Roberto Toscano, Limes: Russia-America la pace impossibile 9/2016, 17 novembre 2016
PERCHÉ MOSCA E TEHERAN NON SONO VERI ALLEATI– 1. Ormai non sappiamo più con quale paradigma definire le relazioni internazionali
PERCHÉ MOSCA E TEHERAN NON SONO VERI ALLEATI– 1. Ormai non sappiamo più con quale paradigma definire le relazioni internazionali. Il bipolarismo è da tempo finito, il multipolarismo è più un’aspirazione che una realtà, e anche il ricorso all’abusato termine «postmoderno» ha fatto il suo tempo, soprattutto come modo eufemistico di definire una condizione di anarchia. Se guardiamo in particolare all’attuale quadro della situazione in Medio Oriente, e soprattutto al conflitto in Siria, appare oggi problematico dare un senso minimamente coerente al groviglio di finte alleanze, nemici principali e nemici secondari che possono diventare alleati parziali, scelte del «male minore» che spesso producono esiti controproducenti quando non catastrofici. Come risultato, si produce una sensazione di assurdità e confusione dove non solo risulta difficile orientarsi sul piano politico, ma anche i giudizi morali si sfumano in un quadro generalizzato di contraddittorietà. Eppure non si dovrebbe mai rinunciare a capire, cercando di districare i grovigli di interessi, motivazioni, paure, progetti politici. Prendiamo ad esempio i rapporti fra Iran e Russia, in apparenza schierati dalla stessa parte nel sostenere il regime di al-Asad, che senza il loro aiuto sarebbe molto probabilmente stato travolto dall’offensiva di forze ribelli che fin dall’inizio hanno potuto contare sul sostanziale aiuto di Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Russia e Iran convergono nel ritenere inaccettabile non tanto la fine di Baššar al-Asad, ma le prevedibili prospettive del dopo-Asad. Mosca e Teheran temono infatti l’arrivo al potere di forze radicali diventate rapidamente egemoniche all’interno dell’opposizione ad al-Asad dal momento in cui il regime rispose con totale violenza repressiva a una protesta in origine pacifica, non molto diversa da quella che aveva caratterizzato la «primavera araba» in Tunisia e in Egitto. I due paesi sono dalla stessa parte del conflitto, ma con interessi non del tutto convergenti. Per l’Iran l’importanza della Siria consiste soprattutto nella sua funzione di transito verso l’Hizbullah libanese, unico vero deterrente su Teheran nei confronti di una minaccia di attacco israeliano. Siamo nel campo della sicurezza nazionale e dell’aspirazione dell’Iran a essere una potenza regionale – come minimo a non essere isolato. Una geopolitica spesso spregiudicata in cui il realismo tende a prevalere sull’ideologia e soprattutto sulla religione. Non è vero, in concreto, che la politica iraniana sia ispirata soprattutto dal disegno di diffondere lo sciismo. Non siamo più al tempo di Khomeini, quando effettivamente gli ayatollah che avevano conquistato il potere abbattendo lo scià ed eliminando gli alleati marxisti e liberali credettero per una breve stagione di poter realizzare una politica di espansione della rivoluzione islamica di fede sciita. Gli alauiti siriani sono solo remotamente sciiti. Anzi, in Iran avrebbero non poche difficoltà a essere riconosciuti come tali e a evitare di essere considerati eretici. (Incidentalmente, lo stesso si può dire degli huthi yemeniti – un’ennesima setta tra le tante in cui in Medio Oriente si articolano le religiosità anche all’interno dell’islam). Non solo, ma l’idea che in Siria la minoranza alauita domini sulla maggioranza sunnita è grossolana. È vero che gli alauiti, grazie alla dinastia al-Asad, dominano in settori chiave come l’intelligence, ma è anche vero che i sunniti sono massicciamente rappresentati all’interno del regime, dalle Forze armate (compresi i più alti gradi) alla borghesia. Il regime iraniano utilizza evidentemente contatti e affinità di tipo religioso (quando ci sono) per sostenere i propri interessi nazionali, ma che lo sciismo non sia una condizione necessaria nello stabilire legami di natura geopolitico-strategica lo dimostra, sempre in Medio Oriente, il rapporto che Teheran ha con il movimento sunnita