Carlo Jean, Limes: Russia-America la pace impossibile 9/2016, 16 novembre 2016
SCENARI (IMPROBABILI) DI GUERRA ‘CALDA’– I rapporti tra Washington e Mosca non sono mai stati così cattivi come dopo l’intervento russo in Ucraina e l’annessione della Crimea
SCENARI (IMPROBABILI) DI GUERRA ‘CALDA’– I rapporti tra Washington e Mosca non sono mai stati così cattivi come dopo l’intervento russo in Ucraina e l’annessione della Crimea. L’Europa occidentale ha di malavoglia seguito il suo potente alleato d’Oltreoceano, da cui continua a dipendere per la sua sicurezza. Quella orientale ha accentuato il suo «filoamerikanismo», perché solo gli Stati Uniti possono garantirla. Beninteso, vi è un limite: nessuno intende farsi distruggere per proteggere gli Stati baltici. Neppure questi ultimi, che non vogliono trasformarsi in un campo di battaglia nucleare. Allora che fare? Sembrava che in Siria le relazioni fra Washington e Mosca stessero migliorando. Esiste fra le due grandi potenze l’interesse condiviso di distruggere lo Stato Islamico (Is) e far terminare il conflitto. La tregua sponsorizzata da entrambe è, però, rapidamente fallita. Mosca è rimasta prigioniera dell’aiuto militare fornito ad al-Asad. Le ambizioni della sua politica di potenza (approfittare della debolezza strategica di Obama per riprendere il rango di potenza mondiale) si sono rivelate troppo forti per aver ragione di tali interessi contingenti. È difficile prevedere cosa avverrà. In caso di aggressione all’Europa orientale (inizialmente limitata a Estonia e Lettonia, in cui vivono consistenti minoranze russofone), varie sono le opzioni di Washington, quindi della Nato. Primo: l’escalation. Essa comporterebbe con elevate probabilità il ricorso alle armi nucleari. È poco probabile che per i paesi baltici Washington lo rischi, ancor meno che la Nato pianifichi un loro impiego deliberato. Gli stessi baltici si opporrebbero, molti Stati europei si dissocerebbero. La dissuasione non può essere basata sui sistemi convenzionali del Prompt Global Strike, né sulla minaccia di affondare le navi russe nel Mar Baltico e nel Mar Nero. Secondo: una controffensiva. Praticamente impossibile in Europa se non in tempi lunghissimi, dato l’avvenuto disarmo dei membri europei della Nato. Per un recente studio della Rand Corporation [1], i rapporti di forza a favore della Russia sarebbero 7:1 per i carri armati, 5:1 per i veicoli corazzati, 4:1 per le artiglierie, 5:1 per gli elicotteri da combattimento. Le Aeronautiche Nato non potrebbero ristabilire un equilibrio, data la potenza dei nuovi missili contraerei russi, dagli S-300 agli S-400. La rappresaglia potrebbe allora essere effettuata in teatri periferici: in Medio Oriente, con l’impiego di forze terrestri e con massicci bombardamenti delle forze di al-Asad; oppure in Ucraina, con il trasferimento di armamenti moderni alle forze di Kiev; o ancora nella stessa Russia, con un maggior sostegno saudita all’Emirato del Caucaso e alle forze islamiche radicali dell’Asia centrale e delle oblast’ a maggioranza musulmana. Tale iniziativa avrebbe buone possibilità di riuscita: i musulmani russi, in gran parte sunniti e con imam addestrati in Arabia Saudita, manifestano crescente insofferenza verso l’appoggio di Mosca alla Siria e all’Iran sciita. Terzo: l’escalation economica, sul genere delle fasi più calde della guerra fredda. Mosca non potrebbe reggerla, è enormemente più debole rispetto ai tempi dell’Urss. Si dovrebbero bloccare le esportazioni di petrolio dalla Russia, minimizzare quelle di gas, ristabilire il controllo delle tecnologie più avanzate, strategiche e non, bloccare l’accesso del paese al sistema finanziario internazionale, congelare i depositi russi nelle banche occidentali. Mosca sarebbe posta di fronte all’alternativa di ritirarsi o diventare il junior partner della Cina. Quarto: l’accettazione del fatto compiuto (l’occupazione russa dei paesi baltici). Sarebbe la fine della Nato e della credibilità americana nel mondo, nonché l’inizio della finlandizzazione dell’Europa. Lituania e Polonia diverrebbero i prossimi obiettivi. 