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 2016  dicembre 11 Domenica calendario

FEEDBACK– LA BARI DI GIANFRANCO DIOGUARDI


Bari interpreta magnificamente quella propensione che il grande storico francese Fernand Braudel assegnava all’Italia: “Qui [nel Mediterraneo] l’Italia trova il senso del proprio destino: è l’asse mediano del mare, e si è sempre sdoppiato, molto più di quanto non si dica di solito, tra un’Italia volta a Ponente e un’altra che guarda a Levante”.
Bari centro del Mediterraneo: mi sembra sia proprio questo il destino di questa città delimitata a levante dal Mare Adriatico e a ponente dalla terra di Puglia con le sue ubertose campagne, le assolate pianure da tavoliere, le scoscese vallate che la collegano agli altri mari, allo Ionio e poi al Tirreno. Bari, città frontaliera all’Albania con la quale intrattiene importanti rapporti commerciali, è soprattutto bagnata dallo stesso mare che lambisce le coste greche, quel mare che fu anche il mare di Ulisse, quel mare che consentì al sapere ellenico di diffondersi rendendo così Magna Grecia la terra di Puglia.
L’onda del mare greco trasportò il sapere dei popoli ellenici dall’Est e dal Sud verso Ovest e verso Nord. Superò così gli oceani per generare, nei nuovi mondi, la capacità di fare, d’intraprendere, di produrre ricchezza. E la Magna Grecia, la Puglia, Bari furono il crocevia dal quale transitò appunto quel flusso di sapere.
Pensieri che si muovono nel ricordo, e che riemergono poi ogni qualvolta ritorno nella terra delle mie radici.
In essa convivono almeno tre anime: la grande e nuova periferia, che sembra voler esprimere l’ansia di un’affannosa conquista della campagna, circonda le linee geometriche e squadrate della Bari murattiana e fascista, il cui rettangolo molto ben definito si adagia sulla “Bari vecchia”, l’antica città così personalizzata nelle sue linee contorte e involute e pur tuttavia sempre molto eleganti.
Sono sempre attratto dall’ansa del molo piccolo, dal suo faro e dall’antistante circolo canottieri Barion: tre architetture emblematiche della città, progettate da mio padre architetto, negli anni Trenta. Poi, sono incuriosito dai lunghi moli del “porto grande” che disegnano sull’Adriatico una sorta di quadro astratto: mi ricordano le composizioni di Paul Klee e di Piet Mondrian.
Circondano il “porto grande” le due penisole che lo definiscono: a nord quella caratterizzata dal vecchio faro, adiacente al territorio sul quale si sviluppa la Fiera del Levante; verso est, quella della “Bari vecchia” con il suo dedalo spettinato di viuzze strette e contorte che rendono i tetti delle case confusi fra loro, riuniti quasi in una continuità interrotta soltanto dagli ampi spazi bianchi di San Nicola, della Cattedrale con il suo splendido campanile e del Castello Svevo. Sulle due penisole l’apparente confusione urbanistica contrasta con la lineare simmetria del territorio posto al loro confine: a nord, la Fiera del Levante, squadrata intorno alla sua piazza centrale; a sud, la magnifica scacchiera murattiana, così rigorosamente perfetta nelle sue vie ortogonali interrotte dai pochi giardini, quello di piazza Umberto e l’altro di piazza Garibaldi, così rari e forse proprio per questo in evidenza nel tessuto urbano in genere denso e compatto.
La zona della città a forma triangolare che affaccia sul mare è delimitata appunto dal Lungomare, ancora assolutamente rettilineo, addolcito dalla piccola rotonda prossima al vecchio Albergo delle Nazioni. Verso l’entroterra, il grande riquadro formato dalla ferrovia, cui si affianca la via dell’Estramurale, crea un evidente distacco dalle aree di espansione, dove ritornano le strade di penetrazione con linee appena incurvate, zigzaganti, mentre le costruzioni riassumono ancora un aspetto che ricorda la confusione delle due penisole.