Hamas. Per Mosca si tratta invece di mantenere un alleato «storico» dei tempi sovietici e una base navale, Tartus, che vale soprattutto come segnale concreto che la Russia è presente nel Mediterraneo. Da non sottovalutare poi la preoccupazione della Russia nei confronti del possibile consolidarsi, qualora al-Asad venisse abbattuto militarmente, di un’area di jihadismo aggressivo, con aspirazioni esplicitamente globali, in una zona non molto distante da quella regione caucasica ove i governi russi si sono storicamente scontrati con un islam combattente. Il ruolo spesso di punta dei ceceni nelle file dei foreign fighters in Siria e in Iraq non passa certo inosservato al Cremlino. Ma per la Russia il conflitto siriano riveste anche una dimensione che va al di là di considerazioni di sicurezza e presenza regionale. Intervenendo militarmente in Siria, Putin vuole dimostrare che la Russia è in grado di proiettare la propria potenza oltrefrontiera. Il segnale è diretto al popolo russo, che non ha mai superato l’umiliazione del «declassamento» intervenuto con la fine dell’Urss, ma anche agli Stati Uniti, che rimangono per i russi – anche in questa fase in cui Obama ha preso atto del fallimento del disegno unipolare americano post-guerra fredda – sia avversario che modello da imitare. Le esigenze e i disegni di Teheran e Mosca sono quindi diversi, e questo non può non riflettersi anche nelle prospettive geopolitico-diplomatiche dei due paesi. Né russi né iraniani avrebbero molti scrupoli nell’abbandonare il loro protetto al-Asad – purché ovviamente fossero tutelati i loro interessi di fondo. Magari dopo un decent interval, dato che non sembra abbiano intenzione di piegarsi alla pretesa dei combattenti anti-Asad, che continuano ancora a chiedere di ottenere come condizione previa a un negoziato quello che non sono riusciti a ottenere sul campo di battaglia l’uscita di scena di Bassar. Ma nell’auspicabile prospettiva di un’uscita negoziata dall’atroce e interminabile conflitto siriano, non risulta affatto scontato un perfetto allineamento di Russia e Iran. Fra l’altro, negli ultimi tempi Putin ha confermato la sua spregiudicata imprevedibilità con un riavvicinamento sia alla Turchia sia a Israele. Mosca non ha gli stessi timori di Teheran nei confronti della prospettiva che alla fine dell’attuale conflitto in Siria possa risultare rafforzato il disegno del Kurdistan unito, mentre Hizbullah non riveste per Mosca l’importanza che ha per Teheran. Ancora più importante è il «fattore America». Se è vero che per Putin l’impegno in Siria è un modo di dimostrare a Washington che la Russia non può essere esclusa, che la Russia va presa in considerazione, che con la Russia si deve trattare – allora è tutt’altro da escludere che nel momento in cui sulla Siria si dovesse finalmente passare a un effettivo negoziato si possano aprire prospettive di intese russo-americane sulla cui base diventerebbero concepibili scambi e compensazioni, magari su questioni come quella ucraina. In altre parole, nella misura in cui la Russia vuole giocare a livello globale e non solo a quello regionale, non è detto che i suoi interessi siano compatibili con quelli di un paese come l’Iran, che non manca di ambizioni, ma che non può certo aspirare, come la Russia, a un ruolo di potenza globale. 2. L’approdo diplomatico appare comunque ancora tutt’altro che in vista. Lo diventerà soltanto quando né al-Asad né i suoi avversari penseranno di potere prevalere sul terreno militare e nello stesso tempo si sentiranno abbastanza sicuri di non essere eliminati a seguito della fine delle ostilità. La pace arriva solo quando i contendenti (e, dietro, i loro sponsor) sanno di non essere abbastanza forti per vincere al cento per cento, e di avere la forza sufficiente per evitare che la fine delle ostilità si traduca nella loro eliminazione. Finora questa duplice condizione non si è realizzata. Questo spiega il protrarsi della tragedia siriana. Iran e Hizbullah hanno impedito il crollo del regime siriano, ma quando questo appoggio sembrava insufficiente è intervenuta la Russia con i propri aerei. Un recente episodio, quello