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 2016  novembre 18 Venerdì calendario

CAMPIONI CHE ODIANO LO SPORT

«Un oro non vale quattro anni di vita». Così Niccolò Campriani, poche settimane fa, ha ribadito un concetto a lui molto caro, senz’altro profondo: talento e bravura, in certi casi, possono essere una condanna. Per quanto possa apparire paradossale, quando sport e gioco diventano una professione, gli aspetti ludici che ne caratterizzano l’essenza si narcotizzano lasciando spazio ad altro: aspettative, timore di non essere all’altezza, l’obbligo del successo in una società, e in un mercato, che non ha rispetto né pietà per gli sconfitti. Il miglior tiratore italiano di sempre aveva già spiegato questo sentimento a Rio, all’apice della gloria, dopo le due medaglie d’oro nella carabina 50 metri 3 posizioni e nella 10 metri aria compressa, il riscatto dopo un lungo periodo di difficoltà: «In certi momenti sono arrivato a odiare questo sport. Chi mi è stato vicino sa che spesso mi sono allenato senza piacere».
Nessuno come Campriani sa cosa significhi la paura di sbagliare, il blocco sull’ultimo colpo. Quello fatale, quello che vanificò tutto, per lui fu a Pechino 2008, l’inizio della traversata nel deserto. Forse anche per questo cosa significhi questo blocco l’ha raccontato in un libro del 2013, perché scrivere, dunque esternare, è a suo modo un esercizio di redenzione: «Ricordati di dimenticare la paura», s’intitola.
Sono i campioni che odiano lo sport, e non sono casi infrequenti. Il più famoso è quello di Andre Agassi, il cui incubo è finito dieci anni fa, il 3 settembre 2006. Match point al quinto set, ace, 5-7: quel giorno, sconfitto al terzo turno dell’Us Open da Benjamin Becker, Andre Agassi pianse, mentre tutt’attorno migliaia di persone gli tributavano una standing ova- tion di 8 minuti, interrotta solo per consentirgli il saluto di prassi, un ringraziamento a braccio, con la voce rotta dall’emozione. Erano lacrime di commozione, ma c’era molto di più, e il motivo lo avrebbe spiegato pochi anni più tardi lo stesso Agassi nella sua autobiografia diventata un bestseller mondiale, Open: «Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore - scrisse - eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta». Riletto col senno di poi, era un pianto diverso: rappresentava la liberazione, la catarsi di un uomo che abbandonava quello sport grazie al quale era diventato un’icona planetaria e che gli aveva regalato opportunità smisurate e ricchezza per generazioni di discendenti. Ma che, allo stesso tempo, lo aveva ingabbiato: gli era stato imposto quando era bambino, e l’immenso talento aveva contribuito alla costruzione di una prigione dorata fatta di allenamenti e tornei, aerei e trionfi, jet set e autodistruzione. E quell’odio, inconfessato e inconfessabile.
Solo a carriera finita Agassi ha fatto pace con sé stesso e con il tennis, ma è stato il primo a raccontare che può esserci anche un lato oscuro, che non necessariamente gli idoli delle folle - esempi per tanti che come loro vorrebbero essere, o diventare - sono più felici.
In un contesto differente, ma con la stessa acredine verso lo sport-professione, rientra una frase che Alex Schwazer proferì nella celeberrima conferenza stampa che, dopo la positività all’Epo del 2012, tenne a Bolzano. Allora doveva difendersi e chiedere scusa nei confronti di chi aveva creduto in lui, ma tra le pieghe di quel profluvio verbale restano alcune parole dimenticate e che, probabilmente, da sole dicevano già tutto: «C’erano dei giorni in cui mi svegliavo ed avevo la nausea, pensando alla giornata che mi aspettava. Faccio la marcia perché sono bravo ma non ho piacere ad allenarmi 35 ore la settimana e avere sensi di colpa se esco a prendere una birra con un amico, perché non posso sgarrare». Fece l’esempio della sua compagna di allora, Carolina Kostner: «La differenza fra me e Carolina è che a lei piace quel che fa. Io, invece, non ce la facevo più». Correre, marciare, tirare o pedalare perché si è forti, perché si è vincenti. Non è un passatempo né uno sport, non lo è più. Agonismo, non diporto. Quando vinci una volta, devi vincere ancora, devi confermarti. Se non hai dentro di te la molla di una determinazione feroce, crolli. Se poi non è tanto lo sport a non farti sentire a tuo agio, quanto l’ambiente che si porta appresso, puoi resistere, ma il momento di fare i conti con la realtà arriva, a volte anzitempo rispetto a quella che potrebbe essere una naturale fine di carriera per sopraggiunta anzianità. Accadde ad esempio a Gianni Comandini, calciatore già del Milan e della Under 21, uno che a 24 anni venne valutato 30 miliardi di lire al calciomercato. Era il 2001: quattro anni più tardi, Comandini aveva smesso, un po’ a causa dei frequenti infortuni, molto perché il calcio lo aveva stancato. «Un mondo bello ed emozionante - lo definì in una intervista - ma dove gli equilibri sono poco umani». Salutò la compagnia, preparò lo zaino e prese a girare per il mondo, ma non per vedere stadi e alberghi come aveva fatto sino a quel momento: per goderselo e stupirsi della sua bellezza, stavolta. In Inghilterra, nell’Eldorado della Premier League, sfatò il mito Benoit Assou-Ekotto, ex Tottenham oggi al Metz: «Non dico che odio il calcio, ma non ho alcuna passione nel giocarlo. Lo faccio per i soldi. Come tante altre persone che si alzano la mattina e vanno a lavorare per sostenere le proprie famiglie», disse al “Guardian”. Come lui la pensava David Bentley, suo compagno di squadra agli Spurs e già nazionale, ritiratosi a 29 anni, quando già da un paio era un ex. Il professionismo sportivo come alienazione, né più né meno. E se qualcuno magari ci marcia (l’australiano Kyrgios, recentemente, ha usato le stesse parole di Agassi parlando del suo rapporto con il tennis), ci sono altri che precipitano nel baratro della depressione, l’altra faccia dell’abbacinante medaglia dello sport d’élite. Quella dei campioni che odiano lo sport e ne finiscono vittime.