Il quartiere San Paolo sembra invece un’isola – certo non felice per l’evidente ghettizzazione – legata alla città dal cordone ombelicale del grande viale Europa. Poi, piano piano le case si diradano e incomincia a far capolino la campagna. Fra questa e il territorio costruito si determina così una zona d’ombra, frastagliata e disuniforme, quasi a rappresentare metaforicamente una medusa che, con i suoi tentacoli, sembra voler avvinghiare in una morsa – d’amore o di morte – i diversi quartieri della periferia urbana.
Nel mio peregrinare per immagini nella città, mi soffermo laddove confluiscono strade importanti: i due corsi Cavour e Vittorio Emanuele, e i due lungomari – Imperatore Augusto e Nazario Sauro – che s’incontrano in quel baricentro che fu pieno di vita, costituito dal Teatro Margherita, dal Circolo della Vela e dal vecchio mercato del pesce in adiacenza alla piazza Mercantile.
Le antiche passeggiate si svolgevano proprio sul lungomare Nazario Sauro, tra i suoi giardini che iniziano in piazza Eroi del Mare: giardini scarni ed essenziali, manifestazione concreta della carenza di verde che da sempre caratterizza la nostra città. Nella memoria della mia infanzia c’è, infatti, una totale assenza di giardini dove poter giocare e sono ricordi che si specchiano nell’attualità.
Quando sono a Bari, racconto a me stesso le emozioni che questa città così inafferrabile sa comunque provocarmi. Sono emozioni che sgorgano mentre mi soffermo presso le antiche mura della città che un tempo erano quasi a picco sul mare.
Ammiro quel mare, e l’ampio lungomare che oggi costeggia la penisola su cui insiste l’antico nucleo abitativo per poi cingere in una sorta di carezza la nuova Bari, che così si apre proprio su quel mare. Il lungomare della città vecchia sembra voler nascondere la città nuovissima, generata dalla più recente espansione urbana. Ho però nella mente l’immagine di una brutta periferia, anzi di tante periferie emarginate, caratterizzate da quartieri che ormai coronano, assediandole, le due città, l’antica e la nuova. Su queste immagini, non tutte liete, fortunatamente trionfa ancora il più importante monumento, vero simbolo della città. Mi riferisco alla stupenda Basilica di San Nicola, costruita per onorare il santo d’Oriente le cui spoglie furono trafugate verso la fine del primo secolo dopo il Mille, dai marinai baresi che le sottrassero a Myra, nella bassa Turchia, terra d’origine del santo. Per analogia affiora nel ricordo la Cattedrale, chiesa madre per eccellenza, incuneata nel dedalo labirintico di vecchie costruzioni della Bari medievale, cui fa da contrasto l’equilibrato spazio del cortile arcivescovile con la sua dimensione architettonica davvero straordinaria. Alla monumentale chiesa fa da contrappunto, a pochi passi, il castello detto ‘svevo’, ma in realtà espressione delle molteplici dominazioni che resero questa città normanna, bizantina, araba ancora prima che italica. Dunque, anche i diversi simboli architettonici servono a complicare l’immagine unitaria di una città che mi scorre nella mente come un film accelerato.
Cerco di arrestare le immagini di queste testimonianze dell’antica civiltà barese. Le ho accarezzate sin da bambino, ed è per questo che le sento mie, come la “Bari vecchia”, come la Bari murattiana.
I ricordi lontani, i pensieri vicini, le speranze future si stagliano così su un’immagine di Bari sempre più difficile da afferrare.
Questa città è davvero camaleontica, come spesso lo sono i suoi abitanti. È una città difficile da racchiudere in un’immagine unitaria, anche perché è in costante trasformazione e modifica, giorno dopo giorno, il suo assetto sociale, economico, culturale.
Una realtà variegata, con i suoi momenti di amarezze e di ansie, con le gioie piccole e grandi che Bari mi fa comunque sempre apprezzare come espressione concreta e complessa del misterioso, ma sempre molto affascinante, mestiere di vivere.