2. L’occupazione delle province estoni e lettoni, dove vivono consistenti minoranze russe, oppure dell’Ucraina per riunire a Mosca la «nuova Russia» conquistata dalla zarina Caterina, non potrebbe essere limitata. Troppo grandi sarebbero i rischi di una reazione occidentale nel medio-lungo periodo. In Ucraina il conflitto diverrebbe totale. La Russia mirerebbe a ricostituire un collegamento terrestre con la Crimea, ormai parte della Federazione, e occuperebbe tutta la fascia costiera del Mar Nero, Odessa inclusa, separando il resto dell’Ucraina dal mare. Putin si rende conto che ha ormai perduto gli ucraini e che l’avvicinamento del paese all’Occidente è irreversibile. Il corridoio costiero si prolungherebbe fino alla Transnistria, minacciando l’indipendenza della Moldova. Anche in Europa orientale la Russia non potrebbe fermarsi. Dovrebbe attaccare la Lituania e forse anche la Polonia, realizzando un collegamento terrestre con Kaliningrad. Nei due ultimi summit Nato e nelle capitali dei paesi baltici, europei centrorientali e oggi anche scandinavi, frequenti sono le denunce dell’aggressività russa e le preoccupazioni sullo scoppio di una guerra, sia «ibrida» sia convenzionale. Tutti gli studi effettuati al riguardo attribuiscono alla Russia la capacità di occupare militarmente i due Stati baltici in un paio di giorni. La geografia ne impedisce la difesa diretta, quale che sia l’entità delle forze Nato ivi schierate. La loro sicurezza resta quindi basata sulla dissuasione, necessariamente nucleare, ma priva di difese avanzate che consentano agli organi dell’Alleanza di prendere decisioni su come reagire o meno. Per essere valida la dissuasione dev’essere credibile. Una difesa avanzata, come quella della guerra fredda, fondamentale per il coupling euro-americano, non è fattibile. Nel succitato studio della Rand si valuta che siano necessarie sette brigate solo per far guadagnare alla Nato il tempo necessario a decidere. Nel summit atlantico dell’estate 2016 si è stabilito di schierare quattro battaglioni, uno per ciascuno dei tre Stati baltici e il quarto in Polonia. Si è ammesso che l’impiego delle armi nucleari possa diventare inevitabile. La Nato ha deciso di basarsi sulla trip-wire deterrence: non tanto perché creda alla sua efficacia, quanto per la mancanza di valide alternative. Occorrerebbe definire strategie più credibili, che non consentano un ricatto nucleare da parte di Mosca a protezione di attacchi limitati o di aggressioni effettuate con le strategie della guerra ibrida, sperimentate con successo in Ucraina. La loro ambiguità renderebbe impossibile una risposta immediata dell’Alleanza, il cui intervento è subordinato all’unanimità del Consiglio atlantico. L’Alleanza è innanzitutto politica, non militare. È quindi impossibile demandarne una decisione ai comandi militari. In caso di emergenza, una decisione sarebbe verosimilmente presa dai soli «Stati Uniti. 3. La modifica dello status quo territoriale post-guerra fredda, avvenuta con l’annessione della Crimea, ha riportato la Nato al suo ruolo originario: la difesa collettiva degli «Stati membri. Forse all’inizio degli anni Novanta sarebbe «stato possibile creare un sistema paneuropeo di sicurezza. Secondo molti, gli allargamenti della Nato e dell’Ue a est l’hanno reso impossibile: nel 1991 l’80% dei russi aveva un’opinione favorevole degli «Stati Uniti, oggi è il 20%. Ritengo non del tutto plausibile tale visione. L’Urss si era frammentata prima degli allargamenti: George H.W. Bush «si era recato in Ucraina nel giugno 1991 per cercare di convincerla a rinunciare alla secessione dalla Russia, che considerava essenziale per la stabilità eurasiatica e globale. Non ci riuscì e l’Urss «si frammentò a Taškent