dell’uso di una base aerea iraniana da parte di aerei russi, ha però sollevato forti interrogativi sulla profondità e sulla tenuta dell’alleanza russo-iraniana sulla Siria. A distanza di pochi giorni dall’inizio, il 16 agosto, delle missioni aeree russe in partenza dalla base di Shahid Nojeh (Hamadan), il ministro degli Esteri iraniano ha annunciato la loro sospensione con l’improbabile spiegazione che si era trattato di una missione specifica autorizzata ad hoc. Meno diplomatico e più credibile è stato invece il ministro della Difesa iraniano Dehghan, che ha accusato Mosca di «indiscrezione», in quanto aveva rivelato un tipo di collaborazione che sarebbe stato meglio fosse rimasta riservata. Insomma, i russi sarebbero colpevoli di quello che gli americani chiamano kiss and tell (rivelare una relazione che si dovrebbe mantenere nascosta) mettendo in imbarazzo gli iraniani. Ma perché il governo iraniano è imbarazzato della rivelazione? La spiegazione si può sviluppare su due distinti livelli. Anzitutto vi è un preciso dettato della costituzione iraniana. Si tratta dell’articolo 149: «È proibito stabilire qualsiasi tipo di base militare straniera in Iran, anche a fini pacifici» – un dettato che trova in quel paese profondamente nazionalista un’eco radicata nell’opinione pubblica di qualsiasi tendenza politica. Ma non basta. La circostanza che l’episodio si riferisca alla Russia rende le cose più complicate, anzi, più aspramente controverse. Il fatto è che in Iran l’immagine della Russia è profondamente negativa, e questo indipendentemente dal tipo di regime al potere a Mosca. Per gli iraniani, la Russia (sia zarista sia sovietica sia quella attuale) è difficilmente catalogabile come «paese amico». Anzi, si può dire che nell’immaginario collettivo degli iraniani la Russia sia seconda solo al Regno Unito come potenza ostile alle aspirazioni, alla dignità nazionale e all’indipendenza del popolo iraniano. Nelle scuole iraniane (prima e dopo la rivoluzione del 1979) si studiano due trattati, quello di Gulistan del 1813 e quello di Turkmenchay del 1828, sulla cui base la Russia, dopo avere sconfitto militarmente la Persia, la espulse dall’area caucasica, sottraendole Daghestan, Georgia e Armenia, che fino all’inizio del XIX secolo avevano fatto parte dell’impero persiano. Un episodio verificatosi nel 1829 racchiude in sé vari elementi che permettono di individuare le complesse radici dell’inimicizia russo-iraniana. Aleksandr Sergeevic Griboedov, diplomatico dello zar e letterato, considerato uno dei classici della letteratura russa, si trovava in Iran per seguire (o piuttosto imporre alla Persia) l’applicazione del Trattato di Turkmenchay. In primo luogo per ottenere il versamento di una somma a titolo di riparazioni, ma anche per affrontare il caso di alcune donne cristiane (armene e georgiane) presuntamente convertite con la forza all’islam e rinchiuse negli harem di notabili persiani. Griboedov dispose che il reparto di cosacchi che difendevano la missione russa entrasse negli harem per prelevare le donne in modo da chiarire se volessero o meno lasciare l’Iran e fare ritorno a territori soggetti allo zar. Quando si diffuse la voce che i russi avevano catturato donne diventate musulmane obbligandole ad abbandonare l’islam, si scatenò un’ondata di indignazione popolare, alimentata dagli ‘ulama, uno dei quali emise una fatwa in cui riscattare donne musulmane prigioniere di infedeli veniva definito un dovere religioso. A questo punto la legazione russa venne invasa da una massa inferocita che i cosacchi non riuscirono a respingere e Griboedov venne linciato. Naturalmente la Russia sembra essere parte lesa (è come se il nostro Vittorio Alfieri fosse stato trucidato in terra straniera), ma nell’episodio ci sono ingredienti che vanno ben al di là del caso specifico e si sono spesso riprodotti nei rapporti fra Iran e resto del mondo: il risentimento contro il dominio straniero; il ruolo dei mullah; la donna come terreno di scontro piuttosto che come soggetto; la violazione (come poi avvenne nel 1979) di una sede diplomatica. Particolarmente bruciante e mai perdonato, per i democratici