Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano 17/11/2016, 17 novembre 2016
L’ESERCITO DI JUNCKER CHE PUÒ SPARARE SOLTANTO COLPI A SALVE
L’austerità è finita. C’è da crederci, se lo dice il ministro dell’Ecomia Pier Carlo Padoan. Ed è ovviamente merito dell’Italia: il fatto che la Commissione europea chieda “ai Paesi che hanno spazi di bilancio per spendere che lo facciano è una grande vittoria dell’Europa e l’Italia rivendica di essere il primo Paese ad averlo messo sul tavolo”. Questo dice Padoan. Ma basta leggere i documenti che ha presentato ieri la Commissione di Jean Claude Juncker per tornare alla realtà: la Commissione ha i poteri che le riconoscono gli Stati. E in questo momento gli Stati hanno deciso che deve essere impotente. Dall’Italia che la attacca contestando le regole perché (pare) la polemica porta consensi in vista del referendum, alla Germania che vuole togliere competenze perché non si fida, troppo indulgente verso Paesi come l’Italia.
Ogni tanto Juncker concede ai giornali qualche titolone: i maligni attribuiscono le intemerate (“me ne frego”, ha detto qualche giorno fa delle polemiche italiche) alla sua reputazione di solido bevitore. Gli altri al tentativo di ostentare una rilevanza che non ha mai avuto. La “fine dell’austerità” annunciata da Padoan, per esempio, è soltanto un auspicio, quasi un esperimento mentale. Supponiamo di trattare l’eurozona, scrive la Commissione, “come se ci fosse un ministro delle Finanze unico e guardare alla sua politica fiscale in termini aggregati”: allora servirebbero politiche espansive pari allo 0,8 per cento del Pil dell’area, il minimo accettabile sarebbe 0,3, una media gradita 0,5. C’è anche una pubblicità, molto discreta, ai progetti da finanziare: il fondo Efsi per le infrastrutture del piano Juncker, nel caso qualcuno voglia finanziarlo davvero. Tradotto: la Germania dovrebbe spendere di più per gli investimenti e non a casa sua, ma a livello europeo, per finanziare quei progetti che vanno a beneficio di tutta la zona euro.
Ma è, appunto, un esperimento mentale: la politica fiscale è affare dei singoli Stati, il ministro comune non c’è, la Germania ignora le indicazioni di Bruxelles, l’ha fatto nel 2016 e lo farà nel 2017: ha un avanzo delle partite correnti del 9 per cento (esporta molto più di quanto importa, grazie anche alla debolezza altrui) ma non ha voglia di ridurre la propria forza a beneficio degli altri. E anche l’Italia continuerà a fare, più o meno, quello che crede.
Ogni anno si ripropone lo stesso duello, con toni più aspri perché l’Italia è sempre più lontana dai suoi obiettivi di bilancio. La Commissione sembra pronta a fare sfracelli. Ma poi, alla fine, avalla. Basta guardare la flessibilità ottenuta dal governo Renzi, cioè gli aumenti di deficit che non vengono conteggiati ai fini del rispetto dei parametri europei. Juncker ci ha concesso, tra 2015 e 2016, 18,9 miliardi: 8,4 a fronte di riforme la cui attuazione è quantomeno dubbia (gli interventi sulla Pubblica amministrazione sono ancora in corso, la legge sulla concorrenza è ferma in Parlamento da due anni, il “rafforzamento della spending review” non si è visto). Poi ci sono 4,2 miliardi per finanziare investimenti che non ci sono stati, ma qui c’è la scusa che la flessibilità potrebbe essere usata nel 2017. Nei 950 milioni che abbiamo potuto spendere in deficit ci sono, tra l’altro, i 150 milioni per la cyber security che non sono ancora mai stati spesi per i ritardi dovuti al tentativo (finora fallito) di Matteo Renzi di affidarne la gestione al suo amico Marco Carrai. Ma la Commissione non solo glissa su queste mancanze, ma addirittura si dice pronta a “considerare un approccio ampio” al calcolo delle spese per il terremoto. Ampio abbastanza, par di capire, da recepire la richiesta di Renzi di tenere fuori dal conto del deficit anche i 2 miliardi che nel 2017 lo Stato spenderà per le detrazioni per le ristrutturazioni edilizie, con la scusa del doppio sisma Amatrice-Norcia. Saranno scorporati, per fare un esempio, perfino i rimborsi a chi ha rifatto il bagno nel 2008. Così Renzi potrà finanziare, sempre in deficit, altre misure di pari entità (o evitare salassi come l’aumento dell’Iva)
Da quando la Commissione ha iniziato ad applicare le regole in funzione delle esigenze politiche del momento, le ha rese deboli, malleabili. E quindi ogni volta deve costruire spiegazioni tecniche sempre più contorte per giustificarne le violazioni. Ma gli Stati lo hanno capito e ne approfittano.