nel dicembre 1991. Seguì un periodo confuso che non degenerò in altre secessioni o in guerre civili soprattutto per il patriottismo e il «senso del dovere degli ufficiali russi. Ma l’appetito vien mangiando. Probabilmente Washington non ha mai creduto allo spirito di Pratica di Mare: con nuove proposte di allargamento della Nato, la denuncia del Trattato Abm e le rivoluzioni colorate ha umiliato la Russia fino a provocarne la reazione. Putin ha consolidato il proprio potere interno con il patriottismo e con il ripristino dell’orgoglio russo. Il suo realismo è unito a una grande capacità strategica. Quest’ultima ha avuto buon gioco sull’inefficienza strategica e le indecisioni di Barack Obama. Putin lo ha spiazzato varie volte, cogliendolo di sorpresa. Lo sostiene l’opinione pubblica, contenta di aver trovato un leader che riscatti le umiliazioni subite. La geopolitica è così tornata al centro della storia. La globalizzazione e il multilateralismo, anche nella sua forma di regionalismo, sono in crisi. È ricomparsa la tradizionale politica di potenza: la forza militare conta ancora. I conflitti non coinvolgono più solo gli Stati deboli né riguardano minacce non statuali, come il terrorismo o la pirateria. Possono coinvolgere direttamente le grandi potenze. Due sono le zone più pericolose per la nuova conflittualità: l’istmo pontobaltico e il Mar Cinese Meridionale. Un conflitto in tali aree non potrebbe rimanere limitato. Usa, Russia e Cina hanno visioni diverse sul futuro del sistema internazionale. Mosca e Pechino non accettano più le regole che, dopo la seconda guerra mondiale, erano state dettate dagli Stati Uniti, egemone globale. Per l’Europa l’uso della forza non è più solo un’opzione. I suoi governi non possono più decidere se intervenire o no in base alle convenienze del momento. La pianificazione della difesa non può più essere finalizzata semplicemente a fornire alla diplomazia gli strumenti militari con cui trasmettere dei «segnali», come avvenuto dopo la fine della guerra fredda con le operazioni fuori area alla lotta globale al terrore. Sono state distrazioni costose e inefficaci, soprattutto in Medio Oriente. Occorre dunque ripensare strategia e pianificazione delle Forze armate e ridare credibilità alla dissuasione, ma senza esagerare per non cadere nella spirale perversa di una nuova corsa al riarmo. Gli europei devono abbandonare la cieca fiducia nella protezione di mamma America. Devono per prima cosa recuperare una cultura strategica. Non devono più dare per scontato che un conflitto maggiore in Europa non possa scoppiare. Sicuramente oggi è improbabile, ma la pianificazione delle forze deve fondarsi sullo scenario peggiore, per evitare appunto che si verifichi. Un conflitto fra Nato e Russia non avverrebbe nel vuoto. Sarebbe inevitabilmente collegato agli assetti geopolitici globali, in particolare al sistema Asia-Pacifico e all’economia mondiale. La Cina se ne avvantaggerebbe, approfittando del contestuale indebolimento di Russia e Stati Uniti. 4. Il Vecchio Continente è oggi un «profeta disarmato». Per di più è diviso fra vari Stati che presentano vulnerabilità differenti – non solo strategiche, ma anche psicologiche – nei confronti della Russia. Annoia il resto del mondo con le sue retoriche dichiarazioni sui meriti dei diritti umani, della pace, della democrazia e del capitalismo liberale. Pensa che il suo modello e i suoi princìpi siano più morali di quelli degli altri, e che quindi siano destinati necessariamente a essere condivisi dal resto del mondo. Ha perduto il senso della storia, nella quale sono sempre prevalsi non i buoni e i giusti ma i potenti e i realisti. Lo spirito di Pratica di Mare è del tutto scomparso. Mosca ha in corso un cospicuo programma di riarmo. Le capacità strategiche di Putin costituiscono un suo essenziale moltiplicatore di potenza. La situazione strategica dell’Europa centrorientale e