iraniani come per i nazionalisti, è il ricordo del ruolo svolto dalla Russia imperiale nella repressione del generoso tentativo – all’inizio del XX secolo – di stabilire nel paese un sistema costituzionale. Tentativo che durò soltanto due anni e che ebbe termine nel giugno 1908, quando il comandante della brigata di cosacchi messa dallo zar a disposizione dello scià prese a cannonate il parlamento. Con la restaurazione del potere assoluto giunse anche un accordo anglo-russo sulla cui base la Persia veniva divisa in tre parti: il Nord zona di influenza russa; il Sud zona di influenza britannica e la zona centrale aperta alla competizione fra le due potenze. Gli iraniani, mai colonizzati ma ripetutamente sottoposti a pesanti condizionamenti esterni, non hanno dimenticato queste storiche umiliazioni. Sempre a proposito della rivoluzione costituzionale, va citato un episodio che contribuisce a spiegare come l’avversione nei confronti di inglesi e russi non si estenda, nella coscienza popolare, agli americani, avversari recenti. Fra gli eroi nazionali iraniani vi è un americano: Howard Baskerville, ventiquattrenne laureato a Princeton arrivato a Tabriz come missionario presbiteriano che, nel momento della rivoluzione, si schierò con gli insorti morendo sulle barricate. Il cambiamento di regime in Russia dopo la rivoluzione bolscevica non comportò un cambiamento di segno nel ruolo svolto dalla Russia nei confronti dell’Iran. La Russia sovietica incoraggiò e sostenne materialmente tentativi separatisti (con la proclamazione di «repubbliche sovietiche») nella regione del Gilan e nell’Azerbaigian iraniano. Durante la seconda guerra mondiale, poi, ancora una volta i russi, assieme agli inglesi, esercitarono un controllo del territorio iraniano dopo che lo scià aveva manifestato simpatie filotedesche. Nell’Iran dello scià è esistito un forte partito comunista, il Tudeh, e i comunisti iraniani sono stati parte della rivoluzione del 1979, commettendo un tragico errore: quello di ritenere che, una volta abbattuto il regime imperiale, le forze progressiste (che speravano di egemonizzare) avrebbero eliminato il clero, ritenuto indispensabile per la costruzione del consenso rivoluzionario soprattutto negli strati non urbani e non istruiti della popolazione. Accadde, come noto, esattamente il contrario. Khomeini eliminò a breve distanza dal trionfo della rivoluzione non solo i liberali e gli islamo-marxisti (i Mujahiddin al-Khalq – Mko), ma anche e soprattutto i comunisti del Tudeh, di osservanza moscovita. L’avversione nei confronti della Russia sovietica da parte dei più radicali fra i rivoluzionari islamici era così radicale che quando qualcuno, al momento della elezione di Ahmadi-Nejad alla presidenza della Repubblica, scrisse che egli era fra gli studenti che nel 1979 avevano occupato l’ambasciata americana, altre testimonianze sostennero invece che il futuro presidente faceva parte di un gruppo islamista radicale che aveva proposto di occupare l’ambasciata sovietica invece di quella americana. La storia della «non-amicizia» russo-iraniana arriva fino ai nostri giorni, con la Russia che appoggia Saddam durante la guerra contro l’Iran, che aiuta l’Iran a costruire la centrale nucleare di Bushehr, ma con ritardi e infinite controversie, e infine che approva alle Nazioni Unite le sanzioni contro l’Iran in relazione al suo programma nucleare. 3. Da tutto ciò si capisce quanto sia difficile, per qualsiasi governo iraniano, «vendere» all’opinione pubblica un rapporto di alleanza e soprattutto di amicizia con la Russia. E oggi non si tratta solo di opinione pubblica. Non vi è dubbio che l’opposizione conservatrice a Rohani abbia colto l’occasione della concessione della base ai russi per attaccare la politica estera dell’attuale governo iraniano. Una geopolitica che viene presentata come non sufficientemente attenta a difendere la sovranità nazionale: accettando le limitazioni derivanti dall’accordo nucleare, ma anche concedendo ai russi di tornare a stabilire una presenza militare sul territorio dell’Iran. Non basta avere nemici comuni per essere amici, e nemmeno alleati affidabili.