide. E alcune strizzano l’occhio compiacente alle fan, come l’ultima condivisa su Instagram, su cui è stato applicato il filtro color seppia, e che ha suscitato in egual misura critiche e consensi e anche qualche geloso consiglio: «Attento perché rischi di avere più fan che seguaci politici!».

Il Dibba spensierato indossa braccialetti di cuoio; la sua coperta di Linus è il giubbotto di pelle citato da Crozza e usato da anni nel “tempo libero”, «tanto che mia madre l’ha soprannominato la “giacchettola”»; porta calze decorate con minuscole cinque stelle, «regalo di un attivista». Recentemente, in alcuni casi ha (volontariamente o involontariamente) abbandonato il suo tradizionale autocontrollo: come lo sguardo svagato durante l’intervista a Politics («Non era un atteggiamento presuntuoso, ho solo imparato a volare alto») o le lacrime al funerale di Casaleggio su cui hanno insistito molti quotidiani online.
Comunque, ci sta anche questo, perché la trama della sua sfera pubblica e privata è lavorata a dritto e rovescio. Ad esempio, mangia qualsiasi cosa: carne e pesce, legge scrittori russi e guarda commedie leggere; gioca a pallone, è laziale e andava in curva («Ora non più, almeno fino a quando ci sarà Lotito»); dice di leggere, «tutte le settimane», la Divina Commedia, le poesie di Pablo Neruda e di dilettarsi fra i fornelli. «I miei piatti preferiti sono gli spaghetti alle vongole o le rosette soffiate che faccio con il lievito madre e che ho imparato a preparare grazie a Internet». Ci mostra le fotografie a garanzia: effettivamente ha persino decorato una crosta con il tagliamela. Fa personalmente le pulizie a casa, «anche se mamma stira le mie camicie». E poi è ordinato sul lavoro e disordinato in casa, insomma, un bel ritratto che sembra davvero studiato a tavolino: il figlio italiano ideale. «Anche da bambino ero ubbidiente, felice, fantasioso». Magnifico. Smentisce di avere avuto velleità artistiche e di avere seriamente pensato di intraprendere una carriera da attore ad Amici. Però il provino l’ha fatto: «Mi ha trascinato un amico, per gioco. Se avessi voluto fare davvero l’attore mi sarei iscritto a una scuola di recitazione. Invece l’anno dopo sono andato a fare volontariato in Bosnia, con la Caritas».

Da Eduardo Galeano a Massimo Fini.
Non ha fatto il boyscout il Dibba, ma il catechista sì, «e oggi prego perché Dio esista». Perfetto, c’è proprio tutto. E la famiglia? «A 33 anni ero in America latina mentre i miei amici costruivano una famiglia. Quando loro condividevano le foto dei figli, io ero sulle Ande o fra gli operai che recuperavano le fabbriche in Patagonia». Neanche fosse davvero il Che. Resta quindi single, anche se i giornali gli attribuiscano diversi flirt. Ovvio: «Il mio impegno politico è totalizzante. È difficile trovare una persona che sposi in pieno e comprenda il mio sacrificio. Spesso mi sento solo, per fortuna ho gli stessi cinque amici di sempre e uno di questi non vota per me».
Tutto casa, lavoro, Camera, viaggi e, si immagina, Rete. «Contrariamente a quello che si può immaginare non consulto subito il web. Sul comodino ho Tiziano Terzani. Quando mi sveglio preparo una macchinetta per il caffè e bevo i primi tre della giornata. Poi mangio due biscotti e vado alla Camera, dove seleziono ciò che voglio leggere. Ho anche disdetto la rassegna stampa. Torno a casa e guardo un film, leggo. I miei scrittori preferiti sono Massimo Fini, Eduardo Galeano. Ma sto riscoprendo anche la prima Fallaci, che non era così in contraddizione con Terzani». La tv, invece, non ce l’ha. La fa, ma non la guarda. Perché continua a preferirle un mezzo, a suo dire, assai più democratico. «La Rete è un mercato. Incontri gente profonda e gente maleducata. Ma è libera, come quando cammini davvero in un mercato. Censureresti mai una chiacchiera ascoltata lì, fra la gente comune?».
Non ama i talent, «non è una ripicca per la bocciatura di Maria De Filippi», e ascolta molta musica: «Celentano, per esempio. E non perché è un nostro sostenitore, lo ascolto da quando ho diciotto anni. Ascolto rock messicano, i Nirvana, i Doors». Per il resto, «non ho bisogno di molte cose. Non ho mai avuto un’auto. Ho il motorino, la bicicletta e mi bastano. Tutti i miei risparmi li investo in felicità». Beato lui.
Francesca Barra