baltica è critica. Per ora, la sicurezza dell’istmo ponto-baltico è garantita dagli Stati Uniti, preoccupati – come lo era stato nella pace di Versailles il geopolitico e diplomatico inglese Halford Mackinder – di separare con gli Stati della Piccola Intesa le popolazioni germaniche e quelle slave. Oggi Washington cerca di evitare quella che viene chiamata Gerussia, cioè l’unione della tecnologia tedesca con le risorse naturali russe. L’impegno americano ha gravi limiti in caso di una Blitzkrieg russa, ma avrebbe efficacia sia strategica sia economica nel medio-lungo termine. La Russia non ha infatti le risorse per una guerra prolungata o per una nuova guerra fredda, né ha un’economia che possa resistere a una guerra economica americana. Diverrebbe vassalla della Cina, cadendo dalla padella nella brace. Gli Stati Uniti conoscono tuttavia una crisi nella loro politica estera, fallimentare durante le due presidenze di Barack Obama. È cessata la bipartisanship che aveva caratterizzato la guerra fredda, alla base dell’affidabilità strategica e quindi della leadership di Washington. Gli alleati, pur dipendendo come prima dalle sue garanzie di sicurezza, non si fidano più dell’America. Donald Trump ha aumentato tale percezione. Mosca cerca di sfruttare la debolezza dei legami transatlantici e intraeuropei per indebolire le due organizzazioni che giudica ostili, Nato e Ue. Un disimpegno statunitense non indurrà gli europei a prendere sul serio la loro sicurezza. Tutt’al più li indurrà a lamentarsi. Per fortuna Putin è consapevole della forza potenziale degli Usa, in campo sia militare sia economico. La Russia presenta del resto vulnerabilità che ne frenano le ambizioni. Putin le conosce bene e sa che la sua rivalsa nei confronti dell’Occidente non può basarsi su una strategia diretta. Più probabile è il ricorso alla guerra ibrida, in particolare nelle province russofone dell’Estonia e della Lettonia. Tale strategia rende difficile la percezione di un’aggressione e può quindi sfruttare le divisioni dell’Occidente, impedendone una reazione unitaria e tempestiva. La Nato valuta che Riga e Tallinn potrebbero essere occupate entro 36-60 ore. Solo la Lituania potrebbe prolungare la propria resistenza ricorrendo alle tattiche della difesa operativa in profondità, rese possibili anche dalla reintroduzione della coscrizione obbligatoria. Il principale tallone d’Achille della Russia è l’economia. La minaccia di guerra economica rappresenta, al pari delle armi nucleari (il cui impiego è però scarsamente credibile in caso di aggressione rapida e limitata), il fondamento della dissuasione occidentale a favore degli Stati baltici. In essi, però, non sono in gioco interessi vitali degli Stati Uniti. Pertanto, qualsiasi provvedimento adottasse la Nato non potrebbe evitare il fatto compiuto della loro occupazione. In caso di conflitto con la Nato sarebbero comunque le popolazioni slave della Russia a subire le maggiori perdite. Verrebbero così modificati gli attuali rapporti etno-demografici a favore di quelle centrasiatiche e islamiche. Un ulteriore elemento, questo, che agisce da freno inibitore per Mosca. In sostanza, la Russia gode di una superiorità strategica a breve termine, ma se il conflitto si prolungasse verrebbe surclassata dagli Stati Uniti. In questo, la sua situazione strategica è simile a quella della Germania nei due conflitti mondiali. Improbabile è quindi il ricorso deliberato alla forza. Mosca deve effettuare attacchi a sorpresa e conseguire rapidamente obiettivi definitivi che inducano l’Occidente a evitare un’escalation. Ciò è però impossibile, data la separazione esistente fra Europa e America. Azioni limitate agli Stati baltici non potrebbero dunque evitare una guerra prolungata. Gli strateghi del Cremlino ne sono probabilmente consapevoli e giudicano il rischio inaccettabile. Nell’Europa baltica e in Polonia la Nato può dormire sonni tranquilli.